Spocchie editoriali


LibriQuando ero piccola, con il naso infilato nei libri, pensavo che la letteratura fosse il migliore dei mondi possibili. Ci sono cresciuta, fra i libri. I libri di mio nonno, della sua libreria che  chiamava “Sapere”. Una libreria d’altri tempi, in cui quando entravi il commesso non ti chiedeva di recitargli lo spelling di Borges, e non ti guardava con la faccia da tonto se per caso chiedevi qualche consiglio. Lui, mio nonno, sempre curvo, sempre a leggere, sempre a studiare e consigliare, era il mio piccolo faro che accendeva un mondo che imparai presto, prestissimo, a conoscere.
Entravo nelle storie che leggevo, mi accucciavo in mezzo alle righe, facendomi spazio fra le vocali e le consonanti, appoggiata col fiato sospeso a quelle parole di carta che mi incantavano. La magia delle parole non si impara. La magia delle parole si ascolta. Vibra dentro di noi, percorre la pelle come un sussurro leggero, ci accarezza i capelli e gli occhi stanchi. Man mano sono diventata amica di tutti gli scrittori che ho letto, li ho frequentati con una confidenza costante, come una ripetuta, quotidiana, merenda con le amiche. Da grande, pensavo, voglio vivere in questi mondi profumati di storie.
A volte accade di realizzare quello che sogniamo da piccoli. Succede così, per ventura, per un gioco bizzarro della vita che ti getta, un giorno, in un posto, e in quel posto ritrovi un sapore che ti è familiare.

Ci ho lavorato, con quelle parole e quei libri che inseguivo da piccola. E tuttavia, tuttavia ero ancora infarcita di un romanticismo lievemente imbecille, col senno di poi. Un idealismo ingenuo, in cui editori e scrittori brillavano alla magnifica luce della Letteratura.

Non sempre, però, leggere tanti libri ci fa essere persone più meritevoli di altre. La cultura non significa, di per sé, allargamento della coscienza, perché l’Ego, in queste geografie, cresce a dismisura. E alla fine trionfa.
E così mi sono resa conto che editori e scrittori non galoppavano sul bianco cavallo dell’Intelletto connesso con il Cuore, ma vomitavano invece ansie, pretese, ambizioni. E spocchia. Tanta spocchia.
C’erano (e ci sono ancora, qui a Roma) editori che magnificavano le librerie con le loro belle collane sui diritti civili, e nel frattempo tenevano in nero il loro ufficio stampa e facevano lavorare gratis un esercito di ragazzini, c’erano scrittori i cui confini terminavano nell fragile perimetro neuronale che li definiva, c’erano persone che usavano il libro e le storie degli altri per non guardare la loro esistenza. E, soprattutto, c’era quell’amaro mare di spocchia.

E ancora oggi mi domando per quale strano motivo, nella testa di molti, chi fa libri debba essere migliore di altri.
Non lo è. Ciò che ci rende migliori non è ciò che abbiamo letto ma ciò di quelle letture è rimasto.
Soprattutto, non è con la presunzione intellettuale che si cresce, si va avanti. La vita è strana però perché non sempre ciò che appare “fuori” corrisponde a ciò che appare “dentro”. A volte  chi scende  sale, e chi sale scende. Toh, com’è buffa la vita.
Dipende sempre dai punti di... svista.

Non siamo i più belli, i più bravi, i più intelligenti “perché facciamo libri”.
No, fare libri non ci rende superiori a nessuno. E se te ne accorgi sei fortunato. Altrimenti, continui a girare con nasino all’insù senza guardare le ombre immense che ti trascini dietro.


In questo settore ho conservato (pochi) amici veri, persone umili, ironiche, che non hanno mai perso il senso e la misura del mondo intorno. Non fanno parte di quella cerchia chiusa che non vuole contaminarsi con le puzze degli altri, di quelli “che non fanno cultura”.
Loro, questi amici, questi colleghi, hanno saputo guardare oltre l’icona di ciò che facevano, e l’hanno tirata giù, l’hanno pestata e le hanno donato un senso più reale.


E hanno capito che c’era anche un altro mondo, là fuori, fuori dalle alchimie espressive, dalle dorate pagine delle storie più belle, dai messaggi profondi che si incidevano sulla carta stampata. C’era un mondo vero, un mondo vero fatto di sfruttamenti e incoerenze, piagato dall’arroganza e da un falso senso di superiorità.

E, come me, hanno sentito poi che il libro non è né l’origine né la fine della vita, di ogni vita, della mia, della tua, della nostra; ma è solo un mezzo. Un mezzo sublime, eccellente, che ti trasporta oltre, se vuole, e se vuoi tu. Ma sempre un mezzo.
Uno strumento. Perché la vita “vera” non è quella che leggiamo, è quella che viviamo. Vivere e agire, questo soltanto dimostra chi siamo.

La vita "vera" sta conficcata nella nostra carne, nei nostri errori, nei nostri atteggiamenti. Se ne frega se conosciamo a memoria il pensiero di Kant e le poesie della Dickinson, o le tecniche espressive di Proust.

Esiste una "fisiognomica delle azioni," e non sbaglia mai. Ciò che leggiamo, invece, se non si traduce, se resta sospeso nella riga di un libro, non serve a nulla, proprio a nulla. E quante vite, in quel mondo, non coincidono affatto con quei nasi all’insù e la beata (e autoproclamata) assunzione celeste di una sorta di agiografia letteraria.
Amo i libri, li amerò sempre. E sempre scriverò, e la scrittura continuerà a essere anche un mestiere.
Ma quando ripenso alla ragazzina che ero, alla sua visione ideale di un mondo di carta migliore, penso che ho lasciato indietro pezzi di me ma che, alla fine, sono più ricca. E, soprattutto, più leggera.

Francesca Pacini - giornalista, art director.

Francesca Pacini è giornalista, art director, docente. Sempre in moto, vive e lavora tra Roma e le Marche, dividendosi fra più contesti, tutti però legati alla parola e all'immagine che a volte la accompagna. Non trova mai pace: il suo motto è "lavori in corso".

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