Conversazione sulla letteratura

di Sara Meddi


vincenzo ostuni

Vincenzo Ostuni ha collaborato con alcune delle più importanti case editrici romane, fra cui Fazi e minimum fax. Ora lavora come editor per Ponte alle Grazie. La sua conoscenza spazia dalla saggistica alla narrativa, passando attraverso la poesia, di cui è un profondo estimatore (scrive versi lui stesso, da sempre). Che cosa trasforma questa passione in um mestiere? Cosa serve, oggi, per arrivare dove è arrivato lui?

 

Caro Vincenzo, tu hai studiato Filosofia e Psicologia. Ognuno di noi ha un percorso diverso, tu come ti sei avvicinato all’editoria?

Io mi sono sempre interessato di letteratura, anche durante i miei studi, e in particolare ho sempre scritto poesie. Nel ’91 ho partecipato a un concorso di poesie e lì ho conosciuto un po’ di persone con cui poi ho fatto un cenacolo poetico. Tra queste persone c’era Marco Cassini, che poi ha fondato prima la rivista e poi la casa editrice minimum fax, e Simone Caltabellota che è stato editor e direttore editoriale di Fazi. Quando facevo il dottorato in Filosofia la borsa di studio non mi era sufficiente per vivere così Marco Cassini mi offrì un lavoro part-time come segretario di redazione della rivista Lo Straniero, che all’epoca era pubblicata da minimum fax. Così sono rimasto nell’editoria, prima da minimum fax e poi da Fazi come editor. Mi sono avvicinato un po’ per caso quindi, è stato un secondo mestiere che poi è diventato un primo mestiere.


Tu, appunto, hai lavorato per diverse case editrici (minimum fax, Fazi, Ponte alle Grazie), ogni casa editrice è un progetto a sé e ogni libro anche è un progetto a sé. Mi interesserebbe però sapere se c’è un progetto o un libro che ti è rimasto particolarmente nel cuore.

Il progetto, o l’idea, alla quale sono più affezionato è quella che si possa coniugare la letteratura con un progetto destinato a un pubblico ampio. Sono molto affezionato quindi al progetto della saggistica di Fazi per come, tra gli anni 2002 e 2007, andavo a svilupparlo. “Le terre” era una collana molto articolata che dava spazio all’attualità politica e che ha avuto dei successi importanti come, per esempio, con i libri di Gore Vidal e che, allo stesso tempo, è riuscita a produrre della saggistica di altissimo livello, penso alla serie “Pensiero” in cui pubblicammo libri di filosofi importanti come Nozick e Putnam e alla serie “Arte” nella quale pubblicammo testi storici come "Postmodernismo" di Fredric Jameson, ancora inedito in italiano. E penso anche alla serie in cui riuscimmo a convincere gli scrittori più interessanti dell’ultima generazione a parlare di temi di storia culturale, quindi Nicola Lagioia scrisse di Babbo Natale, Francesco Pacifico di San Valentino, Paolo Zanotti dei gay. 
Da Ponte alle Grazie adesso stiamo lavorando, nella collana “Scrittori”, per creare un contenitore per le scritture di punta che si possono trovare oggi in Italia e non solo in Italia.

 

Riflettendo sulla narrativa e sulla tua esperienza con gli editori, mi viene da chiederti: cosa inviavano alle case editrici gli aspiranti esordienti di dieci anni fa e cosa invece inviano adesso?

Questa è una domanda interessante. Non c’è un enorme cambiamento devo dire.  Quando io ho iniziato a valutare manoscritti c’era già un’omologazione verso il basso o comunque un livello generale molto basso, ma questo può essere stato vero anche negli anni ’50 o negli anni ’20, non ho i mezzi per valutarlo. Sicuramente oggi arrivano più romanzi di genere e, in particolare, di genere poliziesco o thriller rispetto a quanti ne arrivassero dieci o quindici anni fa. Io ricordo che prima riscontravo una più alta percentuale di esperimenti letterari, magari del tutto pretenziosi, che si rifacevano di più alla grande tradizione letteraria del ‘900. Adesso, forse più facilmente, si strizza l’occhio a quei generi che hanno più presa sul pubblico, senza avere grandi pretese stilistiche, ecco.

 

Tu ti sei occupato molto di poesia che forse è il genere meno letto e meno venduto oggi in Italia. Personalmente quale pensi che sia lo stato di salute della poesia italiana? C’è ancora spazio per fare poesia?

Io mi sono sempre occupato di poesia e, paradossalmente, non ho mai pubblicato molta poesia proprio perché oggi pubblicare poesia è molto difficile. Per Ponte alle Grazie ho pubblicato un solo libro di poesia, che è andato abbastanza bene e che è Che cosa è per me la tua bocca di Cummings. Però, appunto, è molto difficile fare collane di poesia di ricerca e in particolare di poesia contemporanea. Tuttavia lo stato della poesia italiana è molto buono e ho cercato di darne testimonianza in un’antologia di poeti contemporanei che ho curato per la casa editrice Ponte Sisto che si chiama Poeti degli Anni Zero, poeti dai 30 ai 45 anni circa che secondo me danno un buon quadro della poesia, di una poesia non retriva, non svenevole, non lamentosa. Un certo tipo di poesia molto tradizionale, molto tradizionalmente lirica, predomina invece nelle poche collane di poesia che sono rimaste, le maggiori di fatto sono solo due, Mondadori ed Einaudi. Entrambe continuano a fare un lavoro importantissimo e di grande qualità per quanto riguarda la poesia straniera mentre per quanto riguarda la poesia italiana sembrano orientate al ribadimento di un gusto molto conservatore. La grande difficoltà, quindi, di pubblicare e distribuire poesia contrasta con un livello di sperimentazione ed elaborazione che è invece molto alto, molto più alto secondo me di quello che si poteva riscontrare negli anni ’80 e ’90.

 

Sappiamo bene che nonostante la crisi, e la crisi nell’editoria in particolare, in tanti giovani è ancora viva la voglia di lavorare nell’editoria. Tu che consigli ti senti di dare a questi ragazzi?

Penso che il consiglio sia quello di seguire le proprie aspirazioni, se rinunciamo a farlo, se smettiamo di essere “choosy” siamo rovinati. I problemi della tua generazione non sono tanto diversi da quelli che ha avuto la mia di generazione, diciamo che dai 40-45 anni in giù abbiamo  più o meno avuto gli stessi problemi di precarizzazione, di scarsità di lavoro. Quando io avevo 26-27 anni ed entravo nell’editoria il tasso di disoccupazione giovanile era simile a quello di adesso, poi è diminuito a causa della precarizzazione e poi è fisiologicamente aumentato nuovamente nel tempo. Io a 27 anni vivevo lo stesso tipo di precarietà con la quale vi confrontante voi. Quindi se volete davvero lavorare nell’editoria provateci, dopodiché bisogna essere il più aggiornati possibile su tutte le frontiere che si stanno dischiudendo, come l’editoria elettronica. È sempre più facile che una parte del mercato si evolva in quella direzione, ed è comunque più facile trovare lavoro nei settori dell’editoria elettronica perché gli editori al momento non investono quasi in nulla però, se investono, investono in quello. È presumibile che quel settore cresca nei prossimi anni quindi è importante essere preparati su tutti gli aspetti sia tecnici e sia qualitativi del testo. E poi inviterei a fare delle riflessioni importanti sul regime di vita, il desiderio di lavorare nell’editoria c’è sempre stato perché indubbiamente è un bel lavoro ed è altrettanto vero che è difficile avere dei compensi alti. Quindi se l’aspirazione, che è del tutto legittima, è quella di avere uno stile di vita alto, se si pensa di non poter tirare la cinghia allora tanto vale rinunciare in partenza e cercare un’altra soluzione. Se invece si è disposti a sopportare delle restrizioni economiche per lavorare in questo settore allora vale assolutamente la pena provare a perseguire le proprie aspirazioni.

Sara Meddi - redattore.

Sara è nata 27 anni fa vicino Roma. Con ostinata tenacia si sta laureando in Lettere classiche alla Sapienza e, sempre con ostinata tenacia, lavora da qualche anno nell'editoria romana. È caporedattrice della rivista La stanza di Virginia.

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