Questa lontananza così vicina di Paolo Di Paolo

di Marina Brunetti


Perrone Editore, 2009


questa lontananzaQuesta lontananza così vicina

Non so come chiamarla

per quanto la tocchi col pensiero

La notte che va a picco

la città come un monte franato […]

(Octavio Paz, El balcón)

 

La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. “Vivir para contarla” titolava infatti García Márquez uno dei suoi capolavori, riassumendo in tre parole l’afflato necessario che ci occorre a non gettare, nell’oblio del fiume Lethe (Λήθη), il bagaglio sofferto di memorie legate a chi abbiamo perduto. È così che ci troviamo a rivivere e a trasmettere, come tristi e moderni rapsodi, i momenti legati a qualcuno che ci manca, a qualcuno non più in vita. Paolo Di Paolo ci consegna e tramanda un dolce e sentito scritto, “Questa lontananza così vicina” (Giulio Perrone Editore, 2009), il suo personale “non omnis moriar” oraziano, in memoria della sua insegnante prematuramente scomparsa, alla ricerca di un’appropriazione, attraverso l’urgenza grafica, della propria esistenza, una restituzione di sé a se stesso o di qualcosa a qualcuno:

«Scrittura come risarcimento. Ti racconto perché tu viva ancora […]» […] «Doveva essere un’operazione di salvataggio. Di me stesso, per cominciare. Di Me com’ero a sette anni, di tutti i Me-morti che mi porto dietro». (ibidem, p.46-47)

Sarebbe di conforto se all’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto, al momento della nostra dipartita, o più tardivamente, qualcuno avesse la premura di prendere, tra le lacrime, un nostro diario di memorie e ci sfogliasse con i cinque sensi come facciamo con un libro? Che potesse, in modo finalmente terso, leggerci come mai fece in vita, fiutare i malumori, ascoltare i pianti occulti, toccare cicatrici, che scrutasse tra le pieghe e sotto l’insana maschera di ferro che smettiamo solo con la morte, per gustare il nostro io più vero. Saramago, ne La caverna (2001), diceva che ogni persona non è un’isola,«ogni persona è un silenzio, questo sì, un silenzio, ciascuna con il proprio silenzio, ciascuna con il silenzio che è». Dunque, per non perpetuarlo all’infinito, quel silenzio va almeno blandito da uno scritto e dovere di chi scrive – e rimane in vita – è scavare l’interiorità, perché «di scendere a fondo non si finisce mai», sosteneva Raffaele La Capria, «si tende sempre a privilegiare ciò che sta fuori, ciò che si vede, facendone una cronaca […]», mentre:

«ogni scrittore – dice in “Ferito a morte” dovrebbe sentire questa ferita; soltanto se sa cos’è il dolore di questa ferita, può sperare di mettere un poco di vita in quello che scrive. Soltanto se cerca di fare vero un Io, se incontra continuamente sé stesso». (ib., p.48)

Sembra quasi impossibile, perciò, affondare i propri remi e tirar su l’interiorità di un altro, melma e perle, dato che non siamo altro che scatole cinesi, siamo contenuti da e conteniamo tutti coloro che hanno incrociato la nostra “strada non presa”, perché qualcosa anche a loro ci accomuna, ma soprattutto a quella meno battuta che abbiamo scelto per noi:

«Ma da dove viene questa fame di vite altrui? […] Mi affascina pensare, di tanto in tanto, al novero di esperienze, percezioni, sentimenti che incrociano la vita di ciascuno – e la incrociano in fondo con la medesima melodia e intensità. Cambiano sfumature, ambientazioni, ma i gesti sono quelli: teste che penano per trovare la giusta inclinazione, labbra che lentamente si magnetizzano […] Più che la letteratura poté la chimica». (ib., pagg. 25-26)

Una docente avverte su di sé tutto il peso dell’essere “canna al vento“ tra i giudizi degli allievi, e viceversa; capita però che uno studente, tra quelli che non la maledissero, riesca a scoprire la chiave di lettura per aprire la sua serrata porta interiore, o quel che lei lasciava trapelare. E a evitarne la dimenticanza. Ma come? Complice anche il buon rapporto tra loro instaurato, Paolo Di Paolo, da lei ludicamente chiamato “Of Paul”, attinge alla cesta dei ricordi di scuola che lo legano a D., a creare con attenta mano l’origami prezioso, non privo di gambi spinosi, partendo dall’ultima lettera che D. invia a sua madre, una missiva asciutta, densa di direttive impartite da chi è adusa al comando, ma che tradisce anche una sua tenera, finale vanità. Nel nostro diogeniano, altruistico tratteggio, lo sguardo mnemonico pecca nei dettagli e il nostro autore comprende quanto le esperienze per D. fossero importanti, nell’insegnamento, per alimentare una sua “misteriosa caldaia interna”, che teneva al riparo di una lorica ostentata, da cui sgattaiolava fuori, di tanto in tanto, qualche spiffero d’affetto:

«Succede così, succede che spesso, nell’immagine che noi tracciamo degli altri, finiamo col trascurare dettagli essenziali: non li vediamo, non riusciamo a vederli. […] Se di qualcosa finalmente veniamo a capo assommando segni e indizi (carte ingiallite come queste che ho davanti), dobbiamo ritenerlo un piccolo, vitale miracolo». (ib., p.22)

A fronte della superficialità con cui d’istinto giudichiamo un essere senziente, anche docente, dal viso che mostra, dallo scomodo biglietto con cui diventa passibile, ai nostri occhi, di simpatia o antipatia, vale dunque la pena soffermarsi a scorrere le pagine postume che ha scritto, perché quelle sono il fidato linguaggio di sé. A proposito del poco sapere degli altri, di questa continua recita a soggetto che è la vita e del fatto che, spesso, quello che noi crediamo di vedere delle persone non è che, appunto, l’involucro che la natura ha scelto per noi, Kundera ne “L’immortalità” fa dire ad Agnes, rivolta al marito:

«Sì, tu mi conosci per il mio viso, tu mi conosci come viso e non mi hai mai conosciuto diversamente. Non poteva neanche sfiorarti l'idea che io non sono il mio viso». […] «Immagina di vivere in un mondo dove non ci sono specchi. Il tuo viso lo sogneresti e lo immagineresti come un riflesso esterno di quello che hai dentro di te. E poi, a quarant'anni, qualcuno per la prima volta in vita tua ti presenta uno specchio. Immagina lo sgomento! Vedresti un viso del tutto estraneo. E sapresti con chiarezza quello che ora non riesci a comprendere: tu non sei il tuo viso».

Dovremmo supplicare il destino, come fa dire la Barbery a Renée la portinaia, di darci la possibilità di vedere al di là di noi stessi e di incontrare qualcuno:

«Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire». (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, p.136)

«Smettere di raccontare significa anche far morire» (ib., p.87). Se, quando accade un evento di una qualsiasi importanza, non vi è, in quel dato momento, una telecamera a riprenderlo o un occhio testimone a fissarlo, quell’evento non è mai accaduto; così ciò che è stato può smettere irrimediabilmente di esistere, se nessuno lo ricorda, ed è forse ciò che intendeva il poeta Mario Luzi, quando scriveva: «Noi siamo quello che ricordiamo il racconto e’ ricordo e ricordo e’ vivere». E ancora, è proprio per evitare che vivere significhi solo quello che afferma Sartre(La nausea, 2003, p. 166-167), quando dice che «l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla nemmeno un ricordo. […] Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione», che Di Paolo si interroga se vi siano altre possibilità dell’esistenza che possano essere esplorate. Si chiede anche se sia possibile oltrepassare, in qualche modo, la soglia dell’imminenza, della parzialità, dell’incompletezza e incompiutezza del vivere, cui ogni singolo uomo è irrimediabilmente legato. Decide quindi di intraprendere ancora, mosso da misteriosa necessità, il tragitto che aveva fatto accanto a D. durante una gita scolastica, tra i luoghi in cui era nata, a Casale, assecondando un suo atto restitutivo post mortem, non solo in una dimensione temporale, ma anche spaziale. Il Piemonte, culla natia di lei, ma anche di Gozzano, Pavese e di Lalla Romano, che tanto amava e consigliava ai suoi studenti. Quant’è importante il territorio circostante, nella nostra vita? Quanto conta il paesaggio affinché la nostra solitudine possa chiudere il suo cerchio quieto?

«Pensai alla collina nebbiosa della mia finestra, ai miei boschi lontani velati dal sole […]. - La sua solitudine, precisò il professore tornando al lei, ha bisogno del paesaggio?». (Lalla Romano, Una giovinezza inventata)

Tutto concorre alla ritrattistica del nostro mondo interno, conta quello che i nostri occhi hanno visto e archiviato; forse il “passato non esiste”, moraviamente parlando, ma forse, ancora di più, non ci occorre che il dato evento sia accaduto ieri o ieri l’altro, «ha importanza il peso che ha acquisito in noi, il senso che il tempo gli ha attribuito» (ib. p.69) e, vorrei aggiungere, ciò che l’ha reso humus nostro, sostrato interiore, pacificato cemento. Nasce perciò l’istinto di sopravvivenza del nostro ricordo, «tutto quello che è deve continuare a essere», diceva la Romano ne “Le parole tra noi leggere”; questo può avvenire solo se accettiamo il sacrificio personale, come lo fu per lei l’inaccettazione del libro da parte del figlio, di tradurre agli altri o al foglio di carta, «dietro alla nettezza della pagina, dietro all’essenzialità della prosa […] il materiale ustorio, il risultato di una caccia grossa nelle regioni più intime dell’esistenza». (ib. p.70)

La Romano spietata, ironica, austera come D., gli mostra come annodare quel “tormento senza nome che stilla veleno”, gli fornisce acronicamente le appropriate parole, le giuste pose emotive per elaborare il lutto, quando rivela come riuscì a salvarsi dalla morte del marito Innocenzo, ricorrendo alle parole di Sant’Agostino:

«Mi ricordai di Agostino:Scendi in te stesso”. È stato un attimo, mi ha salvata». (ib. p.95)

L’umiliazione della morte. Che cosa può mai riscattarla? Forse solo il pensiero in noi di quelle presenze. Siamo costretti da una forza interna a compiere una sorta di pellegrinaggio, a far rivivere luoghi che gli stessi defunti hanno abitato visitandoli, per respirare l’aria che teneva loro in vita, torniamo ai loro scritti, come per carpire qualcosa di inedito, torniamo agli oggetti della loro esistenza, alle loro foto, alle speranze e ai progetti, rimasti a metà. Fino a giungere ai loro segreti, di cui non ci avrebbero messi a parte e che ora siamo capaci di svelare, eccetto quello inafferrabile di cui parla Hofmannsthal, e che ogni uomo porta con sé: «Come gli sia stato possibile spiritualmente vivere». Questo tentativo di colmare la distanza tra l’autore e la docente resta un toccante “tema di maturità fuori tempo massimo”, un lungo e tenero epitaffio personale, una rapida mano che deterge lo specchio appannato riflettente l’immagine di D., prima che questa scompaia del tutto; gesto che, come diceva Enzo Siciliano, possiamo rendere concreto attraverso la scrittura del nostro romanzo di vita e riuscendo a fare vero il nostro io.