Grandi schermi, piccoli uomini. Gli italiani nel cinema americano.


picciniIl cinema è immagine ossia immediatezza e al tempo stesso è memoria, poiché è la conservazione dell’immagine nelle conoscenze dello spettatore che crea in un primo temo un’affabulazione ed in seguito una tradizione orale e non solo che porta ad un’autentica riproduzione culturale. La stessa storia dell’emigrazione italiana, per fondate e riconosciute ragioni, necessita di energie e di processi riproduttivi in molti sensi tributari o riconducibili all’oralità. Il fenomeno dell’emigrazione è coevo alla comparsa ed allo sviluppo del mezzo cinematografico e l’elemento che con qualche licenza poetica possiamo chiamare “l’occhio della cinepresa” ha senza dubbio colto una serie d’aspetti ad essa connessi. Una serie d’aspetti, dico, non eccessivamente vasta, in quanto all’epoca dei bastimenti in navigazione per le Americhe e del doloroso sradicamento dalla Patria, ci sono giunte immagini in massima parte retrospettive e quasi sempre viziate da una facile retorica. L’emigrante italiano – che in un determinato momento farà cinema e vedremo come – “diventa” cinema durante il suo non sempre felice inserimento. Non è un caso che al rincorsa degli stereotipi, segnatamente del personaggio recisamente riconosciuto come “il gangster” parta dagli anni Trenta, contemporanea agli ultimi fasti del proibizionismo e che porti sullo schermo una figura emergente e dalla tragica catarsi, di boss. Il mito negativo di Al Capone, traspare nei personaggi di malavitosi dalla resistibile ascesa, ritratti nei giorni cruciali della propria amara parabola. Curiosamente quasi sempre interpretati da attori di origine ebraica, “Piccolo Cesare” del 1930 è impersonato da Edward G. Robinson e “Scarface” del 1932 da Paul Muni, i gangster italo – hollywoodiani non presentano i segni di una ricerca naturalista che li potesse modellare dalla fauna attiva sui marciapiedi e degli slums più delle tare riscontrabili in personaggi da tragedia shakespeariana. Vero è che il personaggio di Paul Muni porta il medesimo soprannome con cui Alphonse Capone era noto a Chicago, ma ugualmente vero è che al rovina del capo divenuto troppo potente non si potrà imputare ad una decisa azione di polizia ma alla sua follia tragicamente innescata. Ed avverrà inoltre che negli anni ’80, un film dallo stesso titolo e dalla trama estremamente simile, avrà come protagonista un gangster cubano a dimostrazione di un filo rosso che identifica il crimine organizzato con l’emigrazione più disperata e recente.

Gradatamente, il cinema americano decide di porre l’attenzione sui particolari più noti e riconoscibili fra quelli che caratterizzano la comunità italiana e alla panoramica mai totalmente esaurita sulla storia e l’azione dei grandi clan mafiosi si affianca la disamina sulla cultura familista italiana. La famiglia italiana che presta se stessa la ritratto di Hollywood non è mai “grande” e non genera una saga, essendo questo un genere riservato alle stirpi anglosassoni; lo sguardo che al coglie, scegli un momento di particolare affanno in una salita modesta ma soddisfacente o l’anticamera di una crisi che spesso affonda in difficoltà di radicamento o di evoluzione. A farsi io narrante in queste occasioni, sono spesso giganti della cultura americana, che in seconda battuta pilotano nello schermo loro collaudate prove teatrali. “Uno sguardo dal ponte”, che porta la firma di Arthur Miller, nobilita in cadenze da tragedia greca passioni segrete e torbide che, in tempi di urbanizzazione e di omologazione, non avrebbero fatto che riempire pagine di cronaca. Il commediografo, si spinge oltre: gli obblighi parentali dell’ospitalità e del sostegno al parente nuovo immigrato, ancorché somigliare a convenzioni paesane, ricalcano usi antichi ed è nientemeno che un fato trasportato a New York insieme ai suoni del dialetto siciliano e alle valigie precarie a spezzare al tranquillità della dimora dei Carbone. Altra mano che sulla vita degli italiani d’America si è esercitata, più marcata nel tocco sensuale e quasi onirico, appartiene a Tennessee Williams, che il suo tipo di donna dalla sensibilità lancinante e dalla fragile complessione morale, bene ha saputo adattare a ombrose italiane disperse nel torrido sud ed interpretate invariabilmente da Anna Magnani. La piccola società, anche qui siciliana e riprodotta nel turgido dramma “la rosa tatuata” (1955) richiama ad uno stato “tropicalizzato” della stessa. Donne scalze e scarmigliate, si rincorrono per un quartiere che è quasi un villaggio, dove la superstizione si mescola con la pratica religiosa e contrabbando e prostituzione fanno parte del panorama. Se la protagonista, votata al culto della memoria di un marito fedifrago e coinvolto in loschi traffici, simboleggia tale di stato di sottosviluppo, la figlia sceglie la strada della ribellione e del distacco, integrandosi a pieno titolo nell’America dei giovani, con il conseguimento di un diploma e un fidanzato yankee. Un’altra Magnani di tetra passionalità adattata a Tennessee Williams, la si ritrova in “Pelle di serpente” (1959) in cui la rievocazione del linciaggio del proprio padre fa echeggiare un Sud poco conosciuto e spietato, dove la giustizia sommaria venne utilizzata frequentemente e atrocemente verso molti figli d’Italia colpevoli di troppa intraprendenza commerciale e di un troppo rilassato atteggiamento riguardo le questioni razziali. Le cifre ci raccontano che il gruppo etnico maggiormente martoriato dai linciaggi, dopo i neri, sia rappresentato dagli italiani. Altri italiani riprodotti in nucleo, residenti nelle grandi città e non necessariamente coinvolti nel fenomeno mafioso, ci sono vivacemente riportati da opere di sicuro spessore degli anni’50. La maggiore di queste, insignita di 4 premi Oscar e da svariate nominations, è “Marty” di Delbert Mann (1955): Lo scenario è il Bronx e gli italiani che vi abitano non si dedicano alla dolorosa arte d’arrangiarsi ma a professioni dignitose e retribuite. Hanno frequentato scuole regolari, parlano lingue straniere e somigliano pochissimo ai latin lovers dell’epoca. Il bar, il baseball, la TV e tutti gli accessori della vita americana, contrastano con l’autorità di madri anziane e possessive, la cena a base di spaghetti e l’innamoramento casto e tardivo ma forse felice. La forza della famiglia, esportata dall’altra parte dell’Atlantico, sta al centro di un altro dramma di derivazione teatrale che, precocemente, affronta la tematica della droga come retaggio di abitudini contratte in guerra. Si tratta di “Un cappello pieno di pioggia”, (1957) storia basata sulla forte relazione tra due fratelli, relazione che sminuisce anche l’autorità paterna. Il tentativo di uscire dall’universo della morfina è affrontato nell’ambiente familiare, l’unico forse conosciuto ed affidabile per il giovane reduce e lascia aperta la soluzione nel finale. Al contrario, nel misconosciuto e probabilmente mal compreso anche al tempo della sua uscita “Full of life” del 1956, tratto da un romanzo di John Fante e da lui stesso sceneggiato, un padre fiero della propria professionalità di muratore ed affatto scosso nel ruolo patriarcale che ha assunto per diritto di nascita, interviene non positivamente nella crisi umana e creativa del figlio, un intellettuale in procinto di formare una problematica famiglia. Il progetto del figlio scrittore di comporre un’opera sulla vita di un brigante abruzzese, fallisce miseramente, così come il tentativo di recuperare il rapporto col genitore; malgrado l’atmosfera tenue da commedia garbata, il film sancisce una perdita dolorosa e definitiva di radici.

Altre enclave, altre piccole Italie paesane e turbolente, affolleranno gli schermi dei decenni ’60 e ’70, quando l’attenzione alle minoranze, sia per quanto concerne i personaggi che gli autori di cinema,si farà sempre più ampia. Il grande successo commerciale e l’eco mai del tutto spenta anche grazie ai successivi sequel, ci spingono a riconoscere “Il Padrino “ di Francis Ford Coppola come la somma opera dedicata al mondo degli italo – americani. Non più un gangster – movie, né un film sulla mafia ma “nella” mafia, può essere letto come un racconto non immune da nostalgia intorno ad un’onorata società che non è più e che rassomiglia più ad un potere feudale che a uno spietato business, che non uccide che per difesa e non tratta la “polvere”. I mafiosi di Coppola trasudano onore e fedeltà, rispettano amicizia e obblighi, valutano premi e punizioni e non abbandonano mai l’aura bonaria dell’espressione dialettale e della pratica di cucina, dove nelle pause della guerra di mafia preparano allegramente mastodontiche pentole di salsa rossa. Oltre al greve luogo comune dell’italiano cuoco e goloso, un altro più aspro pregiudizio emana dalle figure del “Padrino”: l’organizzare complotti, il tramare e il tradire, senza conoscere compassione. Gli stolidi e minacciosi gregari di Cosa Nostra sono scherani dei Borgia rivestiti in completo a righe e cappello, i loro capi illetterati allievi del Machiavelli. Italiani, scriveva Flaubert tra i suoi luoghi comuni, tutti cantanti e tutti traditori.

L’affresco più vivido e certamente di maggiore impatto sociologico, si può considerare il celebrato (sia pure in ritardo e solo sulla scia del successo internazionale di Robert De Niro) “Mean Streets” che Scorsese firma nel 1973. In una Little Italy agitata dall’imminente festa di San Gennaro il buon vivere italiano e il buon andamento delle attività mafiose si mescolano pacificamente fino a confondersi. I giovani del quartiere, cattolici praticanti, vivono di traffici illeciti ed ascoltano con pari entusiasmo le hit delle star USA come le vecchie canzoni napoletane. Uno zio mafioso rappresenta l’opportunità di fare carriera, come altrove il conseguimento di un master universitario, il bar è scuola di vita e osservatorio sui fatti del mondo, ai quali si resta totalmente indifferenti, siano essi un omicidio senza movente o l’esplosione di follia di un reduce del Vietnam. Piatti di lasagne o di spaghetti, parafernalia che annoverano il busto di Giovanni XXIII a fianco di quello di Mussolini, canzonette e romanze che echeggiano ad ogni angolo, evocano l’Italia: tuttavia non è essa la Patria degli spaiati e disinvolti ragazzi di Scorsese e neppure sono Patria gli States dei quali risultano cittadini. La terra che i protagonisti si sono scelti e dalla quale non evadono che per brevi e sterili spostamenti è proprio il quartiere, con i suoi locali equivoci, le scommesse clandestine, lo slang parlato agli angoli, tra un lustrascarpe e un poliziotto compiacente.

Tanto nel “Padrino” che in “Mean Streets” si palesano, beffardi, due interventi della regia che si fa deus ex machina: la vittima dell’attentato mafioso più raccapricciante nel primo dei film,è il grande produttore cinematografico, scosso nella sicurezza della propria alcova, mentre nella seconda opera, il killer che, tra gesti scaramantici attenta alla vita dei due protagonisti, è addirittura lo stesso Scorsese, quasi chiamato a fare giustizia di una gioventù che, parzialmente, gli è certo appartenuta.

La teorie delle piccole patrie d’oltreoceano non si interrompe qui: si torna ai luoghi biografici di carriere delinquenziali, ancora una volta dipinti dall’impietosa mano di Scorsese, dove le grandi famiglie allargate dei clan conferiscono grevi sicurezze a ragazzi dalle problematiche origini e dove l’infinita e cospicua cascata di dollari tranquillizza e giustifica i protagonisti per ogni crimine. I titoli sono anzi tutto “Quei bravi ragazzi” (1990) resoconto dell’escalation criminale di un futuro “pentito” al quale, una volta venuta meno la protezione mafiosa, non resta che buttarsi nuovamente come soggetto subordinato, nelle braccia di uno stato che si fa protettore, compiendo ilo proprio destino di nullità ed ancora “Casinò” del 1995, un autentico film – saggio sul gioco d’azzardo, non esente dal mostrare toni nostalgici che ai pratici del tavolo verde sembrano appartenere da sempre. La caricatura non tralascia i personaggi e le situazioni delle due pellicole: i killer appena reduci dall’occultamento di un cadavere scempiato, si strafogano di pastasciutta cucinata dalla madre di uno di loro e i riti collettivi di matrimoni e battesimi sono celebrati con sfarzo e entusiasmo paesano. In “Casinò” i boss la cui potenza decide i destini della grande Las Vegas, sono bizzosi vecchi che cucinano in un retrobottega, altercando in stretto siciliano. Caricatura più marcata ed esplicita sarà tracciata in quel divertissement firmato da Brian De Palma (1986) che è “Cadaveri e compari” in cui i gangster sono messi in ridicolo calcando sugli aspetti più grotteschi della violenza e dell’avidità.

I personaggi “italiani” che il cinema USA continuerà a proporre nelle sue storie, non necessariamente marchiati dal sospetto di appartenenza all’universo criminale, si troveranno a fare parte di un’America che è sempre un grande paese ma si compiace delle proprie sfaccettature etniche. Il microcosmo italiano di “Stregata dalla luna” (1987) conserva, in un’atmosfera di successo economico e di ottima integrazione, caratteri originari indelebili. A Brooklyn, commercianti di specialità alimentari orgogliosamente italiche mantengono legami vistosi e felici con il paese non più dei padri ma dei nonni,: foto di antenati baffuti ed olografie napoletane caratterizzano le dimore, ma il comportamento sentimentale e sessuale diviene sempre più disinvolto e pienamente “americano”. I protagonisti mescoleranno e risolveranno vite e destini nella fatale serata della rappresentazione della “Bohème” di cui non si vedrà una sola immagine, essendo l’autentico melodramma quello messo in scena dalla vivace famiglia Castorini (anche l’Al Capone di De Niro in “Gli intoccabili”, dopo avere commissionato un feroce omicidio, si commuoveva per il dramma di Canio in “I pagliacci”) all’indomani la rassicurante apparenza di una quiete ritrovata apre il prossimo futuro.

Si potrebbero portare altri interessanti esempi in cui “l’italiano” fa da carattere aggiuntivo a personalità eminentemente americane e ottimizza la dialettica con cui i personaggi si confrontano con le realtà più svariate. Italiani sono i protagonisti di “Nick e Gino” (1988) delicata e malinconica commedia, dove un gemello ritardato mantiene con il proprio lavoro di spazzino l’altro gemello specializzando in medicina e dove un gravissimo fatto di cronaca riapre un passato familiare doloroso. Ancora “Palookaville” (1995), che porta chiarissime origini italiane essendo tratto addirittura da un racconto di Italo Calvino, un universo di frustrazioni in un sobborgo del New England, dove essere parte di una famiglia rappresenta un sostegno non solo morale e dove la tentazione della criminalità costituisce ulteriore materia per un fallimento umano.

Alberto Piccini -

Alberto Piccini, laureato in Scienze Politiche è stato professore

a contratto di Storia dei Totalitarismi presso l’università di Genova.

Dagli anni Novanta si è occupato del recupero e dello

studio delle fonti inerenti la Seconda Guerra Mondiale ed in

particolare delle testimonianze orali dei protagonisti dell’ultimo

conflitto.

Coautore del testo multimediale “La Resistenza, 1943-1945”

(1996) e dell’Atlante Storico della Resistenza Italiana (2000),

ha pubblicato con Mursia “I confini del lager” (2004) e “L’ultima

guerra” (2007).

In seguito ha pubblicato con Adele Maiello, il testo “Il Rotary

in Italia: da club ad associazione” (2008) e, con Mario Paternostro,

“Genova e i volti della guerra 1940-1945” (2011) e "Genova, gli anni della rinascita 1945- 1960" (2014)

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