Il domino narrativo

di Anna Bertini


(da un’ idea Di URS ARTHUR FUHRER)

ad Urs.

LA CITTÀ

 

il dominio letterarioOggi porta un cappello sugli occhi troppo chiari. Non è ancora estate e il sole è mitigato da uno sbuffo di aria tiepida. Porta un cappello perché si sente in viaggio: è una paglietta che comprò tanti anni fa, quando era in giro per costruirsi un mestiere senza purtroppo aver deciso quale. Certo fu un errore, se l’avesse deciso allora, gli sarebbe rimasto cucito qualcosa addosso; adesso che ha fatto un po’ di tutto è difficile pronunciare la frase “Di professione sono…”. Lui dice sempre: “ricerco…”; è talmente ambiguo che i più lo credono uno scienziato.

Non si è mai chiesto perché sceglie quel punto della cerchia muraria al pomeriggio, mentre di mattina ne predilige un altro più ombroso. Sul far della sera il palazzo che ora gli sta in fronte è meno spettrale, lambito da giochi ombra e luce di colore ormai carico; gli pare sempre di scorgere sembianze sotto il portico o dietro i vetri opali delle serre, figure immaginarie che lanciano frasi e idee nella pozza del suo pensiero che lui trova “invecchiato”.

Crede che un giorno comprerà una soffitta tra i tetti, ci metterà una panchina e un piccolo tavolo per continuare a cercare le sembianze e trasformarle in macchie di colore su una tela. Poi a sera comincia un concerto di campane che un tempo lo stimolava e ora lo getta nell’inerzia e così rimane impietrito sulla cerchia muraria.

Pensa spesso che dovrebbe ripartire, poi è certo che non ci siano più luoghi da esplorare e la noia degli oggetti e delle mode lo coglierebbe anche altrove.

Ormai fa un mestiere convenzionale che più non gli si addice, non è più un gioco. Così spesso lo trascura. Il magazzino è ormai vuoto, alle mostre e ai mercati trova solo oggetti che compra per sfizio, oggetti senza stile e senza storia: lui li lega tra loro in una trama inventata creando nessi che somigliano a una vita.

Ha aperto una lista di oggetti che dovrebbe procurare questo mese: la legge più volte sicuro che gli si rivelerà quello da cui iniziare: la toeletta per una vecchia dal visto molto rugoso, o il quadro per un carpentiere che dovrebbe mostrare gli schizzi del mare, le onde... un frullatore anni ’50 piacerebbe tanto al suo amico Bruno che ha la carrozzeria sotto le mura.

Ieri è andato a un’esposizione, non ha trovato niente. I quadri gli sono sembrati insulsi; una biondina esangue con la quale ha parlato un po’ non era di questa opinione. Si è fatto regalare un pennello su cui si era diffusa una macchia di colore verde chiaro. Poi la sera buttato sul letto ha giocato ad indovinare come si era potuta formare. Domani parte per un mercato antiquario.

È scesa la guazza e anche le campane, senza dare nell’occhio si sono allontanate. Si è avviato lento salutando facce che vede ogni sera. Ha salito le scale fermandosi al mezzanino per osservare gli orti da una finestra bassa, infilandocisi dentro tra i fili e qualche panno che disturba la vista. Ci è rimasto a lungo. Ha consumato una cena parca e poi ha ceduto al sonno senza opporre alcuna resistenza.

È partito di buonʼora. Siede su un torpedone bollente che dondola tra i colli. Sulle piazze principali dei borghi scende a fumare una sigaretta. Tiene sottobraccio un giornale non letto, ha il vestito stropicciato e un sorriso accennato quando getta lo sguardo su persone veloci di gesti e impetuose di frasi: lui non sente alcuna fretta. Si muove torbidamente come chi ha già corso euforie inutili e rabbie sterili. Non ha da sprecare o elargire più niente.

È giunto a destinazione nella piena mattinata, gli avventori e i mercanti patteggiavano a voce alta. Ha osservato a lungo un guardaroba che assomiglia a quello che vuole la parrucchiera. Gli occhi sono caduti sul giornale che lui stesso aveva appoggiato sul banco. Un trafiletto breve, e diceva su per giù così: “Importante scoperta al paese di B. Ritrovato un padiglione antico: forse un antesignano centro sociale? Accolte tra le spoglie del locale centinaia di tessere dipinte in parte bisognose di restauro. Le maestranze rifiutano di consegnare i reperti agli organi competenti. Sembra il ritrovamento sia stato tenuto nascosto per un po’ di tempo. Un’iscrizione in lingua non nota e probabilmente dialettale conduce ad un gioco; il Domino Narrativo, dovrebbe chiamarsi così questo intrattenimento di antica tradizione, oppure, cos’altro rappresentano quelle tessere, di sicuro valore artistico?”

Si è accorto che un tipo rubizzo sta trasportando il guardaroba verso il parcheggio. Si è diretto alle colline e in un baretto ombroso ha bevuto una birra. In testa all’improvviso un sogno di molti anni prima e una frase, forse appartenuta ad un gioco d’infanzia, insieme a un trenino rosso fiammante che invece di correre su eleganti binari prendeva lo slancio e si gettava ciecamente giù per le scale, a disegni attaccati sul muro e oggetti ammucchiati in cantine segrete.

Ha pagato lasciando una mancia perché quella pergola gli aveva messo l’allegria. E’ tornato alla stazione dei pullman e ne ha ripreso uno verso la città. Intanto scendeva di nuovo la sera, una sera ventilata e vitale. E’ sceso nei pressi del Duomo e ha percorso il resto del tragitto a piedi. A casa, ha riempito una valigia. Poi ha avuto improvviso appetito e allora si è chiuso la porta alle spalle e ha infilato il vicolo dove un suo amico oste ha qualche tavolo davanti alla porta. Ha parlato con lui di una partita di calcio e il tempo è passato cordialmente fino all’ora in cui la città ormai silente ha spento le luci.

Quando prende un treno lo fa possibilmente di notte: sotto la pensilina poche persone non del tutto sveglie si lasciano avviluppare dal singhiozzo isterico della campanella che precede l’arrivo della motrice. Lei giunge con pochi vagoni proveniente dall’odore della notte e si ferma sotto le luci sporche della stazione. Allora lui sale in carrozza quasi senza consapevolezza, come se il viaggio fosse parte di un sogno che rivelerà alla fine dove sta andando. Poi tutto si muove in uno strappo brusco e la motrice si restituisce alla strada ferrata. Ha riconosciuto gli odori del viaggio e per un momento è stato sveglio ed ha capito di aver fatto una scelta: una subliminale euforia gli ha fatto provare ad immaginare il luogo in cui era diretto, sforzo necessario se si vuole poi confrontare l’immaginario col reale. Subito dopo il tragitto si è confuso col sonno, o forse, con la memoria.

Il rumore del treno per andare con mia madre dalla zia, solo due stazioncine svizzere e brillanti con le montagne intorno, solo due, e si arriva presto e senza stanchezza. L’aria pungente che si respira uscendo fuori dal treno mette fame di burro e marmellata, e le ragazze chiare e allegre della fattoria ti salutano mentre ti avvii giù per il viale: se non è la spensieratezza le somiglia molto. Peccato che allora non lo sai, e ti senti distante anni luce dalla vita. E prima di capire che quello che hai è già vita, hai voltato l’angolo e sei fuggito. Credi di correre incontro a tutto e ti allontani, non potrai poi, tornare indietro. I treni diventeranno lunghi, le stazioni scure di pianura non ti riconosceranno, l’aria fuori di dissenteria, ruggine, diffidente, malata, e le ragazze che non sorridono più. E tu vorresti pane e marmellata, ma la vita non ti viene incontro, devi fare fatica perché capiscano che non sei lì per rubare qualcosa a qualcuno. Eppure, quando te ne sei andato via, l’hai fatto perché ti sembrava spaventoso rimanere ad attendere che lei, la vita, ti travolgesse, ti ingabbiasse prima che tu avessi deciso dove volevi stare, o che più semplicemente ti ignorasse, lasciandoti indietro.

Ma lontano, pure, e’ più uguale di quello che credevi. I treni migliori restano quelli della gioventù: piccoli tragitti, capelli sudati da asciugare al vento del finestrino, soldati di piombo, erba, terrazze. E i giochi non tornano più, mentre un ennesimo treno sporco attraversa un’altra notte…

IL PAESE

L’aria è scomposta in punti gialli alla fine della salita. Un’auto ronza tra i silenzi del mezzogiorno. Lui si asciuga la fronte e chiede un passaggio.

“Il nostro e’ un paese in discesa, sa. L’unica cosa in pari è la piazza, per il resto si scende giù piuttosto all’improvviso non appena finisce il sagrato. I turisti, vengono per la pendenza”.

L’hanno lasciato di fronte a una torre campanaria. Sembra tutto deserto. Brevi voci dalle finestre aperte, toni ottusi di tv accese, rumore di ghiaia sotto le scarpe dalla suola liscia, e poi, scendendo scalini larghi e man mano più piacevoli per le ginocchia compaiono case allineate su una strada vuota. Un cane lungo e disteso sulla porta dell’unico bar spazza con la coda l’insegna dei gelati. Qualcuno soffoca un riso dietro un’anta socchiusa, nell’ombra di stanze già pomeridiane che lui immagina profumate di siesta e talco.

Sa dove cercare. Nei paesi i ruoli si ripartiscono automaticamente, le persone importanti si sanno prima di arrivare. Un sindaco, il bar, il prete, la ragazza di un giovane politico; parlando con loro si carpiscono i piccoli segreti di una comunità, quelli che ci sono sempre. Seduto nel bar tra le piccole discussioni di fine telegiornale con una tazzina di caffè, sguardi si posano sui suoi capelli brizzolati, a studiarli, e lui cerca la carta da giocare per farsi accogliere.

Il padiglione e’ vicino ad una antica cappella, non son servite che poche domande per saperlo. Ora restano poche altre da porre senza insospettire la gente. Certo vorranno scoprire perché lui sia lì, ma cosa può rispondere? La verità, Quale? Se nemmeno lui sa perché è lì.

“Sono un ricercatore” dirà. “No, no non mi manda nessuno, son qui di propria iniziativa. Sono molto interessato alle pratiche ludiche, in specie quelle collettive.”

Parla con una ragazza, vorrebbe tirare fuori quella sua frase sull’infanzia, ma deve tacere ed ascoltare. Una ragazza con una gran mole di capelli e grandi occhi fervidi, un maglione che avvolge forme morbide: ne ha avuto un’istantanea e impulsiva fiducia. E lei racconta proprio quella storia.

Lo chiamano il padiglione. Sta sotto la cappella, che prima era una pieve col cimitero nella cripta, poi e’ venuto il terremoto, poi la peste e allora nel 1330 hanno costruito la cappella. In autunno da tre anni a questa parte vengono le alluvioni; franano tetti, argini, si allagano i campi, le strade, le fabbriche. Sotto la cappella improvvisamente si e’ aperto un buco: c’è tanto spazio sotto da saltarci dentro.

Hanno scavato via fango, ossa della vecchia cripta, e ancora ossa più fresche, forse delle guerre mondiali. Hanno riportato alla luce grandi cantine rette su colonne di ardesia.

Tra i frammenti di solai e colonnati, tra sfoglie di affreschi le tessere, a terra, sbiadite, parvero all’inizio dei mosaici. Poi saltarono fuori due tavoli e contenitori pieni di altre tessere.

Incisioni con datazioni successive parlano, in un idioma non originario del luogo, di questa strana attività: il Domino Narrativo.

Le tessere sono tutte all’incirca di stesse dimensioni. Ogni scatola può contenerne più o meno trecento. Per ognuna delle due scatole, una di granito, l’altra di ferro, due serie cromatiche diverse: blu la prima, rosso la seconda.

In parte le tessere sembrano derivate dal taglio di lastre dipinte con un soggetto mai decisamente figurativo e uno stile pittorico più primitivo dell’epoca a cui vengono fatte risalire.

Il periodo di realizzazione non è stato lunghissimo, forse non più di una generazione. Però le regole per essere ammessi a giocare sembrano essersi modificate negli anni, come risulta dalle iscrizioni, e le tessere hanno già subito ritocchi,. Ciò significa che si è giocato a lungo, e chissà quando poi si è interrotto, chissà quali avvenimenti hanno portato il gioco lontano dalla memoria collettiva, quali segreti stanno nascosti tra le cantine e le tessere?

In paese hanno una loro ipotesi. Qualcuno venuto da lontano ad affrescare quei locali deve aver inventato il gioco, realizzato le tessere, poi altri si sono aggiunti, forse i giocatori stessi sotto la guida di lui. E’ un vero e proprio domino. Le tessere vengono associate alle precedenti. Ma non ci sono altre regole per l’associazione, nessuno le riporta, In compenso ci sono descrizioni, storie, disegni, ed anche elenchi di nomi. Certo era stato un gioco collettivo, lo dimostrano i tavoli. Poi tutto era rimasto seppellito anni e anni là sotto.

Le storie di un paese sono tante, bastano loro a fare le regole di un gioco, Basta sedersi ad un tavolino e giocare con colori e tratti che danno la traccia per raccontare la tua storia. C’era una volta una casa rossa in fondo alla china... e poi ci mescoli la tua vita, viene fuori un quadro, un gioco dei ricordi...

Ah, questo mi piace dice il sarto, ci sono tanti bei verdi, sembra una stoffa con cui feci il vestito a...”

Le dico la verità io qui ci vedo un volto, uno che mi ricordo di quando facevo il guardiano alle terre del Conte, era una ragazza malinconica che non alzava mai la faccia passandomi davanti...”

E poi storie più complicate, rivelazioni, tessere che svelano segreti, confidenze, forse qualcuno che pensa a magie, forse qualcuno che chiama quel gioco blasfemo, che crede all’arrivo di un maligno... Il Diavolo si è installato nella vecchia cripta e ci indovina i peccati... le storie, i colori dell’anima, posso fare paura, mandare all’inferno o far toccare il cielo, dire troppo dell’ uomo, far vegliare la notte... possono diventare scomode le storie e chi le inventa... dove sarà fuggito quel barbaro che dipinse le tessere e costrinse il contadino e la badessa a raccontare le proprie ossessioni? Tra queste ossa ci saranno ancora le sue? Qualcuno più di altri ebbe paura del suo gioco che da troppo ingenuo, si era trasformato in diabolico agli occhi della comunità?

Ha preso molte tessere tra le sue mani, e le pone una accanto all’altra, scegliendole. Sono belle quelle tessere, polverose di storie. La ragazza lo lascia fare.

Presto ci saranno delle ricerche, sapranno di più, ma forse, non sapranno mai la verità su quel loro misterioso antenato-gioco. Non resterà che metterlo in mostra e lasciarlo parlare. Per quanti elementi la moderna scienza possa rivelare, sono i nessi che restano difficili da concatenare.

“Comunque siete un paese fortunato”; gli è venuto di dirle. “Sì”, risponde lei.

Avrà capito proprio quello che voleva dirle? Chissà, diventa sempre più difficile capire i nessi altrui.

“Siamo un paese fortunato” aggiunge lei, “ma non so se tutti la pensano come me su questa fortuna. Qualcuno pensa di avere in mano un patrimonio culturale, speriamo non venga deluso; qualcuno pensa di avere in mano un patrimonio, a come trasformarlo in denaro. Qualcuno si riterrà fortunato quando sapremo di più. Io penso che resteremo fortunati se ci sfuggirà qualcosa, se ci sfuggirà sempre e potremo correre dietro a ciò che nemmeno la scienza ci può rivelare. Tentare di decifrare il passato è comunque meglio che sforzarsi di acchiappare il futuro; è così quasi sempre che quello ti frega...”

Allora ha capito, pensa lui. E’ troppo felice di questa coincidenza. Non aggiunge niente.

Da qualche giorno l’estate ha inteso che non è ancora il suo turno e la primavera si è rifatta avanti con la sua aria leggera e pungente. Lui occupa una casa a metà della discesa, piccola, con un frammento di prato canuto davanti e le ortensie lillà. Le proprietarie la abitano solo alla fine dell’estate.

Oggi è uscito di casa prima del solito. Ha in mente di comprare i giornali, di fare una passeggiata e poi visitare l’archivio comunale. Ieri è andato a trovare un antiquario in valle, e ha trovato molti oggetti della sua lista: deve riuscire a farli portare al suo magazzino.

Il mese sta per finire, e per dire la verità dovrebbe scendere in città a sbrigare i soliti affari: affitto, assicurazione, abbonamento alla stagione calcistica; ma il clima è mite e ha deciso di restare ancora una settimana, anche i paesani lo invitano a trattenersi, ne apprezzano la compagnia discreta.

Allora ha imbucato una lettera per il suo amico oste, con alcuni bollettini postali e un assegno. Ha fatto anche un paio di telefonate, di buon ora. Adesso siede davanti al bar e attende che il giorno prenda il suo corso.

“Caro amico, non me ne vorrai se ti chiedo un favore, al ritorno ti porterò un paio di ricette interessanti in contraccambio. Non sono poi così lontano da casa. Mi dispiace che la tua squadra abbia perso il campionato, ma ne giocherà uno prossimo, con più fortuna. Qui il gioco è da scoprire. Oppure scoprire è il gioco. Non prendermi per matto. A presto.”

Tutto qui dà la sensazione di qualcosa di archeologico, le facce, bar, il fatto che tutto conservi una propria necessità, anche ciò che altrove è scomparso. I colori delle tessere sono i colori delle colline, delle argille, delle fonti, dei selciati consunti, di campi che appaiono alla vista come una corsa per giungere al mare. Ci sono luoghi che si raccontano da soli, appena calpesti il loro suolo ti torna in mente la loro esistenza come se tu li portassi dentro da una memoria precedente, ma forse più perché hai desiderato fortemente di incontrarli, li hai forse raggiunti non per caso.

Il padiglione, le tessere, il Domino Narrativo; conservano un’infanzia di questo paese, sono rimasti sotto terra come un’anima che non può fuggire, un passato imbrigliato,incapace di correre incontro al futuro.

Insieme al mistero, la penombra, la brillanza, la stanchezza, la bella del paese per cui qualcuno perse la vita, allo storpio, un crudele, un muto, un lavoratore indomito, il pittore barbaro, la ricetta dei biscotti di Donna Matilda, alla notte che avanza sulle terre ormai nere. Prima che il nuovo giorno crei nuove storie.

Anna Bertini -

Appassionata e dedita da sempre alla scrittura e alla musica, è nata in Toscana, a Livorno e si è trasferita nel 1987 a Monaco di Baviera dove ha acquisito il Diploma in Educazione dell'adulto e quello di Lingua Tedesca. Si è dedicata per svariati anni all’insegnamento della lingua italiana per stranieri. Ha studiato Drammaturgia presso la Facoltà di Theatherwissenschaft della Münchner Ludwig Maximilian Universität.

Ha frequentato il primo anno del Master in Tecniche della Narrazione e i corsi di Editing, Critica Musicale, e Scrittura per il Teatro presso la Scuola Holden di Torino (’94-’96). Dal 1996 al 2011 si è occupata di management culturale, fondando le due agenzie Bertini Art Networking e Joinopera. Ha curato le carriere di musicisti e l’organizzazione di eventi e spettacoli, collaborando con molte prestigiose istituzioni e personalità internazionali.

Ha trascorso diversi mesi in Africa per l’adozione della figlia Nathalie, in seguito alla quale ha abbandonando la carriera manageriale. Questi cambiamenti le hanno i consentito di dedicarsi più intensamente alla scrittura, che è diventata così ( insieme alla cooperazione con scuole e istituzioni culturali per seminari e laboratori di espressività e didattica della musica ) più centrale nella sua attività.

Pubblica bimestralmente sulla rivista letteraria La Stanza di Virginia, e bisettimanalmente sul magazine dell’Associazione Onlus Facciunsalto Editori. Sue liriche e racconti sono comparsi in svariate antologie ed ebooks, tra le quali citiamo il IV e VI numero de I Quaderni di Èrato, l’antologia Voci contro la Guerra di Onirica Edizioni, e quella Teorema del Corpo, Donne scrivono l’eros, FusibiliaLibri, 2015.

Ha pubblicato nel 2015 per FusibiliaLibri la silloge “Profusioni”, ( nota editoriale di Adriana Gloria Marigo ). Ha scritto un romanzo e una raccolta di racconti, entrambi in via di pubblicazione.

E’ membro di EWWA European Writing Women Association, e di DVPJ, Deutscher Verband der Pressejournalisten.

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