Il mondo cauchemardesque dei Sortilegi di Michel de Ghelderode.


 

ghelderodeMichel de Ghelderode è uno dei più importanti esponenti del fantastico belga (quella che lo studioso J.B. Baronian denomina école belge de l’étrange), benché la sua raccolta Sortilèges et autres contes crépusculaires rappresenti la sua unica incursione in questo genere letterario. L’opera, composta tra il 1939 e il 1940 viene pubblicata nel 19411 e riscuote immediatamente un grande successo di pubblico, mentre la critica la trascura a lungo a favore delle opere teatrali ghelderodiane, finché lo scrittore Franz Hellens non afferma che queste rêveries hallucinées rappresentano la parte più significativa della sua produzione. Lo stesso Ghelderode si sente molto legato a queste “storie meravigliose e terribili” e si rammarica di non poter consacrare più tempo alla stesura dei contes, forma narrativa che affonda le sue radici nell’inconscio collettivo e di cui l’uomo ha una necessità primordiale.

Il fantastico di Sortilèges è profondamente ancorato alla tradizione folklorica delle Fiandre gotiche, medievali, con le loro feste e le loro leggende popolate di fate e gnomi, un mondo lontano e perduto al quale lo scrittore viene iniziato fin da piccolo grazie alle storie raccontate dalla madre e che egli cerca di far rivivere in tutta la sua magia. Da questo universo di meraviglia Ghelderode eredita e assorbe in modo particolare la credenza secondo la quale gli oggetti portino impressi i segni di chi li ha creati e posseduti, potendo pertanto agire in modo malefico o benefico a seconda delle forze di cui sono stati investiti, quali muti testimoni del mistero del mondo. Nei dodici racconti di Sortilèges il fantastico si manifesta sovente proprio attraverso oggetti apparentemente inerti, che fanno parte della vita quotidiana e che a un tratto, inaspettatamente, si animano provocando un senso di malessere e inquietudine nel protagonista, come la statua della vergine nera in Nuestra Senora de la Soledad, che inspiegabilmente incrocia lo sguardo stupefatto dell’io narrante e incomincia a parlare in fretta, pur mantenendo le labbra serrate, come se stesse infrangendo un sacro divieto.

Il fantastico (da non confondersi con altre forme di letteratura dell’immaginario come il meraviglioso, il fantasy o la fantascienza) è caratterizzato dall’irruzione di un evento anormale, insolito e impossibile all’interno di un universo familiare, quotidiano, conosciuto e ordinato.

I racconti, narrati tutti in prima persona, si presentano come un enigma da risolvere, in cui il protagonista (e il lettore insieme a lui) si dibatte tra due possibili spiegazioni, una logica e realistica che fa appello al raziocinio e una totalmente irrazionale che contrasta con le conoscenze comunemente acquisite. Il protagonista-narratore, pur avendo una naturale propensione per ciò che è insolito e bizzarro, non accetta di primo acchito la motivazione soprannaturale, esitando a lungo tra essa e quella dettata dalla ragione e dal buonsenso comune, ritornando continuamente sui propri passi, incapace di decidersi, anche se alla fine tende a far prevalere il proprio penchant irrazionale (proprio nella compresenza di due soluzioni possibili, di due probabilità in contraddizione l’una con l’altra e che si annullano reciprocamente risiede il fulcro della narrazione fantastica). Da una parte il lettore è spinto a credere che il protagonista abbia per davvero sperimentato avventure fuori dalla norma come l’intervento di figure demoniache e spettrali, l’incontro con la Morte, il miracolo di statue e manichini di cerca che si animano, l’impossibile balzo indietro nel tempo che lo fa assistere a un’esecuzione capitale. Dall’altra egli tende a dubitare della veridicità di questi strani eventi ascrivendoli ad un’alienazione temporanea dell’io narrante, ad un’alterazione dei suoi sensi dovuta al sogno, alla febbre, all’alcool ma anche all’immersione in un paesaggio inquietante, tenebroso e brumoso, che perde i propri confini netti e favorisce lo spaesamento e lo smarrimento.

Questi racconti, in linea con la struttura canonica della narrazione fantastica, sono improntati a un forte realismo di fondo, ottenuto grazie all’utilizzo di un vocabolario preciso e a descrizioni accurate degli scenari nei quali si muovono i personaggi, espediente narrativo con funzione rassicurante, finalizzato a convincere il lettore a sospendere il proprio scetticismo, a dimenticare la propria incredulità, in modo da farlo scivolare impercettibilmente, quasi senza rendersene conto, dalla dimensione conosciuta della quotidianità a un “altrove” ignoto in cui non valgono le leggi di concatenazione causale. Con raffinata e complessa maestria narrativa lo scrittore insinua già in questo scenario verosimile degli indizi che conducono il lettore, in un crescendo lento ma inesorabile, nel territorio fantastico: piccole crepe, lievi dissonanze che segnalano in modo non troppo scoperto quanto i contorni di quel contesto reale non siano così netti e definiti.

Nel racconto Il giardino malato l’io narrante, che presenta l’avventura come un fatto realmente accaduto nell’anno 1917 e da lui registrato nelle pagine del suo diario personale, raffigura accuratamente la dimora denominata Hôtel de Ruescas, illustrandone struttura e dimensioni, stile architettonico, disposizione interna (mobilio e decorazioni) e spazio esterno. Anche la camera dove alloggia l’io narrante è descritta con precisione, ma i tratti di vetustà, sporcizia, trascuratezza, senso di abbandono alludono indirettamente al carattere inquietante del luogo:

«La mia stanza deve essere stata usata come salotto, poiché è situata a mezzogiorno e riceve la luce da tre alte finestre. La posta doppia si apre sulla scala, che conduce in giardino con gradini smurati. Il soffitto è decorato con angioletti e ghirlande di stucco grigiastro. Le pareti divisorie conservano la vecchia tappezzeria, adorabilmente stinta; il caminetto di stile Luigi XVI, benché traballante e ricoperto da uno spessore di sudiciume, conferisce un tono all’insieme. Il pavimento sembra di ebano. Tutto è completamente fatiscente, ma regge ancora, e se l’interno impone l’idea della decadenza, quella della rovina è assente. Le porte hanno conservato i vetri imprigionati in una quadrettatura che ha perso la doratura. Questi vetri brumosi catturano la luce e spargono nella stanza un chiarore indiretto e spettrale, che guardo incantato. Dimenticavo il lampadario, abbandonato dai vecchi locatari, o piuttosto lo scheletro di un lampadario, radici di bronzo da cui si sfilacciano rade lacrime di cristallo.»2

Lo sforzo di far apparire il più verosimile possibile l’evento strano che di colpo fa irruzione nel quotidiano si estrinseca anche nella pretesa autenticità dei fatti avanzata dal narratore3: scegliendo di raccontare in prima persona, egli si presenta al contempo anche come protagonista, come testimone oculare che ha assistito agli eventi descritti. Spesso il narratore, con chiaro atteggiamento di captatio benevolentiae, segnala apertamente il carattere anomalo dei fatti riportati, cercando di prevenire eventuali dubbi e perplessità del destinatario (senza per questo negarne la veridicità fattuale, anzi indirettamente rimarcandola), come in Il diavolo a Londra:

«Riconosco di dovergli una strana avventura, che riferisco senza falsa vergogna né finta umiltà.»4

In Nuestra Senora de la Soledad il narratore si garantisce la buona fede del lettore tramite una procedura antifrastica: afferma che non gli interessa essere creduto proprio per ottenere l’effetto contrario, perché il suo intento è di far soccombere il lettore, farlo cadere in trappola, far sì che gli si affidi completamente:

«Una volta però assistetti a un miracolo, o un evento del genere, riguardo al quale non è mia intenzione persuadere nessuno.»5

I racconti crepuscolari sono pertanto simultaneamente collocati su due piani, quello della realtà concreta, tangibile, conosciuta e quello difficilmente definibile dell’ignoto e del soprannaturale, e sono strutturati secondo un medesimo schema: l’elemento perturbatore si intrufola nella routine quotidiana e provoca un forte malessere nel protagonista, stato d’animo potenziato dalle caratteristiche del luogo, seducente e inquietante, seducente anzi perché inquietante. Il disagio, il turbamento evolve pian piano verso la paura, che si fa angoscia insopportabile, soprattutto in alcuni racconti dai toni cupi come «Ti hanno impiccato!» il cui protagonista, per un inspiegabile sovrapporsi di piani temporali, rivive il momento cruento dell’impiccagione di un uomo morto molti anni addietro. Il racconto è costellato da termini appartenenti al campo semantico della paura, in un crescendo che va dall’inquietudine all’angoscia, fino a raggiungere il suo acme in un insostenibile orrore:

«Era ancora notte fonda e fuori, nel vapore fitto, s’intravedevano alcuni aloni giallastri e le movenze fantomatiche degli alberi spogli. […] In quel momento ritornai pienamente cosciente; fu allora che l’angoscia mi colpì senza pietà, trafiggendomi il petto. Cercai di gridare, ma avevo la gola chiusa e non fu dalla mia bocca che uscì quel grido irrefrenabile, un grido pietoso, il mio grido, che udii risuonare altrove, nella piazza; un grido così pietoso che mi fece raggelare. Ero testimone di uno spettacolo abietto e terribile! Il carro si era fermato esattamente dov’era la piccola forza, sotto la quale si affrettavano alcune ombre, in un incrociarsi di lanterne palpitanti. Cercai di alzarmi per sfuggire al tormento di quella visione, ma ero paralizzato […].»6

Il paesaggio sinistro e maledetto de Il giardino malato, con la sua vegetazione malefica che invade e inghiotte ogni angolo e cela fra le sue pieghe oscure creature ripugnanti che hanno perduto le sembianze umane e un gatto orribile e demoniaco ribattezzato Tétanos dal protagonista, è in preda alla follia, al disordine selvaggio e alla malattia. Questa natura che ritrova la sua forza originaria e primitiva è minacciosa e misteriosa e trascina il protagonista nel suo delirio e nella sua angoscia:

«La notte che seguì … non posso raccontare come la trascorsi; sarebbe il racconto di un demente. Obiettivamente ci provo. […] Ho chiuso la porta e le finestre che danno sul giardino, perché l’odore sotto il cielo immobile dopo il dramma del pomeriggio, aveva su di me l’effetto di un veleno. Una specie di orticaria mi fa soffrire; mi gratto senza sosta. La mia stanza è illuminata male; ho solo tre candele; vorrei che ne ardessero cento; ma sarebbe sufficiente per dissipare quest’atmosfera da cripta? […] Dapprima, in lontananza, in capo al mondo, un lamento. […] Poi i gemiti sono aumentati, si sono fatti più vicini, senza che potessi capire da dove arrivavano[…] I lamenti provenivano da un luogo più profondo del suolo, più lontano del nostro mondo; venivano dall’inferno. Tétanos agonizzava. Quel maledetto ritornava agonizzante per tormentarci.»7

In altri racconti il soprannaturale viene quasi invocato dal protagonista, come squarcio attraverso il quale sottrarsi a un mondo e a un’esistenza insoddisfacenti, impressi dal segno del grigiore, della noia, della pesantezza, del vuoto cosmico. Così ne Il diavolo a Londra, in cui l’eroe-narratore, che si muove in una città asfittica, sudicia e maleodorante, popolata da creature che sembrano manichini viventi, va alla ricerca dell’anormale, e arriva a formulare il desiderio di incontrare il diavolo, preso da un sentimento ambiguo e contraddittorio, dove il piacere si mescola all’inquietudine:

«I peggiori nemici dell’uomo, dopo l’uomo stesso, sono i microbi; e tra i microbi più nocivi quello della noia resta il più pericoloso, quello contro il quale esistono solo rimedi empirici. […] Vagavo in un cupo e brumoso mattino per non so più quale sordido quartiere di magazzini, una sorta di fetido fondaco e di asfissiante meandro lungo il fangoso Tamigi. Piovigginava. Gli individui che incrociavo avevano facce da banditi o da malati. […] Quel mattino la noia m’impregnava a tal punto, come l’acquerugiola in cui si materializzava, che arrivai ad augurarmi di poter essere testimone di un qualche disastro, come uno spaventoso terremoto della crosta terrestre o un ciclone dalla forza rovinosa. […] «Com’è insopportabile l’eternità se è amministrata da altri che non sia il diavolo!» Bestemmiavo e me ne rendevo conto, ed ero ancora più colpevole, perché non avevo bevuto niente che avesse potuto offuscare la mia lucidità; rimanevano solo un pensiero quelle idee empie, che non preferivo, perché sta scritto che non bisogna tentare il diavolo. Ma mi accorsi d’un tratto del pericolo che sta nell’evocarlo, anche solo col pensiero! In verità in quell’istante preciso cominciò per me un’avventura, che non si sarebbe verificata se non avessi sconsideratamente nominato l’infernale potenza, latente in tutto l’universo.»8

Le strane visioni quando non terrificanti allucinazioni originano sovente da uno stato di rêverie. Quasi tutti i protagonisti dei racconti crepuscolari amano trascorrere gran parte del loro tempo dormendo, immersi nel sogno o in uno stato ambiguo, a metà strada tra il sonno vero e proprio e la veglia, misterioso limbo onirico nel quale l’individuo sperimenta l’incontro e la comunione con le forze soprannaturali e con i propri fantasmi interiori.

Così confessa beatamente il protagonista de Il giardino malato:

«1 agosto. Sogno molto. Non ho forse coltivato l’arte di dormire, vegliando in piedi e con gli occhi aperti, in modo da non vivere quasi mai nella realtà?»9

Sovente l’eroe passa continuamente, e impercettibilmente, da uno stato all’altro perciò è difficile stabilire se egli sia sveglio e stia realmente vivendo ciò che racconta oppure se dorme e se si tratti pertanto solo di illusioni, di chimere partorite dalla sua febbrile immaginazione. Questo annullamento dei confini tra sonno e veglia suscita dubbi e incertezze nel lettore, che ignora in quale dimensione si stia muovendo, sperimentando quella sensazione di disorientamento e perplessità che è propria della narrazione fantastica.

Contrariamente alla più classica tradizione del racconto fantastico (erede del romanzo gotico o romanzo nero) che eleva la notte al momento più favorevole per l’emergere del soprannaturale, quando le forze della ragione si addormentano e le creature e le cose rivelano il loro volto oscuro e temibile, i dodici racconti allucinati di Sortilegi, in linea con tanta produzione belga, si muovono in questo enigmatico entre-deux crepuscolare (come sottolinea esplicitamente anche il sottotitolo della raccolta10), momento di sospensione, soglia equivoca di passaggio dalla luce alle tenebre in cui tutto può succedere, pertugio grazie al quale l’insolito fa breccia nell’esistenza del protagonista e l’incredibile prende inspiegabilmente forma.

Il paesaggio di Sortilegi è caratterizzato da questo costante chiaroscuro, condizione propizia allo sprofondare del protagonista nei meandri onirici, in completa solitudine. Seppur inquietante e angoscioso, questo scenario è quello che si attaglia perfettamente al suo modo di essere. Esso provoca angoscia in lui o forse è, al contempo, riflesso e proiezione dei suoi mostri interiori. Un universo angoscioso, opprimente e soffocante, dominato dal grigiore della nebbia e dell’acquerugiola e vittima di un lento, ma inesorabile processo di decomposizione e distruzione. I luoghi sono degradati, vetusti, maleodoranti e il soffio della morte aleggia ovunque, come in Crepuscolo:

«Pioveva dall’alba. La mia stanza, non più chiara di una catacomba, puzzava per l’umidità come una cripta, dove stavo ad ammuffire, guardando lacrimare i vetri, con la sensazione di gonfiarmi a poco a poco, per via dell’acqua che assorbivo attraverso i pori. Quella pioggia sembrava essere eterna. L’odore che regnava intorno a me era quello dei vecchi cantieri, e l’odore che emanava il mio corpo, perché anch’esso puzzava, era quello che si portano dietro i vagabondi sotto i loro stracci.»11

O ancora in Nebbia:

«È stato lo scorso dicembre, nell’ora equivoca in cui il mio borgo s’illumina di tutte le sue luci, prima che il breve giorno finisca. Il suolo riluceva e i passanti scivolavano via come su uno specchio unticcio, sdoppiati dalla loro ombra […]. Appena raggiunsi la piazza del comune, in cui sfocia la strada, mi trovai immerso nella nebbia, senza che l’avessi vista arrivare. […] Chi cammina nella nebbia ha spesso l’impressione di vagare in sogno, ed è quello che dovevano provare i funamboleschi passanti che incrociavo. Quanto a me, avevo piuttosto l’impressione di avanzare nell’acqua o per lo meno su un terreno che si stava sciogliendo.»12

Un universo in cui anche il sole, quando c’è, non illumina, non porta sollievo, non mitiga la paura, rende anzi più soffocante, oppressiva e irrespirabile l’atmosfera. Il calore insopportabile che grava sul giardino e sull’Hôtel de Ruescas non fa altro che aggravare gli odori purulenti del luogo, accelerare la putrefazione delle creature che si celano nei punti più bui e nascosti del giardino e aggravare la sensazione di angoscia che attanaglia il protagonista:

«15 agosto. Il caldo tropicale non smette d’infierire. La vegetazione fuma dalla mattina alla sera; a mezzogiorno sembra colare, come una lava verdastra, e l’odore di magma, che sprigiona la terra, cresce d’intensità. È come la narcosi. Il mio olfatto è così debole che non sento più niente? Questo trionfo estivo mi relega in uno stato di permanente nostalgia e mi fa sentire di piombo; la luce eccessiva mi avviluppa, come un sudario, e la poca ombra delle stanze, dove entro solo per noia, non mi è di nessun aiuto. Non mi sono mai sentito più vicino al vuoto, al niente che il giardino malato offre al mio sguardo.»13

La stessa prostrazione avvince il protagonista in Lo scrivano, che ama trascorrere le sue giornate in un luogo claustrale chiamato il Beghinaggio, in silente compagnia di una statua di cera che riproduce un antico scrivano di nome Pilatus. Questo luogo bizzarro esercita il suo ambiguo fascino su di lui ancor più nelle giornate di primavera diventando un rifugio quieto e consolante, dove sfuggire alla morsa invadente del sole:

«Venne maggio e il mondo fu improvvisamente invaso da una luce così viva da restare accecati. Quella rinascita mi valse, come sempre al risveglio della linfa, furtive vertigini e una sorta di malessere simile al mal di mare e che poteva chiamarsi mal di cielo. È in quello stato di spossatezza che resi a Pilatus una visita che credetti l’ultima per parecchio tempo, deciso ad attendere dentro casa, in completo riposo, che la stagione si temperasse. Ricordo quella visita, in un crepuscolo malva così intenso che la natura pareva magnetica e e le cose raggianti. Colmo di stanchezza per quel primo sole sferzante, avevo trascorso la giornata a rimuginare i ricordi della mia infanzia senza gioia […].»14

Questi racconti amari e tragici, in cui si respira una malinconia nostalgica, una crudeltà sbeffeggiante, un’inquietudine allucinata, in cui ci si muove in uno spazio solitario, popolato di figure fuggevoli e inconsistenti e di creature spettrali ai limiti del mostruoso, del deforme, del grottesco, un enfer sur terre vittima dell’umidità purulenta, del calore soffocante e dell’insopportabile luce accecante, ispirati da una crisi esistenziale profonda e dolorosa che Ghelderode attraversa in quegli anni e che corrisponde alla sua rinuncia ufficiale al teatro, trascinano il lettore in un clima d’angoscia morbosa che esercita su di lui un profondo incantamento. Un paesaggio d’ombra, nebuloso, inquietante e agonizzante, funebre e sepolcrale che sa splendere però come rara pietra preziosa e che incarna forse il punto più alto e luminoso della sua arte.

1 La raccolta viene ristampata nel 1947, ma con una modifica importante: il racconto Eliah le peintre viene espunto e sostituito da un altro racconto, L’odeur du sapin.

2 Le citazioni sono tratte dalla seguente edizione: Michel de Ghelderode, Sortilegi. Racconti (a cura di M. Raccanello), Rimini, Panozzo, 2001. La citazione di cui sopra è alle pagg. 37-38.

3 Elementi “testimoniali” come il succitato diario personale de Il giardino malato nel quale vengono rigorosamente annotati i fatti esperiti servono ad incrementare il presunto grado di veridicità e affidabilità delle parole del narratore.

4 Sortilegi, op. cit, p. 19.

5 Sortilegi, op. cit., p. 120.

6 Ibid., pp. 153-154.

7 Ibid., Pp. 62-63

8 Sortilegi, pp. 19-20.

9 Ibid., p. 48.

10 Ci riferiamo qui al titolo originale (Sortilèges et autres contes crépusculaires) e non già alla traduzione italiana, nella quale il riferimento alla dimensione crepuscolare non figura (Sortilegi. Racconti).

11 Sortilegi, op. cit., p. 133.

12 Ibid., 124-125.

13 Ibid., p. 54.

14 Ibid., p. 11.

Ilaria Biondi -

Ilaria Biondi nasce a Parma nel 1974. Dopo gli studi liceali, si laurea in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Bologna. Durante il Dottorato di Ricerca in Letterature Comparate vive per lunghi periodi in Francia, dove approfondisce la conoscenza della lingua francese. Si occupa di traduzione letteraria e critica della traduzione, di letteratura francese e belga (in lingua francese) e letteratura tedesca dell’Ottocento. È appassionata di letteratura fantastica, science-fiction, letteratura al femminile, letteratura di viaggio, letteratura per l’infanzia e poesia. Collabora con riviste letterarie (Quaderni di Synapsis, Quaderni del CeSLiC , Comunicare Letteratura, Ottocento, Experience, Palazzo Sanvitale, Leggere Donna, Pagine Giovani, Progetto Babele, Future Shock) e portali culturali con articoli e recensioni.  Nel 2011 pubblica il volume Raymond Radiguet. Giovinezza perduta, eterna giovinezza per i tipi di Delta Editrice. Scrive componimenti poetici e occasionalmente partecipa a readings di poesia. Ama lavorare con i bambini e organizza periodicamente letture animate, corsi e laboratori.

È lettrice volontaria presso l’Ospedale dei Bambini della sua città.

Laurea in Lingue e Letterature Straniere e Dottorato di Ricerca in Letterature Comparate. Appassionata di letteratura, traduce dal francese e scrive poesie, recensioni e articoli. Organizza letture animate e corsi per bambini.

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