Sciolti

L'anima della poesia

di Raffaelina Di Palma

Che rappresenta la poesia nella nostra vita? Che dimensioni muove? Ponte fra cielo e terra, fra visibile e invisibile, da sempre evoca suggestivi paesaggi interiori.

Un linguaggio remoto e allo stesso tempo sempre attuale, con il quale non dovremmo mai perdere il contatto...

 

E fu a quell’età. Venne la poesia
a cercarmi. Non so, non so da dove
uscì, da quale inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole, né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
all’improvviso fra gli altri,
tra fuochi violenti
o mentre rincasavo solo,
era lì senza volto
e mi toccava.

 

(Pablo Neruda, La poesia)

 

Ognuno di noi è in grado di sentire il suono e il richiamo della poesia; pur non “poetando”, ma con la curiosità per essa, ci possiamo ispirare con fiducia alla sua vitale, suggestiva espressione.

Suggestione non intesa come subordinazione individuale della psiche, ma come semplice fascino che deriva da uno spettacolo naturale, o da un’opera d’arte, o semplicemente dall’emozione che suscita una creazione poetica.

La poesia è la forma d’arte per eccellenza, il cui mezzo espressivo è il verbo.

Un poeta è una personalità che rivela un insieme sorprendentemente ricco di idee, di fantasia, di scelte e comportamenti singolari, derivati da una tematica liberamente espressa che è il frutto di una creazione, capace di assumere un valore universale.

È insito nell’uomo quel sentimento di provvisorietà, di solitudine, di estraneità che lo porta alla ricerca delle origini, all’inconsapevole miraggio della felicità. Con la poesia, esso riesce a esprimere il proprio mondo interiore, a interpretare la realtà riuscendo a comunicare con l’universo, a scavare nel profondo della sua anima; le dà il potere di emanciparsi e le dona le ali della libertà. La poesia deve essere l’idea di una ricerca costante, aperta sugli spazi infiniti, caratterizzata da un mimetismo che, a volte, può essere anche malizioso, ma schermato dalla serietà e dalla profonda sensibilità che suggerisce il rispetto verso la sacralità della vita.

Nella creazione letteraria, nella condizione dell’inquietudine, della passione, della malinconia, dello sgomento, si intravvede la fragile bellezza dell’amore, la labile avventura dell’esistenza: un messaggio da raccogliere per gettare le basi, per formare una società intellettuale in cui la scienza, la filosofia, la letteratura, la medicina trovino lo stimolo a un appassionato lavoro di un condiviso arricchimento culturale; mentre la musica e la poesia sono appannaggio di menti votate alla libera creatività espressiva.

Nella poesia rinascimentale, nella poesia ermetica, si può leggere lo scorrere delle stagioni nelle vicissitudini degli uomini, sempre alla ricerca di “quell’infinito” immaginario e con esso librarsi nello spazio: il suono della parola si contrappone al silenzio depositato nel profondo del proprio ego; quando essi sentono il desiderio di un dialogo che li porti alle “morte stagioni”, i loro sogni gli schiudono le porte su un mondo meraviglioso.

Con l’invecchiamento e la morte di una lingua, è inevitabile il perire di una civiltà. Dobbiamo andare alla ricerca di una possibile speranza al centro della storia stessa; cercando nel segno della continuità, si può far luce anche sul mistero che si cela in una nuvola. Non possiamo mandare in esilio i pensieri, schiacciandoli e facendoli marcire: senza di essi non potremmo attingere nulla dal forziere della vita; soltanto nel valore della libera parola c’è lo sviluppo storico della poesia.

La poesia è un veicolo di alta spiritualità, è una strada irta di difficoltà, ma è l’unica che insegni l’amore, quello vero. Essa è il solco della nostra vita, nel quale possiamo seminare la libertà, la speranza, l’altruismo, il coraggio e la pace.

 

Frida e il doppio. “There are two of me now”

di Anna Puleo

 

Una donna, un'artista, una ribelle. Diifficile dimenticare l'intreccio di passione personale e civile che ne fa una figura straordinaria, unica, irripetibile...

 

 

«Nessuno è separato da nessuno. Nessuno lotta per se stesso. Tutto è uno. L’angoscia e il dolore, il piacere e la morte non sono nient’altro che un processo per esistere. La lotta rivoluzionaria in questo processo è una porta aperta all’intelligenza». Angoscia, dolore, amore, rivoluzione. Vita.

Quali immagini, meglio di quelle che Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderòn consegna al suo Diario, possono rappresentare questa donna e artista dall’esistenza travagliata e appassionata, divenuta un’icona del Novecento? Artista alla quale l’Italia dedica, per la prima volta, una grande mostra, aperta alle Scuderie del Quirinale sino al 31 agosto, per ricordarne il genio attraverso centotrenta opere provenienti dalle collezioni di tutto il mondo; i ritratti fotografici di Nickolas Muray e una selezione di lavori di artisti a lei vicini, come Diego Rivera, protagonista di un secondo allestimento, dedicato all’universo privato dell’artista messicana, che si terrà a partire dal 20 settembre al Palazzo Ducale di Genova.

Gioia, felicità, passione, angoscia, dolore sono i fili di cui è intessuta qualsiasi esistenza. Frida ne è consapevole. Sin da quel giorno in cui decide di prendere un autobus diverso dal solito, alla ricerca di un ombrellino. Poi l’impatto rovinoso con un tram e quel corrimano che la trafigge da parte a parte “come la spada trafigge il toro”, i mesi in ospedale, la scoperta della pittura, mentre si spalancano le porte di quel “pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio”, in cui vivrà tutta la sua esistenza.

Se la vita è segnata da sofferenze continue per quel corpo fatto a pezzi e l’anima squarciata, Frida non ha paura di esporsi allo sguardo altrui, sguardo invocato, calamitato, eterodiretto, provocatoriamente.

Come su un palcoscenico, si svela sulla tela nella sua duplice identità, europea e messicana, fatta di costumi e pettinature indie, di immagini di santi, di scimmie, pappagalli e vegetazione lussureggiante; dipinge gli incubi che le fanno visita la notte; narra l’amore totalizzante e mai pacificato con Diego Rivera, marito-padre/madre-amico-amante (fedifrago)-maestro e compagno di lotta; il dolore insanabile della maternità agognata e irrealizzabile; la catena dei numerosi amanti.

Soggetto/oggetto dello sguardo rivolto su se stessa, la Kahlo mette in scena la propria intimità, interiore, sentimentale, corporea, nella sua nudità, al di là della superficie dei mascheramenti e delle convenzioni, in una infinita seduta di autocoscienza, che permette il passaggio da una «trionfante riaffermazione di narcisismo […](a) una simbolizzazione del dolore e della sofferenza», arrivando «a trasformare in visione e in pratica artistica quella che all’origine altro non era che una strategia di sopravvivenza». (Maria Nadotti)

Ma la realtà personale dell’artista si incrocia con i fermenti politici e sociali che pervadono la sua terra. Così, dal letto dove è sempre più spesso relegata dalla malattia, scrive lettere, raccoglie viveri, organizza manifestazioni e incontri. Le fratture e il sangue del suo corpo dilaniato diventano quelle del suo popolo che paga la scelta della libertà con un tributo di sangue altissimo, lastricando le strade del Messico di centinaia di migliaia di morti.

«La rivoluzione – scrive nel suo Diario – è l’armonia della forma e del colore e tutto esiste, e si muove, sotto una sola legge: la vita».

Frida la ribelle, con la sua identità nomade (il padre è un ebreo ungherese, la madre india), sempre pencolante tra le mille identità, di volta in volta vulnerabile e forte, sofferente e carismatica, spregiudicata e spavalda, intelligente e ironica, maschio e femmina. Di sicuro ingombrante e terribile, come una dea azteca, anzi, come la divinità flagellante di Xipe Topec, come la definì Carlos Fuentes, capace di esprimere un’arte totalizzante, in cui convivono pubblico e privato, sogno e realtà, avanguardie artistiche europee e arte precolombiana, bagliori e oscurità.

Una donna, prima di tutto e fuori da ogni facile stereotipo, fedele a se stessa. Sempre.

 

 


Illustrazione di Luigia Bressan

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Musica e immagini: storia di una storia speciale

di Francesca Girardi

musica

 

C'è qualcosa in comune fra il cinema muto degli anni '30 e un gruppo di musicisti del 2014? Può il passato fondersi con il presente dando vita a un'espressione artistica originale? Ecco il racconto di un'esperienza particolare.

 

Cosa accomuna un cinema muto degli anni ’30 e cinque musicisti del 2014?

Un viaggio nel mondo dell’interpretazione, ecco, credo sia questo: un contesto di altri tempi, attimi di storia del cinema e composizioni musicali. Non parole scritte o parlate, questa volta l’inchiostro è veicolo di nuove esperienze e la bellezza è nella partitura di una musica dal vivo che accompagna scene cinematografiche di altri tempi, rendendole attuali. Il fascino dello spettacolo è celato anche nella convivenza dei due termini: muto e dal vivo. Assistendo a questa performance, sono stata travolta da un piacevole quanto inaspettato turbinio di sensazioni.

Musiche e arrangiamenti, seppur non composti al momento, lasciano trapelare tutta la loro naturalezza facendosi portavoci di emozioni, divenendo libera espressione di parole non pronunciate o scritte, ma arrivando allo spettatore sotto forma di note.

Due i film accompagnati: Regen e La Perle, entrambi datati 1929.

Il primo è una rappresentazione della città di Amsterdam in una giornata di pioggia, non ci sono personaggi, ma solo immagini. Le scene iniziali ruotano attorno all’acqua, tema dominante del documentario e il tutto si muove accompagnato da note cadenzate che lasciano poi la scena a un ritmo incalzante e sempre più dirompente, proprio come il vento che energicamente muove i panni stesi, le tende, le foglie. La melodia si fa interprete del vortice d’aria, delle nuvole grigie che sopraggiungono da lontano. Lo sguardo dello spettatore è rapito dalle immagini del cielo tempestoso che all’improvviso lascia intravedere un piccolo aereo il cui volo è accompagnato da note fievoli ma trepidanti. Lo spartito musicale è chiara e aderente espressione dell’atmosfera messa in scena. E ancora singole gocce d’acqua, i loro cerchi concentrici sembrano essere lo specchio delle vibrazioni del suono degli strumenti. In particolare il trombone, sembra voler far giungere agli spettatori il ticchettio della pioggia sui tetti, sulle strade. Poi avviene un ulteriore passaggio ed ecco che l’atmosfera da grigia e ritmica diviene più allegra, quasi gioiosa e qui è il clarinetto che scrive la sua parte, interprete della quotidianità delle persone di Amsterdam colte dalla pioggia. Pedoni che camminano velocemente, una danza di ombrelli che corrono, si intrecciano quasi fossero loro stessi gli interpreti dei musicisti. Note suonate con incisività, la stessa incisività dell’immagine di una macchina che corre sulla strada bagnata. Con un tempo in levare le scene proseguono, una dietro l’altra, con disinvoltura. E veloce scorre l’acqua del torrente, rapido è il getto che fuoriesce dai tombini. Il basso, la batteria, il pianoforte, il sax baritono e il trombone si uniscono in una sinfonia che traduce la potenza dell’acqua.

Infine tornano delicatamente le gocce, torna il trombone con il suo ritmo incessante ma delicato, che accompagna la fine della rappresentazione. La sensazione che si prova è la stessa con cui delicatamente si chiude l’ultima pagina di un libro e lo si saluta con le riflessioni che ha suscitato.

La performance prosegue ed è il momento di La Perle, una pellicola decisamente diversa rispetto alla prima. Un giovane è alle prese con un acquisto per la sua amata: una collana di perle. Proprio attorno alla perla e alla scelta della migliore tra tutte le collane, ruota la trama che a tratti è chiara, a tratti sfugge, a tratti scompare accompagnata da immagini surreali, appartenenti forse a momenti di realtà che incontrano momenti di allucinazione.

La musica riesce appieno a far giungere tutto questo insieme di istanti diversi. Un clima di suspense accompagna le scene iniziali che si susseguono quale breve documentario della lavorazione della preziosa perla, dal clarinetto trapelano note di concitazione, fedeli alla trepidazione del giovane che sta per lanciarsi nel dispendioso acquisto e, dal momento in cui il giovane mette piede nella gioielleria, ha inizio il gioco. È un rincorrersi di immagini slegate ma tenute assieme da uno spartito che sembra anch’esso divertirsi saltando da una nota a un’altra, toccando uno strumento, spostandosi a un altro e questo movimento crea una piacevole agitazione sinfonica, magistralmente gestita dalla veloce mano del pianista. È lui che accompagna queste melodie che si rincorrono, si ripetono, si interrompono per lasciare improvvisamente spazio a un ritmico battere di mani. Ecco l’innovazione che incuriosisce, cogliendo lo spettatore quasi di sorpresa: una musica ottenuta anche senza strumento.

Interpretare scene in bianco e nero, lasciandosi piacevolmente guidare da una musica così viva, ti porta a essere travolto e positivamente confuso. Si riesce a colorare lo schermo bianco e nero che si ha dinnanzi proprio come, spinti da un’emozione, si riempie di parole un foglio bianco. L’intelletto degli spettatori è sempre più attento e cerca di capire se la sua interpretazione di musica-immagine possa essere giusta, possa sposarsi con quelle interpretazioni che in passato voleva dare il regista e che ora vogliono trasmettere i musicisti.

Il progetto di performance cinema-musica si è rivelato un’esperienza coinvolgente, che unisce il senso della vista e dell’udito per poi lasciarli naturalmente convogliare con sensazioni ed emozioni.

Non c’è differenza tra uno spartito composto, interpretato e un testo letterario abbozzato e corretto. In entrambi, si diventa protagonisti attivi di un palcoscenico ideale dove tutto è dinamismo, curiosità e perché no, gioco…

(il gruppo che ha eseguito la performance è Radio Days, Trento)

 

Questa lontananza così vicina di Paolo Di Paolo

di Marina Brunetti

Perrone Editore, 2009


questa lontananzaQuesta lontananza così vicina

Non so come chiamarla

per quanto la tocchi col pensiero

La notte che va a picco

la città come un monte franato […]

(Octavio Paz, El balcón)

 

La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. “Vivir para contarla” titolava infatti García Márquez uno dei suoi capolavori, riassumendo in tre parole l’afflato necessario che ci occorre a non gettare, nell’oblio del fiume Lethe (Λήθη), il bagaglio sofferto di memorie legate a chi abbiamo perduto. È così che ci troviamo a rivivere e a trasmettere, come tristi e moderni rapsodi, i momenti legati a qualcuno che ci manca, a qualcuno non più in vita. Paolo Di Paolo ci consegna e tramanda un dolce e sentito scritto, “Questa lontananza così vicina” (Giulio Perrone Editore, 2009), il suo personale “non omnis moriar” oraziano, in memoria della sua insegnante prematuramente scomparsa, alla ricerca di un’appropriazione, attraverso l’urgenza grafica, della propria esistenza, una restituzione di sé a se stesso o di qualcosa a qualcuno:

«Scrittura come risarcimento. Ti racconto perché tu viva ancora […]» […] «Doveva essere un’operazione di salvataggio. Di me stesso, per cominciare. Di Me com’ero a sette anni, di tutti i Me-morti che mi porto dietro». (ibidem, p.46-47)

Sarebbe di conforto se all’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto, al momento della nostra dipartita, o più tardivamente, qualcuno avesse la premura di prendere, tra le lacrime, un nostro diario di memorie e ci sfogliasse con i cinque sensi come facciamo con un libro? Che potesse, in modo finalmente terso, leggerci come mai fece in vita, fiutare i malumori, ascoltare i pianti occulti, toccare cicatrici, che scrutasse tra le pieghe e sotto l’insana maschera di ferro che smettiamo solo con la morte, per gustare il nostro io più vero. Saramago, ne La caverna (2001), diceva che ogni persona non è un’isola,«ogni persona è un silenzio, questo sì, un silenzio, ciascuna con il proprio silenzio, ciascuna con il silenzio che è». Dunque, per non perpetuarlo all’infinito, quel silenzio va almeno blandito da uno scritto e dovere di chi scrive – e rimane in vita – è scavare l’interiorità, perché «di scendere a fondo non si finisce mai», sosteneva Raffaele La Capria, «si tende sempre a privilegiare ciò che sta fuori, ciò che si vede, facendone una cronaca […]», mentre:

«ogni scrittore – dice in “Ferito a morte” dovrebbe sentire questa ferita; soltanto se sa cos’è il dolore di questa ferita, può sperare di mettere un poco di vita in quello che scrive. Soltanto se cerca di fare vero un Io, se incontra continuamente sé stesso». (ib., p.48)

Sembra quasi impossibile, perciò, affondare i propri remi e tirar su l’interiorità di un altro, melma e perle, dato che non siamo altro che scatole cinesi, siamo contenuti da e conteniamo tutti coloro che hanno incrociato la nostra “strada non presa”, perché qualcosa anche a loro ci accomuna, ma soprattutto a quella meno battuta che abbiamo scelto per noi:

«Ma da dove viene questa fame di vite altrui? […] Mi affascina pensare, di tanto in tanto, al novero di esperienze, percezioni, sentimenti che incrociano la vita di ciascuno – e la incrociano in fondo con la medesima melodia e intensità. Cambiano sfumature, ambientazioni, ma i gesti sono quelli: teste che penano per trovare la giusta inclinazione, labbra che lentamente si magnetizzano […] Più che la letteratura poté la chimica». (ib., pagg. 25-26)

Una docente avverte su di sé tutto il peso dell’essere “canna al vento“ tra i giudizi degli allievi, e viceversa; capita però che uno studente, tra quelli che non la maledissero, riesca a scoprire la chiave di lettura per aprire la sua serrata porta interiore, o quel che lei lasciava trapelare. E a evitarne la dimenticanza. Ma come? Complice anche il buon rapporto tra loro instaurato, Paolo Di Paolo, da lei ludicamente chiamato “Of Paul”, attinge alla cesta dei ricordi di scuola che lo legano a D., a creare con attenta mano l’origami prezioso, non privo di gambi spinosi, partendo dall’ultima lettera che D. invia a sua madre, una missiva asciutta, densa di direttive impartite da chi è adusa al comando, ma che tradisce anche una sua tenera, finale vanità. Nel nostro diogeniano, altruistico tratteggio, lo sguardo mnemonico pecca nei dettagli e il nostro autore comprende quanto le esperienze per D. fossero importanti, nell’insegnamento, per alimentare una sua “misteriosa caldaia interna”, che teneva al riparo di una lorica ostentata, da cui sgattaiolava fuori, di tanto in tanto, qualche spiffero d’affetto:

«Succede così, succede che spesso, nell’immagine che noi tracciamo degli altri, finiamo col trascurare dettagli essenziali: non li vediamo, non riusciamo a vederli. […] Se di qualcosa finalmente veniamo a capo assommando segni e indizi (carte ingiallite come queste che ho davanti), dobbiamo ritenerlo un piccolo, vitale miracolo». (ib., p.22)

A fronte della superficialità con cui d’istinto giudichiamo un essere senziente, anche docente, dal viso che mostra, dallo scomodo biglietto con cui diventa passibile, ai nostri occhi, di simpatia o antipatia, vale dunque la pena soffermarsi a scorrere le pagine postume che ha scritto, perché quelle sono il fidato linguaggio di sé. A proposito del poco sapere degli altri, di questa continua recita a soggetto che è la vita e del fatto che, spesso, quello che noi crediamo di vedere delle persone non è che, appunto, l’involucro che la natura ha scelto per noi, Kundera ne “L’immortalità” fa dire ad Agnes, rivolta al marito:

«Sì, tu mi conosci per il mio viso, tu mi conosci come viso e non mi hai mai conosciuto diversamente. Non poteva neanche sfiorarti l'idea che io non sono il mio viso». […] «Immagina di vivere in un mondo dove non ci sono specchi. Il tuo viso lo sogneresti e lo immagineresti come un riflesso esterno di quello che hai dentro di te. E poi, a quarant'anni, qualcuno per la prima volta in vita tua ti presenta uno specchio. Immagina lo sgomento! Vedresti un viso del tutto estraneo. E sapresti con chiarezza quello che ora non riesci a comprendere: tu non sei il tuo viso».

Dovremmo supplicare il destino, come fa dire la Barbery a Renée la portinaia, di darci la possibilità di vedere al di là di noi stessi e di incontrare qualcuno:

«Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire». (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, p.136)

«Smettere di raccontare significa anche far morire» (ib., p.87). Se, quando accade un evento di una qualsiasi importanza, non vi è, in quel dato momento, una telecamera a riprenderlo o un occhio testimone a fissarlo, quell’evento non è mai accaduto; così ciò che è stato può smettere irrimediabilmente di esistere, se nessuno lo ricorda, ed è forse ciò che intendeva il poeta Mario Luzi, quando scriveva: «Noi siamo quello che ricordiamo il racconto e’ ricordo e ricordo e’ vivere». E ancora, è proprio per evitare che vivere significhi solo quello che afferma Sartre(La nausea, 2003, p. 166-167), quando dice che «l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla nemmeno un ricordo. […] Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione», che Di Paolo si interroga se vi siano altre possibilità dell’esistenza che possano essere esplorate. Si chiede anche se sia possibile oltrepassare, in qualche modo, la soglia dell’imminenza, della parzialità, dell’incompletezza e incompiutezza del vivere, cui ogni singolo uomo è irrimediabilmente legato. Decide quindi di intraprendere ancora, mosso da misteriosa necessità, il tragitto che aveva fatto accanto a D. durante una gita scolastica, tra i luoghi in cui era nata, a Casale, assecondando un suo atto restitutivo post mortem, non solo in una dimensione temporale, ma anche spaziale. Il Piemonte, culla natia di lei, ma anche di Gozzano, Pavese e di Lalla Romano, che tanto amava e consigliava ai suoi studenti. Quant’è importante il territorio circostante, nella nostra vita? Quanto conta il paesaggio affinché la nostra solitudine possa chiudere il suo cerchio quieto?

«Pensai alla collina nebbiosa della mia finestra, ai miei boschi lontani velati dal sole […]. - La sua solitudine, precisò il professore tornando al lei, ha bisogno del paesaggio?». (Lalla Romano, Una giovinezza inventata)

Tutto concorre alla ritrattistica del nostro mondo interno, conta quello che i nostri occhi hanno visto e archiviato; forse il “passato non esiste”, moraviamente parlando, ma forse, ancora di più, non ci occorre che il dato evento sia accaduto ieri o ieri l’altro, «ha importanza il peso che ha acquisito in noi, il senso che il tempo gli ha attribuito» (ib. p.69) e, vorrei aggiungere, ciò che l’ha reso humus nostro, sostrato interiore, pacificato cemento. Nasce perciò l’istinto di sopravvivenza del nostro ricordo, «tutto quello che è deve continuare a essere», diceva la Romano ne “Le parole tra noi leggere”; questo può avvenire solo se accettiamo il sacrificio personale, come lo fu per lei l’inaccettazione del libro da parte del figlio, di tradurre agli altri o al foglio di carta, «dietro alla nettezza della pagina, dietro all’essenzialità della prosa […] il materiale ustorio, il risultato di una caccia grossa nelle regioni più intime dell’esistenza». (ib. p.70)

La Romano spietata, ironica, austera come D., gli mostra come annodare quel “tormento senza nome che stilla veleno”, gli fornisce acronicamente le appropriate parole, le giuste pose emotive per elaborare il lutto, quando rivela come riuscì a salvarsi dalla morte del marito Innocenzo, ricorrendo alle parole di Sant’Agostino:

«Mi ricordai di Agostino:Scendi in te stesso”. È stato un attimo, mi ha salvata». (ib. p.95)

L’umiliazione della morte. Che cosa può mai riscattarla? Forse solo il pensiero in noi di quelle presenze. Siamo costretti da una forza interna a compiere una sorta di pellegrinaggio, a far rivivere luoghi che gli stessi defunti hanno abitato visitandoli, per respirare l’aria che teneva loro in vita, torniamo ai loro scritti, come per carpire qualcosa di inedito, torniamo agli oggetti della loro esistenza, alle loro foto, alle speranze e ai progetti, rimasti a metà. Fino a giungere ai loro segreti, di cui non ci avrebbero messi a parte e che ora siamo capaci di svelare, eccetto quello inafferrabile di cui parla Hofmannsthal, e che ogni uomo porta con sé: «Come gli sia stato possibile spiritualmente vivere». Questo tentativo di colmare la distanza tra l’autore e la docente resta un toccante “tema di maturità fuori tempo massimo”, un lungo e tenero epitaffio personale, una rapida mano che deterge lo specchio appannato riflettente l’immagine di D., prima che questa scompaia del tutto; gesto che, come diceva Enzo Siciliano, possiamo rendere concreto attraverso la scrittura del nostro romanzo di vita e riuscendo a fare vero il nostro io.

Lalla Romano e la scrittura che incide

di Marina Brunetti

Lalla romano

 

"Le parole tra noi leggere" e "L'uomo che parlava solo" sono due opere indimenticabili. Qui le indaghiamo con un lavoro di scavo che riflette la complessa profondità di un'autrice che, ancora oggi, ci sorprende per la sua eccezionale capacità di penetrare nei recessi più profondi della parola e della vita. Che, nell'arte, finiscono sempre e comunque per coincidere...

 

«Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono», diceva Honoré de Balzac (La donna di trent'anni, 1842) ed è un peccato che a questa umanissima e specchiata verità non faccia da contraltare il legittimo corrispondente inverso. Da madri, gettiamo amore sparso a caso come grano nei campi, ma ogni tenero virgulto ha vita propria e quella di Piero, figlio della Romano e protagonista, suo malgrado, del libro “Le parole tra noi leggere” (1969), è il vissuto di un uomo in perenne conflitto psicologico con sua madre, l’io narrante, genitrice ansiosa e apprensiva, pervasa da eccessivo, tossico slancio, riconosciuto a fine libro come errore:

«Io sbagliavo col suocero per lo stesso motivo per cui sbagliavo con mio figlio: per passione».

«L’io narratore è nello stesso tempo il detentore della realtà dei fatti e un partecipe, di primo piano, dei fatti 
stessi. L’io è insomma fortemente implicato nella narrazione: doppiamente implicato se si pensa che dopo aver
partecipato alle vicende, ricomincia a parteciparvi riferendone». (G. Pampaloni, «La prosa di Lalla Romano», in
«Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze», a cura di Ria Antonio, Milano, Mondadori, 1996, p.236). 
L’affascinante diario che ci consegna in mano la scrittrice e che gode di una sua acronicità, pur essendo stato
scritto nel ’69, è un’analisi lucida e dettagliata di un’esistenza altrettanto difficile e complicata, quella del figlio
intellettualmente predisposto, seguito dalle elementari fino alla fase matura del matrimonio e delle oggettive
responsabilità, un autentico:
«girare intorno a un personaggio vicinissimo e allo stesso tempo lontanissimo,come solo una persona così
intima ed estranea come un figlio può essere. Cioè un personaggio estremamente interessante per me,
non in quanto figlio, ma in quanto uomo, in quanto persona».
Codesto romanzo, vincitore di un Premio Strega, è quello che ha ottenuto il maggior successo tra quelli della
Romano; ciò non è tanto sorprendente dato il tema (la difficoltà di educare un figlio), che richiamava una recente
rivoluzione sociale (il passaggio dall’educazione cosiddetta repressiva a quella cosiddetta permissiva). Il libro è
stato pubblicato al momento giusto: nel clima del ’68, «col suo ricco e confuso corteggio di idee politiche e
psicologiche». (G. Pampaloni, ibidem, p. 242)

Proprio come un farmaco che va somministrato a giuste dosi, anche l’amore va forse calibrato e, come spesso accade nei molteplici contesti di vita, soprattutto quello comunicativo, non è tanto la caratura del “cosa” venga dispensato, nel mitizzato “tempo di qualità”, quanto quella del “come”. Essere madre può rappresentare la gioia più grande, ma si offre anche al rischio di recuperare necessariamente uno degli archetipi fondanti della classica tragedia e, come tale, dare il funesto avvio a tutta una serie di spinose, correlate problematiche, ivi compresa quella nefasta della bulimia amorosa:

«Non vorrei davvero capisse quanto bene gli si vuole. Se io sapessi di essere amato come io amo lui, ne resterei turbato e legato nei movimenti». (pos.659 ebook)

Dunque, credo che leggere “Le parole tra noi leggere” in età giovanile, ci renda virtuali sostenitori di un’astratta claque di Piero, poiché in lui ritroveremmo tutta l’insofferenza e il malcelato risentimento che, spesso, abbiamo maturato noi stessi nei confronti della potestà genitoriale. Il nettare che i nostri genitori riversavano in noi, ammantato di bene, si riverberava e fermentava nel suo molesto e pervasivo opposto.

Viceversa, riprendere in mano questo volume intimista e pacato in età più adulta, coinvolti spesso nelle medesime dinamiche frustranti, vale a dire alle prese con un figlio sfuggente, adolescente alla ricerca della propria identità, certamente ondivago tra il soddisfare le aspettative genitoriali, le proprie naturali attitudini e l’immediata propensione al gioco, ci invita a uno sguardo più empatico e indulgente sull’immagine di madre e scrittrice piemontese e a rivalutare la missione ardua dei nostri genitori. L’occhio clinico di figlio, refrattario ai canoni molesti, muta in quello dell’ansiosa madre, provocatrice suo malgrado, sempre in cerca della chiave di svolta all’incomunicabilità e all’incomprensione, un tragico conflitto che stenta a guarire i due lembi di medesima ferita, «giacché a scontrarsi sono due entità, ciascuna dotata di propria legittimità e ragion d’essere».

Il conflitto affettivo tra la madre e il figlio viene percepito da Cesare Segre («Introduzione in Lalla Romano», 
Opere vol. 1, Milano, Mondadori, 1991) come quello tra le forme: «Il figlio ama, però in forme diverse da quelle
che la madre si attende, che saprebbe riconoscere; la madre ama, però con forme (passionali, esplicite, anche
prepotenti) che il figlio rifiuta, pur accettando implicitamente l’amore».
La sostanziale incomunicabilità sta nella riservatezza della madre e l’introversione del figlio. Tutto ciò evoca la
tecnica della Romano: «Accumulo di piccole osservazioni con la speranza di giungere ai significati basilari.
Ecco perciò questa espressione bellissima: “leggere” il figlio».

Raccontare lʼambivalenza del rapporto madre-figlio non è mai semplice: le donne non ne parlano mai, preferiscono nascondere sotto il cappello dellʼistinto materno le difficoltà. Invece la maternità si paga, ti ruba qualcosa. E nello stesso tempo ti regala un’esperienza unica, lʼincontro con lʼaltro, laddove consenziente.

Ed è qui che giunge a esibire le molteplici difficoltà del caso la nostra Lalla, cavia parlante di un processo evolutivo che non decolla, che non sortirà gli escatologici effetti da lei sperati, che parossisticamente la allontanerà ancor di più da suo figlio, rea di un eccessivo sussulto affettivo, ma allo stesso tempo miope presenza dell’esasperata riservatezza di Piero; un uomo che neppure da adulto le perdonerà questa pessima pedagogia che finisce per generare l’ottima letteratura a noi giunta, attraverso le pagine di un libro, questa pubblica affissione della sua interiorità, una vivisezione lucida di sé a cui opporrà il più ostinato e oltranzistico dei silenzi. Quanta colpa c’è, dunque, nel narrarsi attraverso i figli, nell’esporli nel teatrino della socialità? Narriamo di noi e di loro per cercare risposte e migliorare così la nostra vis materna, oppure i nostri scritti celano solo uno spiccato narcisismo, un elevato bisogno di conferme? Domande che si creano da sé, oggi, nel fumo pervasivo della rete:

«È un libro lucido, trasparente; ma un’ombra lo segue. Io non riconosco la colpa di cui sono stata accusata, quella cioè di aver “usato” un essere umano: la colpa per eccellenza, secondo Kant. Se chi scrive sempre in qualche modo “usa” gli esseri e se stesso, allora sì, è vero. Ma nel mio caso c’è l’aggravante che la vittima è un figlio: il mio stesso figlio». (Prefazione)

Fino a che punto una madre aiuta, o piuttosto, mette in difficoltà un figlio, negli anni misteriosi della sua formazione? Analizzando lo scritto, affiora il sospetto che l’intento vagamente machiavellico dell’autrice, quello cioè di controllare la crescita intellettuale del figlio in ogni suo aspetto, finisca per sortire l’effetto più temuto, un silenzio carico di emozioni negative: «Di fatto scrisse Calvino ne “L’avventura di un poeta” – ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l’avvolge: il silenzio dell’isola si staccava da quello del calmo mare circostante perché era percorso da fruscii vegetali, da versi d’uccelli o da un improvviso frullo d’ali». Come madre fa ricorso a mezzi universalmente sbagliati, a “rumori minuti” che somigliano piuttosto a domande inquisitorie, a un’ermeneutica materna e materica, un fallibile gioco a incastri che unisce frammenti di diario, lettere, disegni, temi scolastici, frutto di una sorta di trainspotting della memoria e delle viscere, tra apologia di sé e dolorosa confessione.

Mezzi, per quanto errati, che nascono tuttavia con il più modesto fine di ridestarlo da una silenziosa chiusura, atteggiamento evocante quello del giovane, riservato e schivo Törless (non a caso ‘senza porta’), di Musil: «Vuoi un consiglio? Non scrivere su di me», l’ammonisce il figlio e «Io non voglio essere nominato!».

Nel nostro caso, una testarda scalatrice che impiega il suo strumento migliore, la parola, per aggirare la montagna impenetrabile che lei stessa ha generato:

«Io gli giro intorno, con circospezione, con impazienza, con rabbia. Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo. Ma anche adesso ogni tanto – raramente – sbotto. Allora lui mi guarda con la sua famosa calma e dice: Tu mi manchi di rispetto!».

Una mesta, ma caparbia lotteria in cui una madre cerca in ogni modo di estrarre il termine vincente dal sacchetto dei ricordi.

Quando, tempo dopo la sua pubblicazione, qualcuno le scrisse per domandarle se avrebbe dato lo stesso alle stampe il libro, avendo potuto sapere per tempo quanto sarebbe costato a suo figlio e a lei stessa, lei rispose “”; mossa, dunque, da una sorta di insana coazione a ripetere i pedagogici errori, convinta che l’intrusione nella vita non possa cancellare l’altra verità, quella della poesia, così come non si può evitare il dramma, irrimediabile, che «anche un libro è un figlio», per uno scrittore o una scrittrice. L’impossibilità di risolvere, attraverso la scrittura, il dissidio tra una madre e un figlio, è poi denunciata dall’amara circolarità del testo, che lascia irrisolte le tensioni dei protagonisti.

Amore materno che dona, Agape (γάπη), pur non ricevendo in egual misura, in contrapposizione a Eros (έρως), l’amore passionale, quello destinato alla sofferenza, all’istinto distruttivo, come ammoniva Schopenhauer.

«L’ultima volta se ne è andata, un po’ ingobbita, ma abbastanza svelta. Non si è nemmeno voltata indietro. Ed è ben l’ultima volta, quella che conta».

(“L’uomo che parlava solo”, ed. Mondadori, 1995, p.180)

Leggendo “L’uomo che parlava solo” mi ricordai di un quadro di Magritte, dal titolo “La casa di vetro”: l’opera del grande surrealista belga rappresenta un individuo posizionato di spalle, il quale, proprio per questo motivo, non mostra il volto e cioè la sua identità, le sue emozioni, come un più blando ritratto pittorico del Mersault di Albert Camus. Queste ultime, però, sono percettibili attraverso uno squarcio che si apre sulla nuca dell’uomo, poiché da esso lo spettatore vede una parte del volto. Il significato dell’opera rimanda alla doppia componente della mente umana: conscia e inconscia.

Il surreale è questo istante:

«Tutti gli orologi si sono fermati.

Io mi trovo in bilico, fermo su un punto. No, è un filo: teso.

Dovrei percorrerlo, passare di là; se sarò capace, se non cadrò nel vuoto.

Questo filo davanti a me non so nemmeno se sia il mio futuro o il mio passato.

Se mi muovo, gli orologi riprenderanno a battere». (ibidem, p.7)

Il corto circuito emotivo da abbandono lo coglie così, su una panchina, di fronte al mare.

Inizia qui il logorante eppure inevitabile viaggio a ritroso, “l’occhio nucale magrittiano” di un uomo non più giovane, abbandonato dalla sua giovane amante.

Così, nel soliloquio di uno che non avrebbe, a detta dell’autrice, mai scritto un diario, egli ripercorre i momenti con Alda, ragazza amante della vita “ai margini”, alla ricerca di un dettaglio diverso per qualcuno di essi, così da sovvertire il temuto finale:

«Posso pensare che tutto sarebbe accaduto lo stesso, anche se l’inizio fosse stato un altro. Che importanza può avere, in sé? Un’inezia. E questo è bene un mondo in cui un’inezia può mettere in moto forze enormi, schiaccianti». (ib., p.9)

«L’enigma, in fondo, rimane questo: a che scopo?». È con domande come questa che il protagonista, l’uomo che parla solo, si trova invischiato corpo e beni in quello che lui chiama la “grande macchina”, che è poi la macchina dei sentimenti e dei fatti, che bene o male siamo costretti a far andare. Un individuo dalla natura contraddittoria, quest’uomo: funzionario di banca, ma burocrate dotato di una certa poetica sensibilità, di origine contadina, ma attratto dalle scienze esatte, austero e libertino insieme, un “dongiovanni involontario” lo definì meravigliosamente Vittorio Sereni, trovandovi affinità con se stesso. Un uomo tuttavia per nulla compiaciuto, un ignaro viveur dall’aspetto clericale: «Alda mi ha detto una volta: In te c’è qualcosa del prete» che, com’egli stesso dice «al momento di morire è il più povero. Non ho risolto nulla, capito poche cose, goduto senza passione». (ib., p.90)

Dunque, da uomo semplice qual è, per dirlo alla Ferrante, «reimpara – anche lui – il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché»; recupera le poche, rassicuranti certezze che ha acquisito al pari di una serena e sudata pensione e si avvia a riprendere, da nocchiero mutilato, quel nóstos (νόστος) odissiaco, “un ritorno a casa” metaforico con la fedele moglie Nora, ignara e refrattaria a tutto ciò che scompagini il suo quieto libro quotidiano, figurarsi una passione clandestina del consorte:

«Non vediamo, quello che muta insensibilmente, inesorabilmente, sotto i nostri occhi. Non si vede nemmeno il mutamento improvviso, totale. Si ha invece il presentimento, e non si vuol credere al presentimento. Stiamo ancora lottando con esso, non vogliamo arrenderci, e già tutto è passato. L’irreparabile è avvenuto ». (ib., p.12)

Gli argomenti morali, convenzionali che Nora avrebbe opposto, se avesse saputo della storia, sarebbero stati solo un’applicazione severa esatta di precetti, di norme, ma anche strani e logici, perché «questa è la sua logica, rozza, grossa, macina ogni cosa, ignora le sfumature. Per lei non c’è che bene o male. Di qua o di là». (ib., p.19)

Sorseggiare da soli l’amaro calice del vuoto, solo questo occorre apprendere.

Per farlo, si è costretti ad aggrapparsi come piovre alla noia faticosamente ricamata in due per anni, in un mesto sodalizio coniugale, semplice, dove «quello che per Nora è la casa, per me è il lavoro. Un alibi». (ib., p.15)

Dentro il pozzo fondo di questa mesta ruminazione cerebrale, l’uomo ravvede tutti i lutti che vanno poi a sommarsi a quello più recente, l’abbandono da parte di Alda, le morti precoci dei genitori, la perdita di una figlia appena nata, la mancata nascita di un altro figlio, ragione della sonda curiosa dell’amante:

«Infinite sono le strane, fredde sfumature, fili di ragno che irretiscono, impediscono, soffocano.

Di quante impercettibili freddezze è fatto un disamore, anche senza un atomo di odio.

Io penso persino: di quanti atomi di virtù è fatto un peccato; di quante timide esitazioni una ripulsa.

Di quanti ambigui silenzi un no». (ib., p.45)

In questo mirabile pensiero dimora, a parer mio, tutta la linguistica altezza dell’eloquio romaniano: ciò che interessa la scrittrice non è l’abbandono nostalgico al passato, ma appunto l’esattezza, la verità, che si raggiunge con lo strumento di un’analisi e autoanalisi coraggiosa fino alla crudeltà. Dunque assistiamo alla vivisezione di un ménage coniugale come tanti, ora tratteggiato con benevolo intento, ora secco e crudo ai limiti del cinico, fino alla conclusiva autoassoluzione:

«D’altronde, anche se fossi stato con lei il più amoroso dei mariti, sarebbe stata ugualmente gelosa. Io ho idea che la gelosia nasca da un’ammissione di debolezza: rendersi conto che qualcosa dell’altro ci sfugge e ci sfuggirà sempre. Perciò è irrimediabile». (ib., p.79)

Dello stile della Romano la critica ha messo in risalto «lo splendore semplice, non esibito» appreso dalla lezione di Flaubert, di cui è stata traduttrice. Significativo, a questo proposito, il contributo di Monsignor Ravasi di sintetizzare, in una frase, il senso della vita e dell’opera dell’autrice: «Lalla ha portato dentro di sé il seme della domanda, una ricerca agostiniana che non aveva fine». Dunque soliloquio, conversazione con se stesso come «ricerca interiore, solitaria, non espressa direttamente nella vita, ma puntualmente al di sotto o al di sopra di essa». La narrazione si svolge per forza interna come una lenta, faticosa ma dolorosamente sincera confessione:

«Io penso, penso; o meglio, parlo, rimugino. Questo ruminare non è da svegli, è una forma di sonnambulismo. Diventa fine a se stesso. Infatti: è la capanna che mi costruisco per sopravvivere  – nell’isola – con i rottami della mia nave». (ib., p.83)

A volte l’assenza è più definitiva della morte, l’uomo detesta parlare con gli assenti, con i morti, dunque la nostra sopravvivenza consisterà nel non parlare dei morti, nell’essere abbastanza vecchi e saggi da sapere che tutte le strade possono perdere, tutti i trabocchetti si possono aprire, se ricreiamo le mancate figure:

«Non c’è nobiltà nella caduta, non c’è dignità nella frenesia. No, non l’urlo, e nemmeno il pianto» (ib., p.89)

L’unica soluzione resta allora quella di parlare da soli, non a se stessi, sia chiaro, non è un catartico espediente per lavarsi la coscienza da propri errori o inettitudini, o un segno di stravaganza, di stranezza; è piuttosto, come sostengono gli psicologi quando cercano di spiegare il fenomeno del soliloquio, un mezzo che la nostra psiche attua per autocontrollarsi, per ridurre i comportamenti impulsivi, per sviluppare un migliore processo decisionale e, nel caso del protagonista, per attuare una ricerca di senso al tutto:

«Chi parla da solo si sdoppia. Ma io non mi rivolgo a me. Non sopporterei di darmi del tu. Parlo con Alda? Non credo. Il fatto è che io mi sdoppio, ma non in quanto parlo con me. Mi sdoppio e percorro due parallele. Di qua parlo, solo; di là sono quello che gli altri vedono, ascoltano. […] Io, più che altro, raccolgo, racconto. Considero, cerco di trovare un senso, un nesso tra i fatti, di comporre un certo ordine, una storia. Intreccio anche strade, figure. Entrano da sé, non le cerco. Mi servono». (ib., p.92)

Trovare un senso all’abbandono di Alda. L’ennesima conferma, forse, del suo spiccato senso libertario, perché «tale è la sua libertà. La libertà dei traviati, forse. Ma di quali? Perché lì c’è una possibilità di salvezza. Mentre a chi considera definitivo ogni passo, ogni errore, ogni caduta, la vita è un carcere, è l’inferno». (ib., p.130)

Ma forse qui dimora anche il conseguente vizio, il ripensarci. Ma se uno non crede che i nostri atti e le nostre parole comincino e finiscano come oggetti, deve pur scavare, in essi, o scavare in sé; meglio, seguire una pista, vedere dove conduce. Soffermarsi a guardare, dopo aver solo veduto tante volte, i particolari di un quadro, chiudere gli occhi, riprendere il contatto con la realtà, sono tutti momentanei palliativi necessari come l’aria, dopo aver inizialmente vagheggiato la morte:

«I primi giorni dopo che mi ha lasciato, non ho pensato di uccidermi – se l’avessi pensato l’avrei fatto – però ho desiderato di essere morto. Adesso, in certi momenti penso: «Mi basta che sia esistita». Forse sono già capace di pensare a lei «come fosse morta». Dev’essere perché, in un certo senso, sono morto io». (ib., p.160)

«Il soliloquio - come scrisse Montale – resta un andirivieni del pensiero che circonda le cose, ma non le sconvolge», perché «per quanto si vada in fondo, in noi stessi, non possiamo trovare altro che noi. Gli altri rimangono, in noi, col loro segreto: come fuori di noi». (ib., p.179)

Chissà se esistono ancora dongiovanni involontari. Certamente sì. E ragazze come Alda, che scelgono di vivere ai margini? «Voglio sperarlo», si augurava la Romano, perpetuando, nel suo libello, l’eterno sopravvivere di umani sentimenti.

 

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