Le radici della femminilità: il mito della Grande Madre

di Maila Daniela Tritto




Il femminino sacro nelle religioni ne rappresenta sempre un aspetto pieno di  suggestioni.  Che affascina e seduce chi se ne occupa, perchè i suoi richiami vivono ancora oggi...

 

Amica inviolata della pace,

Del tardo tempo e del silenzio alunna,

Narratrice silvestre che si piace

Di raccontare favole fiorite,

Dolci ad udire più del nostro canto;

Qual leggenda di foglie incoronata

È delle forme tue qui figurata

Di celesti o mortali, o d’amendue

in Tempe o per le valli dell’Arcadia?

(Ode su un’urna greca, John Keats).





Questi versi poetici di John Keats sembrano ricalcare alla perfezione il tema di cui qui ci occuperemo e che, come suggerisce già il titolo, appartiene a quel mondo atavico caratterizzato dalla presenza del Femminino Sacro nelle religioni. La musa ispiratrice del poeta inglese pare assumere le sembianze della Grande Madre, in altre parole la Madre di tutti gli esseri viventi, che persino Robert Graves aveva celebrato nella sua mirabile opera La Dea Bianca: Grammatica storica del mito poetico del 1948.

oscureIn questo saggio Graves afferma: «La Dea è una donna snella e affascinante, col naso aquilino, il volto di un pallore mortale, le labbra rosse come le bacche del sorbo selvatico, gli occhi straordinariamente azzurri e lunghi capelli biondi». È un’immagine che, in realtà, si pone in contrasto con la Venere di Willendorf – nota anche come la donna di Willendorf –, una statuetta raffigurante una donna dal fisico steatopigo, appartenente al Paleolitico. La statuetta, che fu rinvenuta nel 1908 dall’archeologo Josef Szombathy, è uno degli esempi migliori dell’antica civiltà guidata dalla forza generatrice di una donna. Ed è di questo che parla il libro da me analizzato scritto da Luciana Percovich Oscure madri splendenti. Le radici del sacro e delle religioni (Venexia, 2007), e che in questa sede tenterò di spiegare con vari riferimenti antropologici, utili affinché emerga la tradizione del Mediterraneo.

Proviamo, dunque, a immaginare un mondo guidato dalla sola forza delle donne, rappresentato dalla loro condotta nei diversi ambiti socioculturali. In effetti, alcuni potrebbero pensare che sia solo un’utopia – un desiderio, per le donne, di accettazione e autoaffermazione –, mentre altri non sarebbero per nulla d’accordo che ciò avvenga. Eppure la nostra civiltà, che affonda le sue radici nella preistoria, era caratterizzata dal matriarcato – parola formata dal latino mater (madre) e dalla radice greca archein (essere a capo, comandare) – una forma di organizzazione sociale alternativa al patriarcato.

L’archeologia ha indagato in profondità sul tema, ed è grazie a studiose come Marija Gimbutas (1921 – 1994), se oggi abbiamo un’importante testimonianza dell’Età del bronzo – tanto da guadagnarsi la reputazione di specialista mondiale – e del folklore lituano. I suoi scavi sono stati fatti nel bacino del Danubio e nel nord della Grecia. Un lavoro che il saggista e storico delle religioni Joseph Campbell ha paragonato alla decifrazione dei geroglifici egizi da parte di Jean-François Champollion e Ashley Montagu.

La ricerca di Marija Gimbutas è stata fondamentale e si distingue da quella dei due antropologi, poiché in primo luogo è stata eseguita da una donna, poi perché ha letto le testimonianze con coscienza e dedizione affinché emergesse un passato arcaico descritto dalla presenza – non del tutto cancellata – del femminile nella storia. La sua tesi non è astratta, sebbene qualcuno abbia definito la donna come una ‘femminista visionaria’, tuttavia ha lavorato duramente per decifrare i materiali scoperti durante le lunghe spedizioni nelle zone del Mediterraneo.

Sulla stessa scia di pensiero si colloca l’attività della docente Momolina Marconi (1912 – 2006), i cui lavori sono rimasti nell’ombra per troppo tempo, ma in seguito sono stati ripresi per esaminare gli aspetti comuni delle religioni bagnate dal Mediterraneo, nella Mezzaluna fertile e fino all’Indo. La sua formazione di stampo letterario è stata decisiva, grazie alla quale è riuscita a decifrare i testi e gli autori classici che hanno esaminato le parentele e le sovrapposizioni delle divinità mediterranee.

«Vieni, vieni (…) (perché già da tempo) dalla reggia del padre tutta d’oro venisti allora. Al giogo del tuo carro erano passeri belli: sopra la terra bruna ti portavano rapidi con un battito fitto d’ali – scia nell’aria, dal cielo» quest’intima preghiera, nella quale la poetessa Saffo invoca Afrodite, è giunta a noi attraverso la voce di una donna dalla personalità complessa, eppure unita anche lei al culto della Grande Madre.

Ed è in alcuni testi come quello scritto da Marija Gimbutas Il linguaggio della dea pubblicato nel 1989, o quello di Momolina Marconi Riflessi mediterranei nella più antica religione laziale del 1939, che emergono plurimi aspetti della Dea. Risulta, quindi, chiaro che la Grande Madre è, al tempo stesso, la Signora della Vita, ma anche la Madre dell’umanità, la Signora del cosmo e delle stagioni, Fonte di sapienza e protettrice delle popolazioni. D’altronde il suo nome cambia secondo l’origine di appartenenza. Per la popolazione sumera, infatti, è Inanna – la dea della fecondità, della bellezza e dell’amore –, per Omero erano le Nereidi – le ninfe marine, figlie di Nereo e di Oceania Doride –, considerate creature immortali di natura benevola.

In un inno orfico, poi, è Gaia, la dea primordiale e potenza divina della Terra vestita di fiori e dai seni ricolmi «cui d’attorno il mondo ben costrutto degli astri/per legge eterna si volve e con ritmo possente», ma è anche Natura: «Artefice perfetta, plasmatrice feconda, augusto nume», che si distingue per la sua ciclicità, e che persino Aristotele, nella sua Metafisica (IV secolo a.C.), descrive come: «Sostanza di quelle cose che hanno un principio di movimento in se stesse».

E ancora, fra gli Ittiti la Dea è Arinna, governatrice del sole ed è la più importante fra le tre principali divinità solari del pantheon ittita; ma è anche Iside che in Egitto è la dea della maternità, della fertilità e della magia. Sì, perché se c’è un aspetto che incuriosisce la figura della Dea, è proprio la magia. Nell’opera Il ramo d’oro, l’antropologo James Fraser si occupa degli studi sulle culture primitive che hanno come filo conduttore la teoria evoluzionistica.

In questo saggio – che è un incrocio fra la mitologia greca e la protostoria – egli afferma: «Se analizziamo i principi di pensiero su cui si basa la magia, troveremo probabilmente che essi si risolvono in due: primo, che il simile produce il simile, o che l'effetto rassomiglia alla causa; secondo, che le cose che siano state una volta a contatto, continuano ad agire l'una sull'altra, a distanza, dopo che il contatto fisico sia cessato. Il primo principio può chiamarsi legge di similarità, il secondo, legge di contatto o contagio».

Sebbene la società patriarcale abbia ridotto i ruoli degli dei e, di conseguenza, abbia favorito la religione monoteista rispetto a quella politeista, la voce della Dea – tipica, si è visto, da un lato della società matriarcale e dall’altro del politeismo – non è rimasta inascoltata. Oggi, infatti, si possono contare diverse leggende, favole e culti popolari che tramandano la sua presenza nel tempo antico. È emerso, dunque, come la Dea abbia conservato di sé l’aspetto mutevole, poiché a ogni cambiamento si rinnova continuamente.

In Italia la riscoperta del culto della Dea è avvenuta dapprima grazie all’impegno della teologia femminista, poi con gli studi più moderni e autonomi che abbiano dato rilievo alle scoperte archeologiche di Marija Gimbutas, la cui opera è stata studiata anche da Momolina Marconi che, subentrata al maestro Uberto Pestalozza per l’insegnamento della Storia delle religioni, ha dato nuovo impulso alle religioni del Mediterraneo.

Nell’introduzione a Il linguaggio della dea, Joseph Campbell dichiara: «Se avessi conosciuto prima Marija Gimbutas, avrei scritto dei libri completamente diversi», avvalorando l’impegno dell’archeologa che non deve essere sottovalutato, poiché i dati emersi sono stati utili per elaborare un glossario affinché si possa meglio interpretare la mitologia che è contrassegnata dalle tracce della femminilità. Il libro contiene, dunque, un’indispensabile iconografia della Grande Madre, giacché sono state inserite centinaia d’immagini sulle molte raffigurazioni derivanti dagli scavi durati per circa dodici anni e che vanno dal 6500 al 3500 a.C. – siamo, dunque, nel periodo del Neolitico –, e dal 4500 al 2500 a.C., momento che coincide con la diffusione dell’agricoltura nel resto dell’Europa occidentale.

Ma quali sono i simboli della Grande Madre? In realtà, l’archeologa li ha classificati in quattro gruppi o temi fondamentali: Dispensatrice di vita, Terra eterna che si rinnova, Morte e Rigenerazione ed Energia e Sviluppo. Il primo motivo comprende la sfera acquatica, poiché la civiltà antica credeva che l’acqua generasse la vita. Di conseguenza, l’immagine che rappresenta la categoria è il corpo gravido della dea, come quello della Venere di Willendorf, ma anche la Venere di Lespugne e di Laussel. Gli animali connessi a questa figura sono l’orsa, il cervo, il daino, il bisonte – quest’ultimo importante, poiché le sue corna simboleggiano la luna e, con le tacche incise come nella Venere di Laussel, indica il calendario lunare o mestruale.

La Terra eterna che si rinnova è, invece, la categoria appartenente a un’epoca diversa, in altre parole quella del Neolitico agricolo e sedentario. In questo periodo si sviluppa l’arte della ceramica e l’attenzione si sposta su un’altra figura dalle sembianze dissimili, infatti, è più snella e compaiono le prime forme del dio. L’animale associato è l’ariete, giacché probabilmente fu il primo a essere addomesticato. La vita sedentaria conduce l’uomo a una diversa sperimentazione delle sue abilità, così nasce la tessitura che si fa portatrice della divinità trina – le Tessitrici, che in seguito diventano le tre Parche. Un altro animale associato alla dea è la scrofa, per la sua aumentata fertilità, e l’uccello che si riconnette alla prima categoria acquatica.

venereTuttavia, nel secondo gruppo ritroviamo anche gli elementi legati all’agricoltura, poiché la Dea è anche quella della vegetazione, dalla quale deriva il mito di Persefone e Core. Poi il mito sarà completamente rovesciato e il Dio della Vegetazione sostituirà la Dea. La prima apparizione della divinità maschile che incomincia a sostituire quella femminile avviene nell’Antica Europa, ed è quel dio che deve garantire la ricchezza e l’abbondanza del raccolto e della fertilità della terra.

Il terzo gruppo, che fa capo alla Morte e Rigenerazione, appare tra la fine dell’Età del rame e quella del ferro, con l’avvento degli Indoeuropei. In questa fase la nuova associazione della Dea è quella dell’avvoltoio – che pure è molto presente in Egitto –, e che va al di là della naturalità e del ciclo della vita e si carica di un significato più astratto della morte intesa non come la fine del tutto, bensì come un momento di passaggio per la rinascita. L’animale abbinato a questa fase è la civetta, un uccello notturno annunciatore di morte. Di qui la paura dell’uomo per la fine della sua vita, e la volontà dello stesso di costruire i santuari e le piramidi che diventano dei veri e propri luoghi di culto.

Infine, l’ultima categoria è Energia e Sviluppo e, come la precedente, ha un significato immateriale, poiché coincide con l’energia creativa per eccellenza che è simboleggiata dalla spirale. L’animale-simbolo è il serpente kundalini, forma base del cosmo giacché le galassie, le nebulose ecc., sono tutte a forma di spirale e anche il Dna. In questo gruppo troviamo anche le falci di luna e, dalla fine del Neolitico, inizia a spuntare il simbolo dell’albero della vita, che nella sua forma più astratta è la croce. La partecipazione alla vita dell’albero conduce ai tre regni: ctonio, terrestre, aereo o solare.

In realtà, i simboli del passato sono ricorrenti anche nel nostro presente. Marija Gimbutas, infatti, diceva che: «Le credenze delle popolazioni agricole riguardo sterilità e fertilità, la fragilità della vita e la costante minaccia di distruzione, e il periodico bisogno di rinnovare i processi generativi della natura, sono tra le più durature. Continuano a vivere nel presente, così come gli aspetti arcaici della Dea preistorica, nonostante il continuo processo di erosione dell’età storica. Trasmesse da nonne e mamme della famiglia europea, le antiche credenze si sottrassero al processo di sovrapposizione dei miti indoeuropei e infine di quelli cristiani. La religione incentrata sulla Dea esisteva molto prima di quelle indoeuropea e cristiana…e ha lasciato un’impronta indelebile nella psiche occidentale».

D’altra parte anche Momolina Marconi ha avuto la stessa esperienza della Gimbutas, poiché il materiale da lei reperito, contenente miti e nomi, è stato di facile comprensione. In questo caso, però, l’attenzione si è spostata sulle antiche divinità femminili che hanno occupato un posto di rilievo all’interno della società italiana, in particolare della cultura greco-romana nelle zone dell’antico Lazio, e che si estendono fino alla penisola iberica e alle coste settentrionali dell’Africa. Questa parte è intitolata La grande divinità femminile mediterranea, ed è la dea che si stringe i seni, la dea che regge o allatta il bimbo, la potonia zoròn, la dea con la colomba, la dea Efesia e la dea Lucifera. È la dea che conserva la sua femminilità e la forza generativa, ma ha anche una parte – quella lucifera – che, in seguito, è stata demonizzata dall’avvento del Cristianesimo.

Momolina Marconi afferma: «È ormai noto che il culto dei Mediterranei era rivolto a una grande dea, signora delle erbe, dei fiori, delle piante, signora delle belve e degli armenti, signora degli agricoltori e dei marinai, signora delle fanciulle mature per le nozze e delle spose feconde (…) Orbene, questa onnipotente divinità è specialmente adorata come largitrice di salute, di benessere. Quali sono i mezzi di cui dispone per quest’opera essenziale? La conoscenza delle erbe e dei fiori da cui estrae succhi e unguenti e beveraggi che ridonano, per prodigio, la salute, la giovinezza, la vita. Ond’è che in questa diuturna, nobile fatica di potnia fyton (Signora delle piante), essa s’identifica con la terra, è dai suoi fedeli sentita come la terra, feconda altrice di vita, che da sé genera instancabilmente le erbe tenere, i frutti copiosi, i possenti tronchi».

Abbiamo, dunque, esplorato una fase dell’uomo che ci sembra molto lontana, difficile da immaginare senza l’aiuto di quei meravigliosi lavori di archeologia e antropologia, necessari affinché possiamo comprendere le nostre radici che sono più femminili di quanto potremmo pensare. D’altronde anche la studiosa Luciana Percovich, nell’introduzione al suo libro, si chiede: «Quali effetti ha prodotto e continua a produrre, su di me e in ogni altra donna, una simbologia maschile del divino, cioè sul potere ultimo da cui emana, regolandola, la vita?». Quali, invece, sono gli effetti che derivano da un mito strettamente femminile? Se per capire il presente è necessario ricorrere al nostro passato, ne deriva che l’umanità è figlia del suo tempo, fra il mito e il sogno.



Maila Daniela Tritto -

Maila Daniela Tritto è nata il 25 ottobre 1987 a Venosa (PZ). Ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Comunicazione e la laurea magistrale in Informazione e sistemi editoriali con una tesi in Storia dell’opinione pubblica dal titolo Donne tra le lettere. Per una storia dell’editoria e dell’opinione pubblica nell’Europa moderna. È appassionata di letteratura ed è attenta ai temi socioculturali che coinvolgono soprattutto le donne. Ha scritto e scrive tuttora per alcune riviste sul Web. Le sue scrittrici preferite sono Virginia Woolf, Emily Brontë, Jane Austen, Grazia Deledda, Dacia Maraini e Oriana Fallaci, ma è interessata anche alla poesia di Emily Dickinson e Alda Merini. Ama l’arte in tutte le sue molteplici forme e possibilità, compreso il teatro di William Shakespeare e Eduardo De Filippo e la fotografia di Man Ray e Henri Cartier-Bresson. Una delle sue citazioni preferite fa parte del saggio Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf: «Senza nessun bisogno di affrettarsi. Nessun bisogno di mandare scintille. Nessun bisogno di essere altri che se stessi».

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