Le avventure di Pinocchio: storia di un bambino vero.

di Teresa Merone


Diventare adulti implica una sofferenza, un lutto. In questa ipotesi la vicenda di Pinocchio ci racconta del viaggio, a volte doloroso ma necessario, che tutti noi abbiamo fatto per diventare adulti.

 

 

<<C'era una volta...

Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.>> (Collodi, Pinocchio)

 

I viaggi e gli eroi, topic comuni a quasi tutte le storie e la letteratura che conosciamo.

Eroi che viaggiano per poter cambiare, per poter migliorare, per dare senso alla propria vita. Dal viaggio di Ulisse, la sua Odissea, ai viaggi impregnati di significati più forti, quelli che appartengono alla crescita e al raggiungimento di una qualche maturità.

Ma l’eroe che ha segnato le tappe della crescita dei bimbi con le sue bricconerie, un viaggiatore ignaro della sua sorte e del riscontro positivo soprattutto in campo psicopedagogico, rimane intoccabile: Il Pinocchio di Collodi.

Il “Giornale dei bambini” diretto da Martini, tra il 1881 e il 1882 ospitò il racconto di un “toscanaccio”, di un monello che proprio non ne voleva sapere di adattarsi alla “norma”, alla scuola e alla dolce vita familiare. E Collodi, non troppo convinto dell’unione italiana, non poté che donare al suo “ciocco” un atteggiamento di irrompente vitalità, sottolineato dall’uso del toscano vernacolare, del dialetto; una lingua così lontana da quell’Italiano insegnato nelle scuole, ma che ancora destava qualche perplessità. Scelta non casuale questa… come può una lingua, accettata dall’Italia nuova di zecca, poter rappresentare l’unicità di Pinocchio, il suo essere diverso? Disegnare le fattezze di un bambino che vuole rompere gli schemi familiari e della comunità perbene? No, i più piccoli non possono semplicemente uniformarsi o essere spontaneamente grati ai propri genitori per aver venduto la propria giacca per un abbecedario.

I bambini veri non possono, figuriamoci un burattino!

Pinocchio è un eroe atipico, non combatte contro i draghi, non contro i maghi, né per salvare una principessa. Il suo premio è più “autentico”. Pinocchio vuole essere vero. E crescere, crescere a modo suo, al di fuori di quelle norme già stabilite: a lui, la scuola e la riconoscenza stanno stretti. Questo però non vuol dire che non ci abbia provato… o che non ci abbia almeno pensato.

Collodi ci rende partecipi delle sue marachelle, ci fa identificare con quel monellaccio che non riusciamo a condannare nemmeno nei momenti peggiori, un po’ come con il Tom Jones di Fielding. In fondo, entrambi sono vittime della loro ingenuità, di malintesi: si possono giudicare dei personaggi che sono causa del loro stesso male e che ne pagano inevitabilmente le conseguenze? No, gli ingenui non possono essere biasimati e loro, indiscutibilmente, lo sono. Pinocchio nasce dal desiderio di paternità di un falegname, che ancor prima di veder compiuto il suo lavoro, ama il “ciocco” e fa progetti per lui. Un “pezzo di legno”, già in età per la scuola, che plasma come un pigmalione, e che non si accontenta di creare, ma a cui insistentemente prova ad inculcare quelle che sono le regole che vorrebbe che il bambino interiorizzasse. Regole come l’”essere il suo bastone per la vecchiaia”, il dover “studiare”, l’”essere perbene”. Geppetto è un modello autentico di genitore, prova a contagiare con la sua etica un bambino che non ha ancora trovato la sua strada, dona la “norma” a chi non ha ancora chiaro il suo ruolo nel Mondo.

E non è nemmeno l’unico a farlo!

Un altro personaggio ostinato nel dare giudizi e “norme” è il Grillo parlante. Una fonte giudicante e dispensatrice di moniti. E Pinocchio, per tutta risposta, non bada né all’uno, né all’altro. Bada invece a “incoraggiamenti” più invitanti, a coloro che riescono a persuaderlo con fervore dei loro punti di vista… a coloro che lo portano a confrontarsi con una realtà così diversa da quella del “focolare”. Mangiafuoco, Lucifero, il Gatto e la Volpe diventano esplicativi del lato oscuro presente in Pinocchio, che segue le tentazioni come il profumo di una torta appena sfornata. Il cuore di legno viene sballottato tra cose incredibilmente belle che nascondono tutto il male del Mondo e che, periodicamente, lo portano al pentimento e al senso di vergogna per ciò che non riesce ad essere. Il vortice della Realtà lo trova sempre ingenuamente sprovveduto, privo delle “virtù cardinali”, fino a farlo cadere sempre più giù nella desolazione e in situazioni surreali. Ma il burattino non ha ancora imparato niente dalle brutte punizioni che gli sono state riservate, non ha mantenuto le promesse fatte, più agli altri che a sé stesso, e così si ritrova a cambiar forma, l’unica che potesse sottolineare la sua sconsolante situazione di bambino ignorante e sconsiderato. Pinocchio diventa un asino, come lo divenne Lucio nelle Metamorfosi. La curiosità è la qualità, denotata in modo negativo, che conduce entrambi i personaggi, sballottati, ad un comune destino: la trasformazione, che l’autore latino descrive così nel terzo libro delle Metamorfosi:

<<[…] i peli cominciarono a diventare ispidi come setole, la pelle,

delicata com'era, a farsi dura come il cuoio, alle estremità degli arti le

dita si confusero, riunendosi in una sola unghia e in fondo alla colonna

vertebrale spuntò una gran coda.

Poi eccomi con una faccia enorme, una bocca allungata, le narici

spalancate, le labbra penzoloni, mentre smisuratamente pelose mi erano

cresciute le orecchie. Nulla in quell'orribile metamorfosi di cui potessi

per qualche verso compiacermi[…].>>.

Una volta toccato il fondo, però, spesso non si può far altro che raschiarlo. Il ragliante “ciocco” necessita di un ultimo monito, qualcosa che possa farlo immergere nelle acque della redenzione per diventare materia nuova. E come farlo senza richiamare un riferimento biblico? Impossibile. Dal mondo latino, quindi, Collodi si tuffa nel mito biblico, precisamente in quello che vede Giona inghiottito da un pesce:

(Bibbia, Libri Profetici)

Giona come Pinocchio, aveva rinnegato il Padre ed era così stato inghiottito dall’animale, che lo rigettò solo al momento del suo pentimento sincero. La redenzione e l’affetto verso il Padre ha permesso ad entrambi di uscire illesi e di perseguire la via della “rettitudine”.

Rettitudine che suggerisce un’altra analogia, sempre biblica, con la figura del figliol prodigo, che dopo esser sfuggito dalla potestà paterna ritorna sinceramente pentito delle sue malefatte e per prendersi cura del suo vecchio che, nonostante tutto, continua ad amarlo incondizionatamente:

<<E il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". Ma il padre disse ai suoi servi: "Presto, portate qui la veste più bella e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato". E si misero a fare gran festa.>>

( Luca 15,11-32)

Così farà anche Pinocchio, che andrà a scuola e lavorerà per un solo bicchiere di latte che faceva tanto bene alla salute del “babbo”.

Il percorso di formazione e di crescita, però, non sarebbe mai stato completato dal burattino se non con l’aiuto dell’unico elemento femminile e matriarcale della storia, la Fata dai capelli turchini. A differenza della figura di Geppetto, la Madre non elargisce moniti, avvertimenti, ma si limita a donare la giusta libertà al piccolo Pinocchio e a riportarlo sulla strada giusta con espedienti complicati, come quello di fingersi morta a causa dell’infelicità procuratagli dal “fratellino”. La Madrina lo cura quando è privo di forze, crede in lui quando promette di essere buono e lo guida quando smarrisce la strada.

La Fata è colei che porta alla trasformazione, alla maturazione. È lei ad elargire il premio finale all’ormai bambino vero, colui che ha interiorizzato l’importanza della famiglia, del vivere secondo la regola e la bontà. Ancora una volta la figura della Madre sembra richiamare le vicende narrate da Apuleio, e in particolar modo la figura della dea Osiride che permette, a Lucio, di ritornare ad essere un uomo, uomo stavolta illuminato e devoto alla sua dea:

<.>>

(Metamorfosi, Libro XI)

La fiaba si conclude con la ritrovata felicità per Pinocchio e il suo vecchio padre.

Quella felicità agognata per così tanto tempo da entrambi.

Collodi, a parer mio, ci invita ad una vera e propria riflessione: considerare le fiabe come fini a sé stesse e soprattutto solo come letture leggere per bambini, non può che essere riduttivo. Parlare con i bambini non è per tutti, soprattutto quando si tratta di supportarli e seguirli nei loro cambiamenti.

Non è poi così semplice diventare bambini veri.

Teresa Merone -

"Nata e cresciuta in una famiglia di artisti, padre pittore e madre pianista.

Non so dipingere né suonare.

Io scrivo e leggo, leggo e scrivo.

Ho una smodata passione per il giallo, cosa che probabilmente Freud imputerebbe all’incestuoso amore per mio padre. Detesto le acciughe e i capperi, la verdura tra i denti, il mio “doppio mento”. Amo, invece, il caffè, avere sempre un’opinione e le mani calde. Le mie parole preferite sono “quinquennio” e “quisquilia” che ogni tanto ripeto nella mia testa per calmarmi, nei momenti di forte stress. Ho conseguito la laurea triennale in Lingue, Lettere e Culture comparate presso l’Orientale di Napoli ed è proprio lì che ho cominciato a rimuginare sull’idea che non ci può essere vera amicizia se, al bar, si divide il costo del caffè. I miei difetti sono deliziosi, davvero: gesticolo animatamente anche per spiegare una cosa, in sostanza, triste, credo di avere sempre ragione e sono una portatrice sana di ansia e di sciagure. Ho anche degli aspetti positivi, ma non ne ricordo nessuno. Ma sicuramente li ho, da qualche parte."

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