Manifestare, combattere, cambiare. Come?

di Francesca Pacini


imgSe vogliamo che il mondo cambi, dobbiamo cambiare noi. Non sarà mai abbastanza vero, e difficile. Molto più facile voler cambiare il mondo “fuori”, piuttosto che guardare dentro di noi, e scoprire la moltitudine dei nostri difetti, che esistono, e resistono, con la stessa tenacia di un vizio. E, si sa, i vizi non vogliono morire, mai. Dunque eccoci pronti, lancia in resta, a combattere le nostre ombre all’esterno, le stesse ombre che Freud e Jung, con un’intuizione che avrebbe cambiato per sempre la storia della psicologia, individuavano come proiezione dei nostri stessi limiti, delle faccende irrisolte che ci trasciniamo dietro. Se riusciamo a esaminare attentamente le nostre reazioni, scopriamo, con fastidio, che quando reagiamo in modo eccessivo a qualcuno o qualcosa abbiamo trovato un punto debole, fragile, dentro noi stessi, che combacia esattamente con l’oggetto delle avversioni, delle aggressioni, delle esacerbate irritazioni.

Combattiamo quindi l’ombra all’esterno, negando, e non modificando, quella che invece pascola felicemente nascosta nei nostri prati interiori.

E così, da sempre, l’uomo non cambia mai. E ripete sempre le stesse modalità. Un Gattopardo cronico, perenne, che sopravvive ai tempi e alla storia e muta per non mutare mai. Se invece cambiassimo direzione, invertendo lo sguardo e l’azione, forse qualcosa potrebbe cambiare davvero.

Ma dobbiamo scavare dentro. A fondo, molto a fondo. Poi, solo dopo, possiamo anche pretendere di cambiare qualcosa “fuori”.  Agendo con la stessa lucida oggettività che proveremo ad applicare a noi stessi.  Riflettiamo, pensando alla nostra pretesa di pace universale, quando non siamo capaci, magari, di portare quiete e armonia neppure in famiglia.

Mi diverte, osservare i condomini che durante una riunione si fanno a pezzi per un cortile comune, e che dopo, magari con gli amici, inneggiano alla cessazione di ogni  conflitto fra Israele e la Palestina, lamentandosi per la situazone. Come può esserci pace nei mondi lontani da noi se non riusciamo neppure a portarne un pezzettino in casa nostra? Ci penso spesso. Forse è anche per questo che le rivoluzioni sono finite tutte con il somigliare, in qualche modo, al sistema ingiusto che hanno combattuto.

Da Mao a Castro, passando per Stalin, i cambiamenti radicali non hanno modificato un certo assetto che è tornato a manifestarsi. Gli unici, difficili, fulgidi esempi di cambiamenti più sostanziali sono frutto di quei rarissimi uomini che hanno prima percorso un cammino interiore, come Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela. Uomini saggi, eroi e campioni di dialogo e umanità. Perché senza dialogo e  umanità non c’è mai cambiamento. Questo non significa che dobbiamo soltanto occuparci di noi stessi, ma che dobbiamo stare attenti a non spostare “fuori” i nostri problemi e le nostre rivendicazioni. Poi, certo, occorre trovare l’equilibrio tra il cammino individuale e quello collettivo. Senza relazione con gli altri non vale neanche la pena di esistere.

Ma il “bene comune” non potrà mai prescindere da questo complesso lavoro interiore. Ultimamente ho partecipato a diverse manifestazioni, da Gezi Park ai No Tav fino alla Terra dei Fuochi. Ho sentito, sulla pelle, tutte le ingiustizie che, per motivi diversi, intere generazioni subiscono e hanno subito. Ho visto persone di ogni razza marciare, e protestare, per i loro diritti feriti. E mi sono coinvolta. Ovviamente. Perché i nostri destini sono legati da un filo invisibile, che supera ogni confine e barriera. E che, grazie all’empatia e alla compassione, ci permette di sposare anche cause che non ci coinvolgono direttamente. Ed è così che ho sentito mie le colline e i prati verdi  su cui scivolano le  nubi che tagliano la trasparenza dei cieli  in Val di Susa, e ho sentito nelle narici la puzza dei roghi tossici che marciscono il corpo e la dignità degli abitanti campani, ed è sempre così che ho abbracciato gli alberi di Gezi Park insieme al sogno di una democrazia in quella terra bellissima, porta fra i mondi, che è la Turchia.

La loro lotta era la mia. Insieme prestavamo la voce per un coro più forte, e più ampio. Mi sono fermata a osservare quelle facce, quei gesti, quelle storie incrociate per caso. I bambini che, a Napoli, agitavano gli striscioni con cui cercavano di allontanare il presagio del loro funesto destino, erano uguali ai ragazzini che, a Istanbul, quest’estate sfidavano la polizia cantando e ballando insieme “ai grandi” ed erano uguali ai figli dei valligiani che di notte si svegliano sudati con il rumore delle rotaie che attraversano un incubo che sconfina nella realtà.

Lotte diverse, ma persone uguali. E tuttavia, tuttavia quando si manifesta insieme per cambiare qualcosa si radunano, sotto una stessa bandiera, motivazioni e intenti diversi, che vanno dalla speranza di una giustizia migliore  a una rabbia convogliata in una zona precisa da combattere e abbattere.

Il giorno in cui i No Tav sfilavano a Roma dietro il camion enorme che apriva il corteo c’erano un paio di ragazzini e una ragazza, avranno  avuto più o meno quindici anni, che rollavano canne e bevevano vino, già alle tre del pomeriggio,  danzando al ritmo della musica che proveniva da un lettore appoggiato sul camion. Lei, la ragazza, aveva i capelli infuocati da una tinta rossa, e la pelle bianchissima, come latte, su cui indossava abiti striminziti, un po’ dark, un po’ punk. Era piccola accanto al camion gigante (il gigante e la bambina, pensavo) ma con le sue pose sexy da adulta, il culetto che si agitava mentre ruotava, e ruotava, invitando i maschi che le stavano attorno, si ingrandiva, si allungava fino al tetto del camion, arrivando a invadere il mondo degli altri, “gli adulti”, che ancora, malgrado gli atteggiamenti, lambiva appena. Non basta una canna per essere grandi, e non basta  neanche conoscere i segreti del letto. Ma lei lì, vicino al camion, piccina, minuta, sfidava quel mondo innestando una personale rivendicazione all’interno di un’altra battaglia.

Mi faceva tenerezza, la sua strampalata, buffa andatura sbilenca, fatta di fumo e di alcol, intenta a scortare il camion guidato da un omone che, ogni cinque minuti, urlava qualche slogan con il megafono. Vicino a lei, anche gli altri due ragazzini, ebbri di rivoluzione e di sostanze, facevano “i grandi”. Con un sorriso, ho pensato che in fondo spesso è così, ci si mescola alle grandi cause e si portano lì le nostre cause più piccole, ci si batte per qualcosa che, dietro, nasconde anche altre battaglie, le nostre, quelle più intime, personali. Quelle che, magari, non vogliamo neanche dire.

A un certo punto li ho persi fra la folla, andavo e venivo per fotografare, capire, osservare.

E certo, è sempre meglio stare lì piuttosto che guardare la vita da una finestra, senza mai osare, senza mai faticare. Specialmente oggi, oggi che siamo tutti bravi a smanettare su internet snocciolando i nostri preziosi commenti, a fare le nostre battaglie dietro uno schermo, a portata di clic.

Però non dobbiamo dimenticare che, prima di tutto, dobbiamo manifestare…dentro di noi. Protestare, protestare forte. E cambiare tutto ciò che è possibile. Siamo noi stessi i vari Erdoğan, i roghi tossici, gli abusi edilizi e tutte le altre ingiustizie che ogni giorno siamo costretti a vedere e a subire.

Dentro e fuori, è questa l’alchimia dell’avventura umana su questa terra.

Trovare la combinazione perfetta, ecco quello a cui dovremmo tendere. Solo in quel momento le nostre battaglie nel mondo avranno un sapore diverso perché saranno il frutto di ciò che siamo stati capaci di combattere e cambiare anche dentro di noi. Altrimenti, nessuna battaglia cambierà davvero qualcosa.



Francesca Pacini - giornalista, art director.

Francesca Pacini è giornalista, art director, docente. Sempre in moto, vive e lavora tra Roma e le Marche, dividendosi fra più contesti, tutti però legati alla parola e all'immagine che a volte la accompagna. Non trova mai pace: il suo motto è "lavori in corso".

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