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Il fantastico mondo di Emily

emilyL'idea di un proprio cantuccio dove dare libero sfogo alla creatività mentre la giungla del progresso strombazza là fuori... beh, non c'è che dire, una bella impresa. Uno spazio al femminile dove donna non sia sinonimo di lustrini o ostentato femminismo… geniale, alternativo, oggi più che mai.

C'è chi ha sacrificato la propria vita per rivendicare il proprio essere donna – creatura pensante, capace e creativa – o si è dovuta nascondere dietro uno pseudonimo per poter esprimere le propria interiorità. E chi, invece, preferisce buttare tutto questo all'aria, ostentare al mondo la propria fisicità soffocando i veri talenti. Sogno o è il mondo che va alla rovescia?

L'anima ha bisogno di cura e attenzioni, di un posto tranquillo dove germogliare, di pudore per crescere e maturare, lontano dai riflettori, lontano dai toni accesi. E così il pensiero vola a una straordinaria creatura, la cui stanza rappresentava tutto il suo mondo: l'affascinante Emily Dickinson. Una natura delicata, dal fragile equilibrio interiore, che nel suo angolino, nella sua "soffitta di Jo", ha trovato le sue risposte alla vita, ha proclamato tutta la sua essenza di donna dal pensiero indipendente, regalandoci la sua visione del mondo e trasformandola in una lirica infinita. Una fanciulla rinchiusa nel suo microcosmo che, in punta di piedi, si è mostrata alle luci della ribalta rendendosi immortale. Forse la sua femminilità e il suo fascino seducente si sono rivelati meno di quello di una velina, una letterina (con tutto il rispetto per le scelte di vita di ognuno)? C'è chi insegue un attimo di notorietà annullando la propria interiorità, e chi invece si è annullata tutta la vita per donare all'umanità un patrimonio incommensurabile. Mi sono soffermata più volte ad osservare quella sua foto… sì quella che compare nei libri di letteratura o quando su Google provi a digitare il suo nome: un ritratto in bianco e nero, un'acconciatura priva di qualsiasi frivolezza, un abitino scuro, mortificante… eppure, in quell'imperscrutabile volto dai lineamenti comuni, quello sguardo ti entra dentro l'anima.

Oggi o sei pupa o secchiona: banalissimo luogo comune. Bellezza interiore ed esteriore devono necessariamente fare a pugni? Doti intellettuali o artistiche hanno mai intaccato i lineamenti di un bel volto o la grazia di un corpo sinuoso? Non è forse il contrario? Perché bisogna per forza dileguarsi dietro un abito succinto o snaturare la propria essenza femminile finendo col diventare la brutta copia di un uomo? Gia, emerite oche o maschiacci! Non potremmo essere semplicemente, coraggiosamente donne, ciò che la nostra natura ci detta, e cioè realtà complesse, caleidoscopiche senza rintanarci dietro vane ipocrisie. La piantina tenera che abbiamo tra le mani può crescere alta e rigogliosa, o rimanere piccola, se non addirittura appassire. A noi la scelta.

Oh dolce Emily, solo da nevrosi nascono gemme preziose, fiammelle di saggezza come quelle che pazientemente tessevi e tenevi nascoste nella tua stanza? O forse i veri matti siamo noi?

Probabilmente è la paura di volare alto, di osare, di aspettare che i frutti arrivino al momento giusto, meglio tutto e subito... ma poi tutto cosa? O forse è proprio la società che ci tappa le ali, che teme di vederci librare troppo in alto e ci fornisce gli strumenti sbagliati. In fondo i corsi e ricorsi storici ce lo insegnano: il pensiero libero ha fatto sempre paura, sin dalla notte dei tempi. La società dovrebbe guidare i suoi figli verso una crescita sana e consapevole, ma, se nell'educare le azioni valgono più delle parole, per quanto mi sforzi, di buoni esempi intorno a me ne vedo davvero pochi.

Tanti sono gli interrogativi, a ciascuna la libertà di trovare la propria risposta e la strada da seguire, ma con l'assoluta consapevolezza che dalla volgarità, dall'insulso cicaleccio e dalla mancanza di sacrificio i germogli nascono già avvizziti.

Marcella Elia

 


 

Gli Arancini di Cleopatra

arancini Cari Amici miei affezionati Lettori, oggi sento che Vi sono davvero debitore della fedeltà che mi dimostrate, sicché decido di cuore che Vi spetta un premio, bello, anzi…buono, ebbene eccoVelo: ’na spirlonga  di arancini, ma di quelli buonissimi, dei migliori in assoluto, come quelli appositamente inventati e cucinati dal cuoco Attanu d’Atranu -inteso Pumadamuri- per la delizia di Cleopatra; e coi quali anche, l’ultima dei Faraoni, lusingandone, intanto, il palato,  ammaliava i suoi illustri convitati.
E per far ciò, per agguantarne a volo ’na nguantera e così per servirVeli fragranti, …mi isso, ancora una volta, sul mio “tappeto volante”, personale mezzo di locomozione anche temporale -che prediligo puranche per la possibilità di manovre davvero ardite-, e, in un battibaleno (faccio per dire, stante l’accurato studio particolareggiato del …piano di volo; e non dico per vantarmi, semmai per rassicurarVi, dato che mi siete “compagni pindarici” nella spericolatezza), mi porto ad Alessandria d’Egitto, dove il cuoco, nostro esimio concittadino, li sta giusto ’mpiattannu.

Le delizie de quibus -opìno- sono state denominate “arancini” solo in tempi pressoché recenti e, comunque, non in origine, al tempo della regina tolemaica,  giacché il primo sdillìzziu per lei inventato da Attano, fu nomato “risu panzoccu” per la forma grassoccia,  o anche “ovu di risu” per la sagoma ovoidale.
SapendoVi, però, oltre che ghiottoni impenitenti, anche insaziabili curiosi …impertinenti -sento già che avanzate dubbi sulla …contemporaneità del gustosissimo arancino con la macedone Regina d’Egitto che con le sue arti e le armi d’Antonio contrastò la creazione di un “Mediterraneo romano”; che non avete mai sentito nominare il cuoco Attanu Pumadamuri; che Vi sembra, comunque, altamente improbabile che uno sconosciuto cuoco etneo cucinasse arancini per la maliarda figlia del “Flautista” (o Aulete, o Tolomeo XII); che, infine, i pomodori non c’erano, né in Sicilia e nemmanco in Egitto, stante che Cristoforo Colombo non navigava ancora nemmanco nel materno liquido amniotico, e, dunque, la salsa non era ancora dilagata fuori dai confini americani-; rebus sic stantibus, giacché… il dubbio non m’offende, essendo legittimo (anch’io, per vero, ho dubitato di riuscire a cogliere il bandolo della matassa, …disperso fra Catania e Alessandria d’Egitto), due sono le cose, giacché …tertium non datur: o fate la fatica di documentarVi, oppure fate il minor sforzo di fidarVi delle mie accurate ricerche; d’altronde, dato che già siete fedeli, che ci vuole a diventare anche fidati? Peraltro, già conoscete lo scrupolo e la pignoleria che impiego nella ricerca, che, in fine -da giurisperito- fondo secondo …l’autorevole metodo di Giustiniano nella redazione del “Corpus Juris”. 
Pertanto e comunque, sento il dovere di spiegarVi, citando debitamente anche le fonti alle quali ho attinto per celebrare l’antica gloria della “roba da Faraoni” che sono gli arancini catanesi  (le “arancine” palermitane, sono state copiate dai nostri e, infatti, sono bbaddottuluni approssimativamente del calibro e della forma e del colore dorato dell’arancia –gialle di zafferano all’interno- da cui il nome;  versavice, la nostra delizia gastronomica, essendo stata inventata in Egitto ha forma piramidale –vabbe’ conica, perché gli spigoli ovviamente si smussano-, riproducendo, in piccolo, la forma delle piramidi, siffatta in onore della terra di Cleopatra, ma anche per augurio d’eternità -vabbe’ fino a oggi ci sono ancora e ben succulenti-, dato che, come si dice, “ogni cosa teme il tempo, ma il tempo teme le piramidi”).

Ordunque  -per migliore intelligenza e per non tacerVi nulla-  partiamo… ab ovo : or non è guari, ritrovato l’Amico di vecchia data Dott. Paolo Mineo, editore,  ho da lui avuto in dono, elegante patinato e fresco di stampa, il volume “I sapori lontani della cucina siciliana”, opera del Dott. Gino Schilirò, il quale pregiato Autore, riferendo che Petronio e Marziale celebrano le “siculae dapes et siculus coquus”, aggiunge che Plutarco mentova come cuoco di Cleopatra “Apollodoro, un siciliano nato nel catanese, che con i suoi piatti stimolanti ed afrodisiaci aiutò l’affascinante Cleopatra, che mirava a spostare il centro dell’impero da Roma ad Alessandria, a conquistare Cesare e Marco Antonio…. Sembra che Cleopatra andasse matta per l’insalata di mellone e cipolla che Apollodoro le preparava.”  Sempre il sullodato autore menziona altri celebri cuochi nostrani: “Trimalchio da Gela -citato da Ateneo nei “Sofisti a banchetto”-, conteso in tutto il mondo greco, Miteco da Siracusa -autore del “Cuoco Siciliano”-, Labduco, che aprì una scuola di cuochi ad Agrigento, Archestrato da Gela, autore di “Vita di delizie”, e vera autorità critica in gastronomia, che asserisce di aver girato il mondo “ma solo in Sicilia ha trovato il buon gusto”.
Ed a questo punto entro in campo io, sospettando eccessiva la fama raggiunta da questo Apollodoro per una semplice “insalata di mellone e cipolla”; e che sarà stata mai quell’insalata?!, e quando mai un cuoco con la “C” maiuscola conquista il primato per un piatto di crudo, senza far ricorso alla magia dei fornelli?  Eppoi, che razza di nome è per un catanese, cuoco e non …sarto, seppure ellenizzato, “Apollodoro”? Troppo sdolcinato!

Cerca e ricerca nel registro degli studenti del maestro Labduco, fra i “laureati”, scopro un Attano (nome fenicio che significa Etna) da Adrano, che meritò la lode per avere portato come elaborato finale lo squisito “jancu e nìuru” –abbreviativo di “nìuru di lava (il nero della seppia) e jancu di nivi” (imbiancato dalla ricotta); piatto forse assimilabile a “u ripiddu nivicatu”, squisito risotto citato dal dotto Dott. Schilirò.  Il medesimo Attano scopro evidenziato, ma come rimpianto-emigrato ad Alessandria d’Egitto (anche allora, ahinoi!, la “fuga dei cervelli” ci impoveriva), fra i cuochi lodati da Miteco.  Infine -e non sto a dirVi con l’impiego di quanta pazienza-, nel misconosciuto “al-Kurràs al-ràbi‘li-hallàq al-Qasr al-Màlaki” di ‘amm Hasanein (o Quaderno 4° del Barbiere di Corte zio Hasanein), sedicente cronista (custodito nella “residua” Biblioteca d’Alessandria), rinvengo l’adranita  fra i cucinieri della mensa reale dell’ultimo Tolomeo, promosso da Cleopatra a suo cuoco personale e dalla macedone-egizia Regina ribattezzato-grecizzato (credo anche per il bell’aspetto che doveva avere, attentamente valutato come la sua bravura per l’investitura) in Apollodoro.

Tanto acclarato, gioisco; epperò non più di tanto, perché tanto ancora mi resta da appurare, cosicché mi butto a consultare i testi più disparati e, pertanto, pesco, fra i tanti, una biografia di Cleopatra dello storico anglo-maltese Ernle Bradford.
Lo studioso inglese mi conforta quasi subito menzionando “un servo fidato, un siciliano di nome Apollodoro” quale intrepido traghettatore, prima, dell’ardita Cleopatra (esiliata dal fratello Tolomeo XIII) da Pelusio ad Alessandria e, poscia, come impavido trasportatore del famoso tappeto pericoloso, in quanto …farcito dell’astuta, attraverso le sale della reggia fino ai piedi del conquistatore Cesare che rimase conquistato (come sempre i Romani dai Greci) dalla variegata personalità e dalla seducente bellezza dell’audace fanciulla (vera e propria cornucopia, “rrobba di rijalu” per dirla nella lingua del nostro Attano-Apollodoro: la fluente lingua elegante, la carezzevole voce suadente, il fulgore degli occhi cangianti dall’azzurro intenso al turchino scuro infino al giaietto, l’attraente seno ambrato affacciato con nonchalance, pur consistente, dal décolletè fragrante di mirra, la sottile vita di duttile giunco obbediente ai flutti del Nilo e i colmi fianchi inquieti come l’istesso fiume in piena, … misero in non cale il naso… più semitico che greco classico) per cui, facendola subito donna e indi regina anche del suo cuore, si rinnovò il divino connubio fra Amon ed Iside.
Apollodoro -stavolta nella sua propria veste di cuoco-, così stando bellamente le cose, servì loro la rinfrescante insalata di mellone …con rondelline di cipolletta: ragionevolmente, presumo, … allorché gli amanti divini furon satolli dei roventi baci.  Chiacchierando e gustando la specialità del “ricottasso” (dolce di ricotta scanata col miele di Corinto e arrimuddata t.q.b. con succo d’ananasso), alla domanda del curioso Cesare circa i diversi ruoli fin lì ricoperti dal famiglio siciliano, Cleopatra spiegò che il domestico più fidato –una volta provato-  è proprio il cuoco, stante che potrebbe avvelenarti con bevande aromatizzate o cibi sofisticati, e, dunque, accertato ch’è incapace di tradirti, è il migliore uomo di fiducia a cui affidarsi nelle varie bisogne; e, sorridendo all’intemerato siciliano, gli fece scivolare nella mano una moneta d’oro (per cui, forse, l’aitante Attano aveva anche accettato di buon grado di farsi ribattezzare Apollo-d’oro): zio Hasanein certifica, avendo sbirciato da dietro una tenda ed avendo assaggiato i resti del dolce.

L’idillio fra i novelli divi Amon e Iside fu intenso e promettente, dato anche lo stato di gravidanza che presto manifestò Cleopatra e i sorrisi compiaciuti che Cesare dispensava ai cortigiani ammiccanti.
Apollodoro ammanniva alla coppia innamorata i piatti più saporosi, servendosi dell’agresto e delle più svariate spezie odorose, avendo però cura di rendere più delicata la dieta della Regina: per esempio, se condiva col burro il piatto di Giulio, quello di Cleo veniva condito con puro olio d’oliva.

Superate col valore dell’ingegno e delle armi le tante gravi difficoltà di governo, Cesare -curioso delle bellezze millenarie della favolosa bella patria della sua bella donna, e Cleopatra -desiderosa di mostrargliele (forse anche per convincerlo vieppiù dell’ “affare” che aveva fatto scegliendola di fatto al posto del fratello e impalmandola-, nel dolce aprile  del 47 a.C.,  s’imbarcarono su una nave in rotta lungo il corso del Nilo: a dir poco lussuosa, stante che non solo era “provvista di cabina con letto nuziale” (Svetonio), ma anche “conteneva saloni per banchetti, colonnati e cortili, tempietti, grotte e giardini” (Ateneo) ed era seguita da una “flotta di scorta composta  da quattrocento navi” (Appiano).
Nel corso dell’amorosa crociera, il nostro cuoco superò se stesso nell’intrattenimento culinario degli sposini e dei loro scelti ospiti.  Infatti, Cleopatra non solo s’era tanto raccomandata a tal proposito, ma aveva chiesto ad Apollodoro di servire in vista delle piramidi un piatto ancora più squisito dei panzocchi di riso col ripieno di burro e formaggio fresco o ricotta e ancora più delizioso dell’uovo di riso col ripieno di fegatini di pollo, giseri di faraona e cuori di colomba.  A tal proposito, cioè a riguardo du risu panzoccu e di l’ovu di risu, avverto che questi rappresentavano la più pregiata specialità e somma invenzione del geniale cuoco catanese naturalizzato alessandrino.

- “Apolloduruzzu t’arriccumannu, fammi fari tanta bona fiura… prupurziunata au dirittu di esclusiva c’aju in menti di dàriti ppi tutti i tavuli caudi d’Alessandria;  e… cu sapi ca macari Cesari nun fa ‘u stissu a Roma: pensa ‘i palanchi ca ti facissi e ‘a gloria ca ti nni vinissi!”-

Così, suppergiù pare che si sia espressa Cleopatra, che -ricca d’idiomi: “la lingua siccome uno strumento musicale dalle molte corde e il tono di voce incantevole” (come, sedotti, testimoniano Plutarco e Cassio Dione)- ovviamente parlava anche il siciliano.  E così pare le abbia risposto Apollodoro:

- “Maistà, suvrana macari di biddizzi supra tutti l’omini e puru di tutti i fimmini do ‘munnu sanu, nun sacciu mancu unni sbattìrimi ‘a testa ppi ssu sò cumannu, ma nun m’avissi cchiù a chiamari Appollodoru, comu mi nnuminau Vossia e mancu cchiù Attanu d’Atranu,  comu m’accanusciunu in Sicilia, si nun ci la mettu propiu tutta ppi fàrici fari a megghiu fiura ccu sò maritu valurusu cchiù di tutti pari pari i rumani”.-   

In vista dell’incarico speciale datogli per la cena in vista delle piramidi, Apollodoro a lungo pensò e ponzò, andando su e giù infinite volte per i giardini reali, fino a farsi dolere i piedi e le meningi, finché un giorno fortunato, verso le 11, proprio alla vigilia dell’inizio della crociera sul Nilo, ebbe la pensata geniale (secondo il citato Quaderno cronachistico del barbiere di corte amm Hasanein, suggeritagli, infine, da un Ginn- uno spiritello arabo, talvolta buono e qualche altra cattivo): mai aveva provato a mangiare e nemmanco a cucinare il frutto dell’albero (o frùtice, la traduzione non è chiara: poteva, infatti, trattarsi di un arbusto con un consistente tronco) di pomodoro, custodito nella sezione “Resti d’Atlantide” del vero e proprio orto botanico  e considerato ornamentale; chissà com’era di sapore? e se fosse risultato velenoso, nonostante il bellissimo aspetto? L’ananasso che ivi anche cresceva era, però, risultato commestibile e prelibato. Pertanto, l’estroso mprisusu colse un frutto, il più rubicondo e se lo tenne in tasca fino al tramonto, girandolo e rigirandolo con le dita della mano, finché, preso il coraggio a due mani, l’assaggiò: “Ppi tutti i lamiati di jatti ccu i mulanghi!, comu diciva ‘a za Lina.  Buono…, forse un po’ scipito, ma con un po’ di sale e forse un po’ d’olio d’oliva…; e cchi beddu culuri!... ca pari almandinu”. 
(Fra parentesi: Alessandria, vera meraviglia del mondo antico, con i Tolomei toccò le vette della fama; centro anche di cultura per la Grande Biblioteca (fondata da Tolomeo Filadelfo e bruciata in gran parte –imperdonabilmente, seppure accidentalmente- proprio dalle truppe di Cesare che appiccarono l’incendio alla flotta alessandrina, fuoco devastante estesosi oltre misura a causa del vento), lo fu pure per uno straordinario orto botanico che pare contenesse, fra l’altro, qualche residua pianta proveniente dalla sprofondata Atlantide, la grande isola nell’Atlantico al di là dello stretto di Gibilterra secondo la tradizione egiziana raccolta da Platone nel dialogo “Crizia”.)
Tre ore dopo avere assaggiato il frutto succoso, non essendo morto e senza neanche accusare un crampo nello stomaco, né diarrea, o  vomito, o nausea, Apollodoro ne fece raccogliere un paniere, portandoselo, di corredo, in crociera sul Nilo; navigando, navigando, già prima delle Piramidi, ne ricavò un sugo davvero gustoso che, mischiato a un tritato di carne ovina-bovina, o a tocchetti minuscoli di vitellone, con cipolla, pisellini asiatici e con gli “odori” (come a Roma chiamano sinteticamente le erbe di condimento), rappreso e ficcato sapientemente dentro l’involucro di riso bianco risultò il miglior condimento dell’ovu di risu, rendendolo davvero prelibato e incantevole al palato.

A Eliopoli, in fronte alle Piramidi, imbandita la mensa sontuosa, troneggiarono i nuovi “arancini” di “appropriata” forma piramidale (finale tocco geniale!) e fu un tale trionfo che Cesare ne imboccava Cleopatra e lei lui, uno tira l’altro… al punto che le altre pietanze furono neglette e lasciate, infine, all’equipaggio.  Tale il successo grandioso, che Apollodoro, a fine serata, servita, dulcis in fundo, la ghiottoneria dei Fichi di Ras el Tin, sul far della notte, comparsa la luna benedicente, per il manicaretto geniale, si ebbe in dono l’argenteo serto nuziale bianco di fiori d’arancio e brillante di traslucide perle.
Purtroppo, non mi è riuscito di appurare il nome dato al manicaretto; escluderei quello di “arancino”, anche se, per vero, …nel contesto dei fiori d’arancio…: il barbiere di corte a tal proposito tace, meritandosi quasi la qualifica di cronista d’accatto! Memento più che meritato: dov’era, infatti, con le orecchie, il malnato, in tale importante istorico momento? E il conclamato “topos” del sempre informato barbiere chiacchierone (cfr. anche Plutarco in De garrulitate)?!
Amm Hasanein mentova, comunque, nel viaggio di ritorno, un altro buon piatto di Apollodoro: “u risu du Mungibeddu”: un’altra piramide di riso, ma grande e di grande effetto -ispiratagli forse da quella di Cheope- con la bocca dell’Etna traboccante di salsa piccante a mo’ di lava che scendendo in rivoli macchiava di rosso fuoco il manto innevato del vulcano nero di lava.

Ma seguiamo le orme di Cleopatra, d’Apollodoro e dell’ “arancino piramidale”.

Cesare assassinato dai senatori implacabili, Cleopatra intravide in Marc’Antonio l’ultima speranza di salvare l’Egitto, il figlio Tolomeo Cesare (soprannominato Cesarione dai maligni Alessandrini) e se stessa, sicché… continuò col robusto soldato il sogno di gloria iniziato col suo geniale comandante , ma fu ben presto tragedia: ingannevole vista!  Ottaviano vinse; Antonio, sconfitto e umiliato, si uccise; Cesarione venne soppresso …dal severo suo “fratello adottivo” (povero innocente giovane: ah spietata crudele ragion di stato!) e Cleopatra, l’indomita e fiera -con le fedeli ancelle Ira e Carmione e col fidato Apollodoro e qualche altro famiglio- si rinserrò nel suo Mausoleo per sfuggire alle mani captanti di Augusto, uomo il cui rigore volitivo sconfinava nel frigore.
L’ “arancino piramidale”, sotto Antonio, più amante delle carni, della selvaggina e del vino, era decaduto alquanto, fino a divenire obsoleto; anche perché Cleopatra, che s’era ingrassata -forse a causa delle gravidanze o dell’abbondante vino che le propinava smodatamente il suo Dioniso e che lei trangugiava per illudersi di cavalcare ancora la gloria-, non l’aveva richiesto quasi più ad Apollodoro, ordinandogli cibi quanto più magri e tali da farle recuperare la linea (sempre importante, anzi indispensabile, quando “si ha a che fare” cogli uomini …calorosi e, vieppiù, quando, per averne ragione, s’ha da combattere con essi pugnaci “la battaglia dei capri” – o “caprinum proelium”, per dirla con Varrone).

E andiamo alla fine:  rinserrata nel Mausoleo, Cleopatra -dice Ernle Bradford-: “là, in quel monumento dedicato alla morte, dove, fra le sue braccia, era già morto Antonio, decise di troncare la sua vita. Si fece preparare il bagno e lavare i capelli e si vestì da regina d’Egitto e da dea Iside. Venne preparato un “magnifico pasto” e Cleopatra mangiò, ripensando ai molti sontuosi banchetti”…, fino ad abboffarsi (ma compostamente, eccezion fatta per il fatto che si leccava le dita), i buonissimi arancini al ragù di Apollodoro, dei quali s’era dovuta privare per …recuperare… inutilmente.  I dolcissimi fichi, …stavolta con l’aspide, conclusero -come quella felice volta a Eliopoli e per l’ultima volta-  il pasto faraonico.

Plutarco racconta che Ira -il “volto ippocratico”- giaceva morta ai suoi piedi, mentre Carpione, anche lei molto pallida e quasi cadaverica, cercava di acconciare il diadema sulla testa della Regina, i cui lineamenti non volevano ancora abbandonare i colori della vita.  L’aspide venefico (di poi insanito, come già V’ho raccontato) non fu mai trovato, ma la tavoletta -con la richiesta d’essere sepolta con Antonio e la preghiera di risparmiare i suoi figli- da lei stilata e consegnata ad Apollodoro per recapitarla ad Augusto, fu l’ultima cosa che Attano fece ad Alessandria in obbedienza alla sua bella Signora d’Egitto.  Compiuto l’ultimo compito assegnatogli ed abbracciato il barbiere che avrebbe contribuito a fargli superare tutto il tempo fino ad oggi, Attano se ne tornò ad Adrano (indove, raccontando, commosso, l’amorosa storia del primo arancino al sugo di pomodoro, fu ribattezzato Attanu Pumadamuri: così come, tanto tempo dopo, furono appropriatamente denominati i pomodori; essendo già designati “pomi d’oro” le arance del nostro Giardino delle Esperidi).

E gli arancini cambiarono sponda del mare,  sempre mantenendo, però, lo strepitoso successo pel gusto davvero favoloso…che fa sì che mai può dirsi che se ne mangiano in eccesso.

Come non può certo dirsi ch’io tralasci occasione  per …rimpinzarVi di leccornie, spero divertendoVi,  se non coltamente,  almeno, non del tutto banalmente.

Gaetano Mustica

 


 

Io sono Niniane

ninianeIo sono Niniane, ma mi hanno chiamata con molti differenti nomi: Morgana, Viviana, Nimue; io sono la Strega, colei che è stata cantata come la più spregevole e terribile delle fattucchiere, la donna tentatrice che vede attraverso i cristalli e le acque. Si è scritto di come io non abbia avuto pietà o rispetto per alcuno, di come io mi sia servita di ogni uomo e mezzo per raggiungere i miei ambiziosi traguardi.
Io sono Niniane, la Maga sapiente, colei che ha voluto sapere, sperimentare, che ha conosciuto e impiegato il potere arcano del respiro del Drago, quello ancestrale della seduzione. Nessuno può immaginare quanto il desiderio di conoscenza e di amore mi abbia divorato, quanto mi abbia concesso e quanto mi abbia levato.
Io sono Niniane, di me i poeti narrano che non abbia mai avuto un cuore; non è la verità: un cuore l’ho avuto, l’ho gettato in pasto ai lupi e solo alla fine ho tentato di salvarlo.
Iniziai la mia vita inverni fa, non abbastanza per dire di essere pronta a ritornare nelle spire del Drago, ma a sufficienza per iniziare a sentirne il peso. Non fu un’infanzia felice la mia perché tralasciò di insegnarmi cosa fossero l’affetto e l’amore e io andai per lungo tempo invocando di non essere lasciata sola, di non essere abbandonata. Le ferite che si creano nell’anima dei bambini sono quelle destinate a produrre le sofferenze maggiori, quelle che durano più a lungo nel corso dell’esistenza degli uomini e delle donne che essi diventeranno. Crescendo provai a diventare più forte, i dolori mi temprarono, le pene mi tolsero le bende dagli occhi e io vidi il mondo che mi circondava per quello che era: il teatro di una interminabile battaglia il cui fine ultimo è dominare uomini e beni, dove pochi, solo i più nobili e illuminati, possono resistere senza farsi travolgere dalla barbarie concedendosi di prestare ascolto ai loro sentimenti.
Conobbi Merlino, il druido figlio di uno spirito e di una vergine, quando ero poco più che una bambina: anche se già ero addentro ai misteri dell’animo umano, alla magia, non avevo ancora consapevolezza e potere, nuotavo allora, con fatica in una palude, annaspando, senza riuscire a tenere la testa fuori dall’acqua salmastra se non per qualche attimo. Ero ancora acerba e immatura. Ci sono tuttavia esseri umani le cui vite si toccano, anche solo per un istante, e restano in qualche modo legate l’una all’altra, pur senza comprendere, pur senza desiderarlo. Per me fu così. Fu così per Merlino.
Lo incontrai in un giorno qualunque, mentre cercava erbe in un bosco e chiacchierava con una donna del suo ultimo viaggio; si era recato alla ricerca di non capii cosa, nella terra al di là del mare, dove regna un sole infuocato e il paesaggio è formato solo da dune di sabbia. Restai ad ascoltarlo, stregata, e fu quello stesso sole torrido da lui narrato che sentii subito e irreparabilmente bruciare nelle vene incontrando il suo sguardo. Fu per me una sensazione del tutto nuova e mai sperimentata. Conoscevo già l’amore, ma nulla era paragonabile allo stordimento e alla mescolanza disordinata di emozioni che provai in quell’istante.
Nella mia vita ho imparato solo con il tempo, forse non ancora appieno, a non agire d’istinto, a non lasciarmi condurre nelle decisioni solo dall’emozione del presente; ma allora ero giovane e inesperta e l’unica meta che volevo raggiungere, anche esponendomi al rischio, era ottenere ciò che desideravo: dovevo avere Merlino, a qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo. Misi da parte pudore e prudenza, forte del mio essere donna e lui uomo, lo sedussi, ma non mi concessi del tutto.
Ero, come ho detto, poco più che una bambina e tutto mi pareva solo un gioco, uno splendido divertimento che mi offriva meravigliose sensazioni di fiducia e di potere; al contempo però mi legava sempre di più all’aspetto più oscuro e complicato della passione, quello che trascina la mente oltre che il cuore. Ciò che, man mano passava il tempo, mi affascinò di Merlino era la sua conoscenza, il suo sapere e pretesi che lui lo dividesse con me. Dapprima egli fu assai restio, ma poi, scorgendo in me un’allieva promettente, accorta e sollecita, iniziò a istruirmi con i primi rudimenti della magia e il nostro legame divenne, via via passavano le stagioni, sempre più intenso e sempre più forte…

“La magia del respiro del Drago, quella che usasti per rendere Re Uther invisibile a tutti, tranne che ad Ygraine, quella che permise ch’egli assumesse le sembianze di Gorlois, Duca di Cornovaglia, per soddisfare la sua lussuria, quella voglio conoscere” ribadì insistente Niniane. Gli occhi di lei emanavano bagliori del colore del cielo, mentre le mani si protendevano ad artigliare il braccio del druido, affondando caparbiamente e dolorosamente le dita nella sua carne.
Merlino era ben conscio dei rischi che correva accettando di istruire Niniane, ma era altrettanto consapevole del potere che la donna esercitava su di lui: non era in condizione di resistere, non poteva che donarsi a lei, come Niniane non poteva far altro che amare Merlino.
“Non tormentarmi” rispose con voce flebile “ti ho già rivelato molto più di quanto avrei dovuto. Hai il potere di creare e distruggere ciò che desideri, sei a conoscenza dei più arcani e misteriosi segreti della natura e dell’essenza delle cose. Perché non ti accontenti, perché non lasci che le cose restino così? Sai che rivelare il mistero del Drago mi distruggerebbe. Affermi di amarmi, ma ami solo te stessa, ami solo il potere che ti deriva dalla conoscenza”.
Nella caverna scavata nel cuore della terra, illuminata dalle fiaccole appese alle pareti, la luce tremula illuminava il volto teso, segnato, di un uomo stanco, provato dalla Storia e dai continui assalti della sua iniziata, ormai sul punto di raggiungerlo nella comprensione della magia. Lei, accogliente ma altera, lo fissava con i penetranti gelidi occhi blu, non troppo vicina da incutere soggezione, ma sufficientemente prossima perché lui percepisse il suo odore, il movimento fluente del suo corpo: intuiva tutto di Merlino, riconosceva ogni attimo di turbamento che sfuggiva allo sguardo perso del maestro, alla vibrazione della sua voce e sapeva di essere ormai vicina al raggiungimento del suo scopo. Aveva sapientemente, con fatica, atteso e conservato la carta decisiva per giocarla nel momento migliore.
Niniane si scoprì i seni, lentamente lasciò cadere la tunica argentata a terra e si avvicinò sinuosa.
“Mi concederò a te, Maestro. Una notte d’amore, mille notti, in cambio della magia del Drago…Ora lo voglio, sono pronta”.
Niniane amava Merlino, lo desiderava non meno di quanto lui la volesse, ma amava disperatamente anche il potere e il sapere. Era consapevole degli smisurati rischi correlati alla trasmissione della magia suprema: lei avrebbe potuto restarne schiacciata e Merlino avrebbe probabilmente perso in parte, se non del tutto, il suo potere. Ripetere le parole magiche, ascoltarle avrebbe prodotto effetti sconosciuti; la magia del Drago non deve essere pronunciata, può solo essere formulata nella mente e nel cuore, con grandissimo dispendio di energia vitale.
“Non posso Niniane, non posso…” sussurrò Merlino avvicinandosi e contraddicendo con i suoi gesti ciò che la voce protestava. Inebriato dal contatto con lei il Druido perse il controllo e non riuscì a pensare, a garantirsi l’incolumità dal sortilegio che, sapeva, avrebbe in ultimo pronunciato.
L’abbraccio che seguì durò a lungo e alla fine Merlino, tenendo fede alla sua promessa, stregato da Niniane pronunciò l’incantesimo fatale. Le labbra del Druido e della Strega si mossero all’unisono, strumenti perfettamente accordati, mentre il suono delle parole magiche, che mai avevano preso forma, mai erano state udite, fece tremare il suolo, evocò fiumi di bruma opaca, la magia più arcana, il respiro del Drago. La nebbia umida e biancastra si alzò fitta e compatta all’interno della caverna, mentre immensi muri di ghiaccio scricchiolando e gemendo sorsero dalla terra fredda, si intrecciarono come rami di un roseto e intrappolarono Merlino incapace di muoversi, di fronte a un enorme lastra di gelido specchio che lo rifletteva schernitrice, ormai privato di ogni potere. Il Drago aveva preso forma, il suo respiro era stato evocato.
Il riso liberatorio di gioia e soddisfazione di Niniane fu interrotto dall’unico terribile grido di dolore di Merlino. Assediato, congelato e soprattutto umiliato nell’orribile morsa del ghiaccio il Druido impotente era costretto a contemplare l’immagine nuda di se stesso, ma all’immobilità del corpo non corrispondeva affatto quella del pensiero. Emozioni violente di rabbia, frustrazione, orgoglio ferito strisciavano e guizzavano come fiamme feroci nelle amare riflessioni di Merlino: era stato uno sciocco a non mettersi al riparo da ciò che era accaduto. Sarebbe bastato pianificare diversamente, sarebbe stato sufficiente riflettere; invece lui, il più grande veggente, si era lasciato trascinare nel vortice, incapace del più elementare buonsenso. Gli occhi verdi di Merlino, unico elemento mobile nella staticità di quell’orrore saettavano senza riuscire a volgersi altrove da quell’immagine riflessa, da quel monito perenne. Ciò che più tormentava il Druido non era l’idea di essersi lasciato intrappolare, di aver consapevolmente ceduto a Niniane, quello forse l’avrebbe rifatto, bensì il doversi confrontare con l’ondata caustica dell’orgoglio ferito, dell’accettare di aver commesso un errore talmente grossolano e banale da parere quasi inconcepibile, di essere, alfine, fallibile come qualsiasi altro essere umano. Chiuso nel proprio dolore Merlino si sentiva oppresso da terribile inganno, da un affronto ignobile perpetrato della magia che gli si ritorceva contro; egli ebbe d’un tratto la certezza di essere irrimediabilmente perduto, vittima di un fato avverso cui non è possibile resistere, di una calamità cui non avrebbe mai più potuto sottrarsi perché quell’immagine riflessa gli avrebbe per sempre rammentato la sua fragilità e il suo fallimento. Merlino sentiva di essere la vittima sacrificale di quella  situazione, ma rifiutando di accettare che ne era anche l’artefice, non vedeva che egli era l’unico in grado di scioglierla: sarebbe stato sufficiente distogliere lo sguardo da quell’immagine riflessa, per guardare oltre, per guardare ciò che lo circondava.
Se l’avesse fatto l’avrebbe subito scorta, avrebbe visto Niniane che turbata all’idea di ciò che era accaduto, affranta per averlo perso si muoveva per la caverna sperando di riuscire a farsi vedere dal suo maestro. Merlino poteva udire ogni sua parola poiché queste, come lame, raggiungevano il suo cuore, ma il viso di lei non riusciva più a ricordarlo: nei suoi pensieri scorgeva in lei non ciò che era sempre stata, una complice, un’amica, ma solo la causa indiretta della sua rovina, lo specchio del suo scacco.
La caverna continuava a esalare il respiro del Drago e le ombre lunghe proiettavano sulle pareti immagini mostruose e distorte che avrebbero raggelato il sangue a chiunque, ma non a lei, non alla Strega. Il Drago poteva, doveva essere ricondotto al letargo. Niniane era divenuta nel tempo potente e determinata, ma soprattutto era legata a Merlino e non era disposta a lasciarlo, non nella situazione che si era creata. Cercò allora di non cedere, di ricordare, di fare appello alla sua conoscenza e alla sua magia.
“Esiste solo un modo per respingere l’incantesimo che abbiamo creato in due ed è di ripeterlo in due, dissolvendolo e facendo tornare il respiro del Drago al suo riposo nella terra” rifletteva “ma per farlo devo riuscire a distrarre Merlino dall’immagine di se stesso”. E Niniane non aveva idea di come fare. Egli era talmente preso dal suo dolore da non riuscire a vedere altro. Tanto meno l’affetto, la determinazione e il dolore di Niniane.
Il freddo nella caverna aumentava, il ghiaccio sembrava essere giunto dappertutto: nelle pareti rocciose, nel corpo di Merlino e ora si insinuava minaccioso anche il quello di Niniane, lasciando che il dubbio dilagasse. Il tempo pareva essersi fermato, ogni attimo sembrava eterno e Niniane iniziava a disperare. Poi ascoltandosi, lasciando fluire le emozioni, avvertì il ritmo del battito del suo cuore e d’istinto comprese cosa avrebbe dovuto fare. Si avvicinò cauta alla parete che intrappolava Merlino e posò la mano sul ghiaccio; fu un dolore violento e lancinante perché dall’interno della prigione il Druido la respingeva con tutte le sue energie, sempre più concentrato sulla sua sofferenza, ma lei rimase lì, non cedette e pian piano il ghiaccio sotto le sue dita iniziò a sciogliersi. La mano di Niniane affondava all’interno del sarcofago di Merlino, avvicinandosi sempre di più al corpo di lui, e alla fine riuscì a sfiorarlo. Merlino, ridestato dal contatto, fu travolto da un brivido intenso di paura, cercò di resistere, il suo orgoglio ferito si ribellava,  ma la sua cupa  determinazione infine vacillò e lui, finalmente, riuscì a distogliere lo sguardo.
Gli occhi dei due si incontrarono e Merlino riconobbe Niniane. Per tacita intesa, come era sempre stato, le loro labbra si mossero di nuovo insieme, pronunciando ancora una volta parole segrete. Lentamente il ghiaccio si ritirò dalla caverna, dal cuore di Merlino e da quello di Niniane.

…Io sono Niniane, la donna che conobbe Merlino e questa è la mia storia, e la sua.

Elena Stefania


I giardini di Babilonia

giardiniSanjar e Atefeh, re e regina di Persia, vivevano sereni, indisturbati e inconsapevoli nei meravigliosi giardini pensili di Babilonia. Intorno a loro cresceva, sulle meravigliose terrazze, ogni specie di fiore e frutto noto sulla Terra. L’aria era profumata di dolci essenze e sulla loro tavola mai mancavano cibi raffinati e ghiotti. Il re tuttavia non era felice, sentiva che qualcosa mancava alla sua vita, pur non riuscendo a capire esattamente cosa. Egli spesso se ne stava seduto per ore a riflettere, lontano da tutti, al riparo di qualche albero del giardino.

Un giorno mentre Sanjar passeggiava meditando tra le fronde rigogliose vide giungere dal deserto, sul dorso di un cavallo bruno, una giovane donna con i capelli lunghi raccolti in una grossa treccia color del rame, tutta vestita con stoffe cangianti e leggere, del colore dell’ambra e del sole.

Rahim, il primo ufficiale dell’esercito del re, accolse presso mura del palazzo la straniera che affermò di chiamarsi Maryam.

“Chiedo asilo poiché fuggo da un passato triste e burrascoso, di cui però non voglio far menzione. In cambio dell’ospitalità del re offrirò la mia opera nella cura dei giardini reali” disse.

L’anziano ufficiale non poteva accettare o rifiutare la richiesta della giovane senza consultare Sanjar, così la fece accogliere temporaneamente nel gineceo e si recò spedito dal suo re.

“Sii molto prudente, dall’aspetto mi pare una donna nobile e colta” disse Rahim quando ebbe raggiunto Sanjar al riparo dal sole cocente, sotto un grande albero di magnolia “qualcosa tuttavia in lei mi inquieta profondamente. Fossi in te, mio re, la rifocillerei e la farei ripartire al più presto”. Il re aveva grande rispetto per l’anziano uomo che, prima di servire lui, aveva servito suo padre fedelmente per anni, ma il gradevole turbamento che la vista di Maryam aveva scatenato in lui, lo spinse a decidere di accoglierla nella sua dimora, senza riflettere a lungo e senza chiedersi cosa ne avrebbe pensato Atefeh.

Maryam si rivelò riservata e silenziosa, ogni giorno dedicava molte ore alla cura dei fiori e delle piante che mai erano stati tanto floridi e traboccanti di colori. Li potava, li legava, eliminava rampicanti e foglie appassite, senza mai rivolgere la parola ad alcuno dei tanti principi della corte che, con sempre maggior frequenza, si recavano nei giardini al solo scopo di incontrare lo sguardo della bella sconosciuta. Solo per Sanjar aveva un sorriso e qualche timida parola, solo verso di lui, talvolta, alzava il suo sguardo. Sotto il sole del deserto i suoi capelli e i suoi lineamenti si incendiavano della vivida luce del fuoco e dell’oro.

Ogni sera invece Maryam, come la bella Sherazade, quando la luna splendeva alta nel cielo scuro, al riparo tra i pesanti tendaggi del gineceo, narrava una novella alle ancelle della regina svelando che le sue fantasie non avevano lo scopo di salvarle la vita dalla gelosia brutale dell’emiro, bensì di proteggerla dalla malinconia e dalla tristezza che la coglievano con l’avvento della notte.

In poco tempo la notizia delle meravigliose novelle di Maryam si diffuse in tutto il palazzo e giunse infine alle orecchie di Sanjar. Si diceva persino che le immagini prendessero forma nell’aria mentre lei raccontava e che, come sogni, svanissero con la prima luce dell’alba.

Il re, sempre più attratto dalla sua ospite, moriva dal desiderio di ascoltarla così, di nascosto dalla moglie e da tutti, iniziò a nascondersi sera dopo sera, notte dopo notte, dietro i morbidi drappi della stanza delle donne incapace di resistere alla tentazione di ascoltare i racconti di Maryam.

Sanjar, stranito dalla meraviglia, fu ben presto completamente affascinato, quasi colpito da incantesimo; in effetti quando Maryam raccontava pareva di poter scorgere sospesi nel nulla i protagonisti e gli eventi delle fiabe, di udirne i rumori e di coglierne i profumi: lo sciabordio delle onde e l’odore della salsedine, il passo accelerato dei cavalli e il lezzo delle stalle, i singhiozzi della fanciulla disperata e gli aromi della cucina, lo scintillio delle perle rubate dal furfante e il suo respiro affannoso nella fuga…Più il re la ascoltava, più la desiderava; più la desiderava per sé, più temeva di essere scoperto; Sanjar sperava e si illudeva che nessuno fosse o venisse a conoscenza del suo segreto; Atefeh, in realtà, insospettita dagli inusuali comportamenti del marito, lo aveva fatto spiare ed era stata informata della sua infatuazione per la loro ospite. Maryam stessa, per di più, aveva molte volte avvertito la presenza del re nascosto nelle sue stanze, e ne aveva goduto divertita, pur fingendo di ignorarlo.

Posseduta dal veleno della gelosia Atefeh, quando ebbe le prove, svelò a Sanjar di essere a conoscenza della sua passione per Maryam, e che solo se lui non fosse più andato ad ascoltarla e non l’avesse più cercata nei giardini, o meglio ancora l’avesse allontanata, lei l’avrebbe perdonato. Detto ciò si congedò dal marito. Sanjar, spaventato, decise di prestar ascolto alla moglie, ma si permise, seppur timoroso, un ultimo incontro con Maryam e le sue novelle.

Durante quella sera Maryam, quasi fosse a conoscenza di quanto era accaduto, raccontò una storia spaventosa e terribile di un re che era stato colpito da una insana passione per un’ancella e che aveva una folle paura di essere scoperto e di perdere il suo regno. Sanjar, sempre nascosto dietro le tende, essendosi riconosciuto nel re del racconto, ne fu talmente scosso al punto da convincersi che Maryam dovesse essere una strega maligna e orribile, che avesse fatto un oscuro incantesimo, perché poteva leggere in lui e nelle sue emozioni pur senza conoscerle; così terrorizzato e furioso, in preda alla più violenta ira, ordinò a Rahim di condurla l’indomani nel deserto e di strapparle gli occhi e il cuore. Disposto ciò Sanjar si ritirò nelle sue lussuose stanze sfarzosamente arredate dove, tra sete finissime e morbidi cuscini, sperava di trovare sollievo al suo furore; la notte incombente lo colse invece tormentato, infelice e incapace di darsi pace; così, a tarda notte, decise di raggiungere il santuario presso la Sacra Fonte e di consultare la saggia Nour, la sacerdotessa della Luna.

Ascoltate le parole del re, Nour rispose: “Tu, solo, temi ciò che non riesci a comprendere: la capacità di leggere con sincerità, al di là delle maschere e dei travestimenti. Maryam è figlia del Sole, se la farai uccidere sopprimerai con lei una parte di te stesso”.

Sanjar agitato obiettò: “Ella, seppur non sia una strega, è comunque un grande pericolo per la mia virtù, per la mia fedeltà a Atefeh e per la stabilità della mia vita. Nonostante io sia il re e regga il potere assoluto, non posso controllare lei e le sue parole, mi sfugge come la sabbia tra le dita”.

“Allora portarla tu stesso nel deserto e, se anche là vedrai in lei un pericolo, uccidila con le tue stesse mani” sentenziò la bianca sacerdotessa, ritirandosi poi nella sua meditazione e non offrendo altre risposte al re sempre più perplesso e sempre più confuso.

Così il giorno seguente Sanjar richiamò Rahim e condusse egli stesso Maryam nel deserto.

Cavalcarono a lungo, in silenzio, nella calura della sabbia infuocata, Sanjar davanti e Maryam alle sue spalle, sullo stesso cammello. Finalmente, quando furono assai lontani e i meravigliosi giardini non si scorgevano più all’orizzonte, il re trepidante trovò il coraggio e parlò:

“Sei dunque tu, mia dolce Maryam, una perfida strega, camuffata in queste affascinanti vesti, dal momento che conosci di me, della mia vita, ciò che non potresti e non dovresti sapere? Se così fosse, tu sai che dovrei ucciderti, perché saresti per me un pericolo troppo grande”.

“No, mio re. Io non sono una strega, sono solo una donna e, come tale, leggo ciò che il cuore degli uomini sussurra sottovoce, ciò che talvolta teme di mostrare. Se mi ritieni un pericolo, uccidimi pure, farai però in tal modo anche un danno a te stesso” gli rispose Maryam, senza osare di alzare lo sguardo verso il re.

“Tu, con le tue novelle, mi hai stregato, mi hai portato lontano da Atefeh, mi hai distolto dal governo del palazzo e mi hai fatto rendere ridicolo di fronte a me stesso. Io ti temo perché puoi farmi perdere il controllo ”.

“No, mio re, mio signore” disse la donna guardandolo ora con dolcezza “sei troppo saggio per credere davvero di poter tenere sotto controllo tutto ciò che ti circonda! Tu mi temi, ma non è di me che devi aver paura. Io sono solo il frutto della tua malinconia e del tuo desiderio e anche se annienterai me, non ti libererai di quelli, perché essi rimarranno sopiti e latenti nella tua anima, e torneranno a farti visita, sgraditi, quando meno li vorrai. Tu ti sei nascosto dietro le mie tende, perché questo desideravi, e lì io ti avrei lasciato restare finché tu avessi voluto, giacché non fui io a chiederti di svelarti, ma fu la tua angoscia, a tradire la tua presenza”.

Maryam guardò negli occhi Sanjar e lui si perse nell’intensità di quel bruno dorato, velato di tristezza.

“Se me lo permetti racconterò per te una storia” gli disse la donna e ricominciò a parlare.

“Ci fu un uomo, tanti anni or sono, che a causa del consiglio enigmatico di jinn dispettoso rischiò di perdere tutto ciò che aveva. Egli decise allora, per proteggere ciò che gli era più caro, di costruire una casa impenetrabile che resistesse a qualsiasi intrusione di essere umano, a qualsiasi tempesta di sabbia, a qualunque terremoto e vi si ritirò, confidando che così nella sua vita nulla di imprevisto e sgradevole sarebbe mai più accaduto, poiché nulla sarebbe stato più nelle mani al fato; la riempì di scorte di cibo e di acqua per non dover avere contatti con nessuno al fuori delle solide mura della sua fortezza; più passava il tempo, più l’uomo si sentiva al sicuro e protetto, con il completo controllo della situazione, ma si accorse anche di non riuscire più a provare emozioni e desideri, di essere prigioniero delle sue paure. Nulla più lo interessava, nulla più lo coinvolgeva, ma si consolava ripetendosi che era al sicuro. Si allontanò da tutto e da tutti, ma soprattutto chiuse il suo cuore e perse di vista se stesso, la sua anima. All’esterno della casa fortificata intanto la vita continuava e ben presto tutti si dimenticarono dell’esistenza di quell’uomo finché un giorno lo stesso jinn dispettoso si accanì sulla dimora spostando porte, finestre, terrazze e giardini. L’uomo sconvolto all’interno dell’edificio, ormai vecchio e prossimo alla morte, in breve tempo impazzì al pensiero di aver rinunciato a vivere, ad avere amici, a mettersi in gioco cercando di tenere il controllo su tutto ciò che lo circondava, ma di non aver potuto comunque impedire al malvagio jinn, ad un evento straordinario e casuale, di rimettere nuovamente sottosopra la sua esistenza, rendendo vano il suo tentativo”.

Sanjar e Maryam giunsero frattanto nei pressi di un’oasi: solo poche palme, qualche pietra e un modesto specchio d’acqua. Lui la fece scendere dal cammello e la accompagnò fin nei pressi della pozza, stranamente limpida, quando sedutosi su un masso, si avvide che l’immagine di lei non si rifletteva sulla superficie. Turbato dal racconto, dalla prolungata vicinanza e nuovamente impaurito dal timore che ella fosse una creatura degli spiriti, Sanjar si avventò su Maryam con il lungo coltello terso e lucente in mano, ancora incerto se affondare la lama nel suo cuore o abbracciarla e stringerla a sé, ma nel tempo di un soffio di vento Maryam svanì nella sabbia come un miraggio, mentre il sole color ambra e zafferano declinava dolcemente dietro le dune rossicce.

Sanjar, affranto per la perdita di Maryam, tornò al suo palazzo nei giardini di Babilonia e da Atefeh, ma si dice che talvolta, di sera si nasconda ancora nelle stanze delle donne per ascoltare le ancelle che narrano la storia di Maryam e le sue fiabe.

Elena Stefania

 


 

Notte speciale, un racconto per Natale

nataleQuesta è la storia di Hadil, Sara, Fatou, Liu e Karim e un po’ è anche la storia di Ahmed. Quel giorno il Vecchio Bianco li chiamò e disse loro che il grande momento era finalmente arrivato. Dall’alto della loro  nuvoletta i bambini, o meglio, futuri bambini, avevano atteso per tanto tempo questa chiamata che avrebbe dato loro il via per la nascita. Avevano lavorato sodo per imparare come vivere nella pancia della mamma per tanti mesi, come parlare con lei attraverso il pensiero, come rimanere in contatto con gli altri bambini con la mente per potersi scambiare idee e impressioni, per darsi consigli e aiutarsi nei momenti difficili. Il Vecchio Bianco aveva insegnato loro che avrebbero mantenuto queste capacità fino a quando avrebbero imparato a parlare con il linguaggio degli uomini.

Dal cielo, dove avevano vissuto fino a quel momento, la Terra sembrava una grande palla colorata - Sarà divertente andarci finalmente - pensava Hadil - Chissà dove nascerò? Come sarà la mia mamma? -

Ora però bisognava correre, il Vecchio Bianco li stava aspettando per le ultime raccomandazioni e poi via…in volo verso la loro vita, in un arcobaleno di colori che scivolavano tutto intorno mentre scendevano. Giù, giù verso il basso poi all’improvviso si ritrovarono nella pancia delle rispettive mamme.

Circa nove mesi e tanta fatica dopo i piccoli si incontrarono nei lettini dello stesso ospedale: dopo tanta strada percorsa le loro mamme li avevano fatti nascere tutti nella stessa cittadina, ai piedi di possenti montagne, in Italia.

Mentre allegramente parlottavano (e i grandi non capivano perché strillassero tanto), all’improvviso Hadil si accorse che qualcosa non andava:

- Ehi! Non ci siamo tutti, manca Karim - disse

Infatti, anche il piccolo Karim sarebbe dovuto nascere quel giorno e quando avevano parlato con lui l’ultima volta, aveva detto loro di essere nella loro stessa città e pronto per uscire dalla pancia della sua mamma. Cosa poteva essere successo?

Rapidamente i piccoli deciso di mettersi in contatto con Karim. Lo chiamarono intensamente e finalmente lui rispose:

- Accipicchia amici, qui le cose non vanno per niente bene - disse.

- Tra poco sarà il momento di nascere, ma la mia mamma non riesce a trovare il mio papà che è andato a lavorare fuori! -

La casa dove viveva la famiglia di Karim infatti era in montagna, ben lontana dall’ospedale e la mamma del piccolo proprio non sapeva cosa fare. Dopo alcuni tentennamenti Meryem, così si chiamava la mamma di Karim, decise di prendere l’autobus e di provare a raggiungere con quello l’ospedale: ma aveva tanta paura, Karim era il suo primo bambino e davvero lei non sapeva cosa fare per aiutarlo a nascere.

Per farsi un po’ di coraggio prese il grande scialle colorato, ricordo della sua terra e della sua famiglia e uscì di casa mentre fuori continuavano incessanti a scendere grandi candidi fiocchi di neve.

Con grande fatica raggiunse la fermata dell’autobus in fondo alla strada.

Si sedette su una poltroncina blu in fondo all’autobus e sperò che l’autista, un grosso signore con il naso rosso e una camicia a quadrettoni,  facesse presto ad arrivare in città.

- Sono sull’autobus, - disse Karim ai suoi amici, - Ma ho paura che non arriveremo in tempo, qui si muove  tutto, mi sento improvvisamente stretto stretto, tra non molto dovrò per forza uscire! -

La paura di Meryem aumentava man mano che passavano i minuti, e i dolori alla pancia diventavano più forti. -Ancora un po’ piccolo mio! - sussurrava a Karim.

All’improvviso il conducente dell’autobus, si voltò verso i passeggeri:

- Mi dispiace, ma non riesco proprio a continuare! La neve è troppo alta. -

- Questa volta sono proprio nei guai! – pensò Karim

- Questa volta sono proprio nei guai! – pensò Meryem.

- Questa volta è proprio nei guai! – pensarono tutti insieme Sara, Fatou, Liu e Hadil.

Fuori la neve scendeva insistente, tutto era bianco, morbido e soffice, sembrava che tutto il mondo fosse ricoperto da un dolce strato di zucchero a velo.

- Macchè zucchero al velo! Qui sta scoppiando un quarantotto: la mamma piange e ha paura, io devo uscire di questo posto stretto e voi pensate ai dolci – brontolò Karim rivolto ai suoi amici.

- Stiamo pensando come aiutarti! – rispose Hadil.

Meryem ormai non resisteva più; le doglie la facevano soffrire moltissimo e non aveva idea di come aiutare il suo bambino a nascere. – Non ce la faremo mai da soli – pensò stremata.

Fu allora che tutti i bambini sentirono una vocina flebile flebile:

- Ehi voi! Sono Ahmed e sono con la mia mamma, Marwa, sullo stesso autobus di Karim. Sono ancora molto piccolo e la mia mamma non sa ancora che ci sono, ma lei ha già fatto nascere il mio fratellino e la mia sorellina, forse può aiutarvi…-

- Ti prego piccolo Ahmed – disse Karim – fai in modo che la tua mamma aiuti la mia, altrimenti saranno guai per me! –

Ahmed si concentrò con grande impegno, doveva a tutti i costi convincere la mamma a guardare verso Meryem e farle capire cosa stava succedendo.

- Forza mamma, guarda di là! -

E così  Marwa vide la povera Meryem, pallida e dolorante mentre si teneva stretta la pancia.

Capì rapidamente la situazione e si avvicinò a lei:

- Non temere, anche se è il tuo primo bambino, saprai perfettamente cosa fare, ti verrà naturale. E io sarò qui vicino a te per aiutarti. –

Meryem non aveva mai visto quella donna, ma una vocetta dentro di lei le diceva di fidarsi, che ora tutto sarebbe andato bene…

La neve continuava a cadere fredda e silenziosa, ma l’autobus, tenuto con il motore acceso dall’autista, era caldo e le poltroncine erano quasi confortevoli. Meryem e Marwa stavano in fondo alla vettura, mentre gli altri passeggeri si erano radunati davanti e aspettavano con ansia.

Dopo alcuni minuti finalmente Karim lanciò il suo primo grido, forte deciso… proprio come  chi non ce la faceva più!

- Grazie a tutti – pensò Karim – ma soprattutto grazie a te piccolo Ahmed e alla tua dolce mamma -

Meryem stringeva tra le braccia il suo piccolino e piangeva senza più riuscire a fermarsi:

- Ti ringrazio Marwa, senza te non ce l’avrei fatta - disse

- Va tutto bene – rispose Marwa – Sai, questa sera anch’io ho scoperto di aspettare un bambino, è stato lui a parlarmi e a farmi venire da te…-

Era ormai notte, in lontananza, tra le nuvole che ancora versavano neve, si sentivano suonare le campane a festa.

- Buon Natale – esclamarono tutti insieme i passeggeri dell’autobus.

- Buon Natale – esclamarono tutte le persone che nell’ospedale non molto lontano da lì, stavano intorno a Sara, Hadil, Fatou e Liu.

Elena Stefania


 

Raccontami di...

di Redazione

Storie, racconti, pensieri in prosa.



 

I braccialetti di mia nonna

di Asma Gherib

 

gIn tutta la città non c’era essere vivente che non conoscesse Arabiyyah, la donna che ogni giorno, all'ora del vespro usciva per dare da mangiare alle formiche, e ogni domenica, all’alba, richiamava i gabbiani con il rumore dell’acqua con cui annaffiava le sue palme. Sì, non devi meravigliarti, mia nonna parlava ai gabbiani tramite l’acqua, non capì mai cosa dicesse loro, ma mi raccontava spesso ciò che loro dicevano a lei.

Il giorno in cui ci visitava, era festa per me. Spesso ero io ad andare ad accoglierla ancor prima che arrivasse alla soglia della porta. La aiutavo a scendere dal tassì e a camminare pian pianino fino a casa nostra. Non dimenticavo mai di sbirciare dentro il grande cappuccio della sua gellaba, in cerca di biscotti, caramelle o i mandarini che nascondeva di proposito per me, dentro quel cappuccio che sembrava il sacco di baba Ashur, l’uomo leggendario che ogni dieci del mese di Muharram scendeva per le vie delle città distribuendo ai bambini svariati regali.

Quando la nonna era a casa nostra, mi svegliavo sempre di mattina presto, mi piaceva sentire la sua voce e quando il sonno si impossessava di lei, mentre era distesa sul divano, cosa spesso che accadeva, io rimanevo lì, accanto a lei, infatuata da ogni suo particolare: l’odore di muschio che emanavano i suoi vestiti di seta bianca, i capelli color argento lunghi, abbondanti e spesso coperti con un fazzoletto di crêpe de Georgette verde e ricamato con delle farfalle realizzate con i fili che fuoriescono dalle cozze, fatte asciugare e dorare sotto i raggi del sole di luglio. Le orecchie grandi quanto una conchiglia di mare, sembravano distese sulla costa che formava una guancia del suo viso ed aspettavano di udire il suono delle voci delle particelle che vagavano nell’aria della stanza, o dentro le vene del suo e del mio corpo. Su alcuni posti del corpo s’intravedevano dei tatuaggi: quelli della fronte avevano la forma di una piccola tortorella, quelli del mento di una spiga e quelli del braccio indicavano in arabo, il nome di Dio. Le mani erano sempre decorate con delicatissimi disegni d’henné, ma ciò che attirava la mia attenzione non era l’henné, ma le rughe delle sue mani dentro le quali leggevo tante cose e lei mi lasciava fare, e mi lasciava persino credere che stesse dormendo sul serio su quel divano. In realtà, lei, chiudeva solo gli occhi, e continuava a guardare con il cuore tutto quel che succedeva intorno, anche quando sembrava non esserci nulla da guardare.

I suoi gioielli erano un altro mondo tutto da scoprire. Nelle orecchie portava spesso degli orecchini a forma di grappolo d’uva, le cui foglie erano d’oro rosso fuoco e i chicchi erano di smeraldo scuro. Sul collo aveva sempre una collana di granelli di zaffiro ornata al centro da tre monetine d’argento massiccio e puro, sulle braccia portava sette braccialetti a forma di treccina i cui fili erano uno più diverso dell’altro; il primo era di oro nero, il secondo di oro giallo e il terzo di oro bianco. Ed io ogni volta che mi trovavo accanto a lei, mi mettevo a toccare questi braccialetti e a contarli ripetutamente senza capirne il motivo, fin quando un giorno non mi afferrò velocemente la mano e, guardandomi con i suoi occhi azzurri, mi disse: che tipo di braccialetti vuoi ti regalassi per il tuo prossimo compleanno? Qui, per te ne ho tre: uno di rame, uno di argento e un altro d’oro. Ed io sorpresa dalle sue improvvise parole non seppi cosa rispondere, e a quel punto lei con il dito medio e il pollice formò un cerchio e fece un movimento circolare sul mio avambraccio per tre volte consecutive: la prima volta mi diede un pizzico sopportabile con le unghie delle due dita, la seconda volta l’intensità del pizzico diminuì e nella terza, aumentando al massimo l’intensità, mi fece proprio male con le sue unghie, e gridando dal dolore, le chiesi il perché di questo suo gesto.

- “ questi erano i miei braccialetti, qual è allora quello che ti è piaciuto di più?”

- “quello che mi ha causato meno dolore, il secondo”

- “era d’argento.”

- “io però speravo che fosse d’oro.”

- “quello è il terzo che ti ha fatto morire dal dolore”

- “che vuoi dire?”

- “non tutto quel che vedi è oro, nella vita tutto ciò che luccica rallegra l’occhio, fa ubriacare i sensi ma, con il passare degli anni, è il cuore a rendersene conto del dolore che possono causare le cose, che sembrano luccicanti quanto l’oro, proprio come il dolore che ti ha causato il pizzico forte delle mie unghie sulla pelle del tuo avambraccio: stai attenta figlia mia all’oro dentro gli occhi altrui, stai attenta all’oro nel sorriso delle genti, stai attenta all’oro delle loro parole, stai attenta all’oro che sembra il miele della vita, poiché in un batter d’occhio può trasformarsi in giganti foglie di coloquintide.”

- “E allora perché a te piace l’oro, e le pietre preziose, tanto da indossare quelle più belle e più rare?”

- “No mia piccola adorata nipotina, quel che indosso di oro e di pietre, tu sei l’unica di tutta la famiglia a poterlo vedere, perché il tuo cuore è puro quanto la goccia dell’oro blu.”

-“E come può accadere questo, mi vuoi dire che in realtà tu non indossi niente di materiale, che possano vedere gli altri?”

-“Questo lo saprai, quando riuscirai a intendere cosa voglia dire il grappolo d’uva nelle mie orecchie e la collana di zaffiro con le monetine d’argento sul mio collo, e i sette braccialetti a treccina nel mio braccio.”

- “non lo saprò mai nonna.”

Dissi in silenzio smarrita nel bosco delle sue parole, mentre vedevo crescere sul suo vestito di seta bianco, un grande albero di oro blu, con dodici rami e in ogni ramo c’erano trenta foglie e da ogni foglia sorgevano cinque frutti: tre erano coperti dall’ombra e due dai raggi del sole.

 


 

 

Frittelle per due

di Raffaella Musicò

 

 

frittelle per dueOggi mio marito è andato a Venezia – non perché lui sia di Venezia e quindi ogni tanto ci va, che ne so, a dare un’occhiata che sia ancora in piedi la casa che ancora possiede, quella che lo ospitava durante le vacanze da ragazzo, quella in cui ha vissuto suo padre e la madre di suo padre prima di lui, quella che una volta era in un modo, un grosso parallelepipedo di due piani di altezza, squadrato e senza terrazzi, di un colore rosso cupo quasi marrone, e ora è in un altro, intanto i piani sono quattro, tre sopra la terra e uno sotto, e poi c’è una torre che viene fuori come un faro rosa dal resto della costruzione e ospita le scale, come se fosse un condominio, anche se non lo è, perché le case appartengono tutte a mio marito e a sua sorella, una per uno e due ereditate; dunque non c’è andato solo per dare un’occhiata alla casa e al giardino – perché le luci esterne spesso saltano, annacquandosi i fili con l’acqua che permea la parte di terra del comune di Venezia che se ne sta appoggiata sulle palafitte e non c’è niente da fare, non ci sono coperture e protezioni che tengono, le particelle umide s’infiltrano, penetrano, corrodono e distruggono, seppure con grande lentezza e pazienza, e ovunque fanno fiorire chiazze verdastre e bagnaticce, che pian piano coprono superfici e acquietano ogni spirito umano di lotta; non è andato per controllare e verificare, aggiustare e recuperare, come fa per la maggior parte della sua vita: ci è andato per comprare delle frittelle, che in dialetto veneziano si chiamano frìtoe, perché è carnevale.

E’ stata una decisione presa così su due piedi ieri sera, mentre parlavamo dei nostri progetti per il fine settimana; ci chiedevamo cosa ci sarebbe piaciuto fare, se avremmo preferito il freddo e il caos ipercolorato di Venezia e delle sue maschere sorretto da un paio di cene di pesce come piacciono a noi, con i fritti di verdure all’inizio e un buon piatto di spaghetti con le cozze e i pomodorini, al dente e sugosi, che ti scivolano sulla lingua e ti lasciano un po’ di acido in tutta la bocca – acido che si sposa bene con una bella sorsata di prosecco, certo – e poi magari un’orata al forno pescata di fresco; a colazione avremmo potuto andarcene, come sempre, al bar sotto casa che fa le brioches più buone di tutta Venezia, con il laboratorio di pasticceria proprio lì in fianco, da cui viene un odore di burro e di zucchero che trasforma qualsiasi essere raziocinante in un bambino di tre anni, festoso ed entusiasta.

Ci siamo chiesti se avremmo invece goduto di più restandocene a casa, col camino acceso a fare una partita a Scarabeo, con i cani addormentati ai nostri piedi per tutto il pomeriggio, e poi la sera una cena nel nostro ristorante preferito, che fa bene la carne alla brace ed è gestito da un oste che ha il dono della parlantina filosofica. Dormire nel proprio letto può non avere pari.

Ma poi ci sono venute in mente le frittelle. E’ carnevale e di frittelle a Venezia si può morire. Perché quelli che le sanno fare bene, le fanno soffici e non troppo dolci, con l’uvetta che arriva a spezzare la monotonia dell’impasto o, meglio ancora, con dei pezzetti di mela che concedono al palato una pausa corroborante prima del boccone successivo. Non ci piacciono quelle con crema o zabaione, che riempiono la gola e stroncano la leggerezza. Mentre ne parlavamo sentivamo entrambi aumentare la salivazione e ripercorrevamo con la memoria delle papille gustative il piacere generato al momento della degustazione. Perché è di questo che si tratta, della degustazione di un cibo sopraffino, che la tradizione popolare ha un gusto anche così.

Quindi mio marito ha deciso di concedersi una pausa dal lavoro, una fuga segreta, alla ricerca di un piccolo sogno che si sarebbe avverato senza troppe difficoltà. L’apertura di uno spazio nascosto e solitario, ma condiviso con la mia attesa, per guardare in faccia i propri pensieri, per ripescare emozioni infantili e dolcissime. Una missione per il godimento di entrambi, una promessa che si è certi di poter mantenere.

E’ partito presto, non erano neanche le otto, faceva un freddo che tagliava il respiro; si è infilato nella sua macchina con i sedili riscaldabili, ovattata e morbida, ha acceso la radio e mi ha salutato con la mano. “Ci vediamo stasera, con il malloppo!” Quando mi sorride così, mi convinco che la felicità è questione di attimi che potrebbero smarrirsi come niente, bisogna stare attenti, che ci sono poche altre cose per cui vale la pena attraversare questa valle di lacrime.

Io ho avuto una preziosa giornata di silenzio e solitudine che mi ha privato di ogni scusa per non rimettermi a scrivere; mi sono arresa, ho preso il mio blocco a righe – che tutte le volte che lo apro penso che preferirei fogli bianchi, senza costrizioni, che tanto riesco ad andare dritta quando scrivo, non ho bisogno di guide, e se ho la necessità di lasciare un po’ di spazio sarebbe più bello se fosse bianco, intonso, virgineo, mi viene da dire – e ho cominciato. Il segreto del foglio bianco è che fa paura quando è bianco, ma appena ci si posa sopra la penna, tutto comincia a cambiare, si aprono mondi, dimensioni impensate, o meglio pensatissime, sognate, desiderate, tutte quelle immagini che popolano i sogni da svegli, tutte quelle impressioni che hanno marchiato la corteccia cerebrale, il cuore, lo stomaco; basta anche scrivere solo “Mi ero appena svegliata, in un martedì di neve a fiocchi di zucchero, che il telefono aveva preso a squillare come non faceva mai di prima mattina” e subito, istantaneamente, ti viene da andare avanti, non sai bene dove o come farai per arrivare in fondo, ma senti che una porta si è aperta, una luce all’inizio ti ha accecato, ma subito i contorni delle cose hanno preso a delinearsi, a colorarsi, ad appropriarsi delle loro ombre e ti viene una specie di bulimia, un affanno esaltante di correre dietro a tutti i sentieri che cominciano a snodarsi al di là di quella porta spalancata; ho letto da qualche parte che la vita è fatta di e/e/e/e piuttosto che di o/o e credo che non ci sia affermazione più vera. Le possibilità diventano alternative solo perché non abbiamo abbastanza tempo o coraggio per percorrerle tutte.

Dopo due ore mi sono tirata via a fatica e mi sono messa a cucinare, che poi è un po’ come scrivere: ci vuole attenzione, precisione e inventiva. Ci vuole una capacità empatica con i destinatari delle creazioni, ci vuole un’immaginazione lungimirante per immedesimarsi nel godimento che proveranno nell’istante in cui addenteranno i nostri bocconi o scorreranno con gli occhi le nostre parole: bisogna credere di sapere di che emozione moriranno. Ho tirato fuori dal frigo l’impasto di carne trita che mi ero fatta preparare dal macellaio, che ci mette dentro anche un po’ di filetto e di salsiccia; ci ho aggiunto pezzetti minuscoli di mortadella, e ho messo del pane raffermo a bagno nel latte freddo. E poi spezie, sale e una delle uova vendute di nascosto dal mio fruttivendolo, di nascosto perché le fanno le sue galline e lui le porta in negozio così come sono, senza lavarle né confezionarle, e adesso ho capito che è una cosa che non si può più fare. Ma sono uova così gialle e gustose che se anche te le sfrittelli in una triste domenica di pioggia – che il sabato prima sei andato al cinema e ti sei cibato solo di pop-corn e hai un buco allo stomaco indomabile – il sapore e il profumo riempiono la stanza e il cuore (per cui vale la pena di incappare e perseverare nell’illegalità). Finito l’impasto mi sono dedicata al sugo, mio marito adora le polpette al sugo, che però dev’essere profumato e pieno, e deve rimanere abbracciato alle palline di carne, avvolgerle, accudirle, quasi, prima che vengano messe in bocca. E’ uno dei piatti che sua madre sapeva fare meglio, finché le è rimasta la voglia di cucinare (e di dedicarsi a qualcuno) e quindi è uno di quei piatti che quando lo mangiamo ci restituisce la sensazione di una cura di cui abbiamo sempre bisogno.

Ho controllato che ci fosse una bottiglia di barbera, il cui sapore aspro esalta il suo corrispondente nel pomodoro e c’era; tutta contenta ho preso a formare le polpette e poi le ho messe in frigo. Intanto guardavo il mio blocco a righe aperto sul tavolo della cucina e ho declinato almeno due volte il suo invito silenzioso a rifarmi viva: mancava ancora un contorno appetitoso. Ho optato per un bel cespo di scarola ripiena, con capperi, olive, pinoli e dadini di salame piccante; un po’ d’olio e quaranta minuti di forno a bassa temperatura. Fuori il freddo sembrava stremare persino gli alberi e verso le due del pomeriggio ha cominciato a nevicare; prima poco, poi sempre di più, a grossi fiocchi abbondanti e muti. In poco tempo il giardino si è trasformato in un luogo da fiaba e i miei cani si sono messi a protestare per uscire a giocare; è bastato aprire la portafinestra per vederli volare nel bianco, tuffarsi, rotolarsi e poi correre sfrenati in un’euforia sfolgorante. Io sono rimasta a guardarli per un po’, a bearmi di quella libertà giocosa e ingenua, seppure scandita dai delicati equilibri di branco – in cinque fanno un branco bello e buono – e poi sono rientrata, con le guance gelate e un sorriso del cuore. Sono tornata dentro e la cucina iniziava a profumare della verdura che si abbandonava al calore del forno; le ombre erano diventate nette e lunghe, ho acceso la luce. Il mio blocco ancora lì sul tavolo, le idee nella testa, il silenzio conciliante. Ho pensato a mio marito che a quel punto doveva quasi essere sulla via del ritorno, magari ancora una passeggiata lungo laguna, con i lampioni gialli e il sottile rumore dell’acqua smossa dalle barche e le luci delle case tutte accese contro un cielo netto e freddo. Magari non c’era vento e si sentivano i cani abbaiare dall’isola a loro destinata come ricovero; magari era al bar, a bersi un caffè caldo e a farsi preparare le frittelle da portare a casa. O era già sul traghetto che dal Lido porta i passeggeri sulla terra ferma – che quando la sento mi sembra sempre una bella espressione, soprattutto perché è in contrasto con la terra dell’isola che tanto ferma non è – e allora si stava godendo i colori della laguna e di Venezia, e magari il pensiero era volato indietro a mille ricordi che non sai di avere finché non ti trovi in una certa condizione che ti permette di farli tornare fuori. E come è bello stare lì a rivedere tutto davanti agli occhi, persone che si sovrappongono a persone, conversazioni e risate sopra le voci che ti circondano, quella stretta inesplicabile allo stomaco nel risentire un abbraccio, o il tuo nome pronunciato ad alta voce. E sopra ogni cosa c’è il ricordo di quel richiamo dalla cucina – una nonna o una mamma – che avvertiva che c’era da fare merenda: a casa mia era un tè caldo con il ciambellone appena sfornato, oppure la crema pasticcera nelle tazze con i biscotti, che, siccome doveva bollire per perdere il sapore di farina, bisognava stare molto attenti a che non si attaccasse al pentolino mentre la cucinavi e poi ci si aggiungevano le scorzette di limone che facevano diventare la crema amara tutt’intorno e ti dovevi ricordare di questo se no avevi un piccolo shock, un inaspettato insospettabile brusco risveglio dal sogno dolce in cui ti eri appena immerso. La voce era gentile e molto attesa e nessuno si era mai fatto ripetere due volte la richiesta. I ricordi di mio marito in merito non li so, quello che mi ha raccontato dei suoi pomeriggi a casa era il suo starsene con lo stereo alto, al buio, lo studio come una pausa tra un’emozione evocata e un’altra, ma deve essere stato intorno ai quindici sedici anni, non prima, e lo racconta con un misto di sofferenza, di rimpianto e di liberazione. Di sicuro ora che se ne sta al Lido da solo chissà quante merende fatte di gelati sulla spiaggia o di panini portati da casa gli staranno tornando in mente!

Io sono ancora incerta sul da farsi, se tuffarmi di nuovo nelle parole che affollano il cervello e il cuore o se dedicarmi alla preparazione di qualcosa d’altro, che cucinare ripristina il mio equilibrio e permette all’energia di impiegarsi con profitto. Un compito godurioso e ben eseguito porta tranquillità d’animo e soddisfazione. Così mi è venuta l’idea di farle anche io le frittelle, con la ricetta di mia suocera, così, tanto per fornire un termine di confronto, una sovrabbondanza di piacere, una scorta di amore trasmesso e arrivato. Nella nostra casa c’è un silenzio che incoraggia la bellezza dei sentimenti e che a volte ti mette davanti all’assoluto: sarà per questo che se io e mio marito litighiamo lo facciamo in modo estremo, come se dopo non potesse restare che l’odio o l’amore eterno.

In questo pomeriggio sempre più nevoso e offuscato, il silenzio comincia a diventare incombente e così mi decido a mettere su un po’ di musica; scelgo una piccola collezione di arie famose cantate da Maria Callas, arie romantiche e travolgenti che in un attimo ti trasportano in un altrove fatto di palpiti e sospiri, di voli su distese sterminate, di battiti furiosi del cuore. E’ la musica perfetta per fare dei dolci. Mi metto all’opera, grembiule, ricettario, ingredienti e strumenti: avere tutto a portata di mano, tutto in fila sul ripiano di marmo arrotonda le mie ansie, perché con i dolci io non ci so fare. Ci vuole tutta la volontà di cui sono capace e la capacità di cogliere, in corso d’opera, deviazioni pericolose per la riuscita finale. Non è come cucinare carne o pesce, ingredienti base che esistono già, che hanno solo bisogno di essere capiti ed esaltati; no, qui si tratta di creare dal nulla, di mettere insieme materiali che di per sé hanno già un senso che, combinato nell’unico modo giusto con quello degli altri, sfocia in tutt’altro e dà vita a una composizione unica. Per molto meno qualcuno è stato definito Dio. Quindi. Maria canta, con tutta la potenza di cui dispone, e io comincio a mischiare, aggiungere, sbattere energicamente, assaggiare, per poi ricominciare ad aggiungere, e nuovamente mescolare, amalgamare, invitare segretamente al connubio necessario. Mi calmo quando viene il momento di friggere, perché è un’operazione che mi riesce bene e mi dà un gran gusto: l’olio in grande quantità, la fiamma alta, le prime bollicine, la prova con un poco di impasto. Tutto è pronto, vado. Riesco a tirare fuori diciotto frittelle, belle gonfie e spugnose al tatto, dorate e profumate. La cucina è un trionfo di odori, il mio grembiule imbrattato quanto basta a rendere onore all’impegno e alla fatica, sulla lingua ancora il sapore dei residui che ho tirato su dalla ciotola con il dito. Ho finito, spengo il fuoco, l’olio non vuole arrendersi e sfrigola ancora su piccoli pezzi di impasto rimasti in giro per la padella. Una ciotola di ceramica a fiori accoglie il risultato della mia dedizione. Con fierezza mi tolgo il grembiule e trepidante ne assaggio una. Perfetta. Ho quasi le lacrime agli occhi. In quella squilla il telefono, è mio marito: “Ho con me il bottino, la macchina profuma, non so se riesco a resistere fino a casa! Sono già a metà strada, arrivo presto.” Non gli confesso che cosa ho fatto, voglio vedere la sorpresa nei suoi occhi, leggerci dentro la gioia di ritrovare profumi e sapori anche nella nostra casa, tutta una serata pervasa di ricordi di vecchi piaceri che risuoneranno nei nuovi, qualcosa di cui ci saremo impadroniti e che entrerà a far parte delle nostre tradizioni. La nostra famiglia che aggiunge tasselli di identità ai retaggi di cui siamo singolarmente portatori.

Vado di sopra, voglio farmi una doccia e cambiarmi, pregustando il piacere di cui sarò stata complice con lui. Non ci impiego più di dieci minuti e scendendo le scale sorrido. Apro la porta della cucina e il sangue mi si gela nelle vene: vedo la mia cagnolina, quella cagnolina che ho scelto io stessa in mezzo a tredici fratelli e sorelle di neanche sessanta giorni, che mi ha preso un dito fra i denti quando l’ho accarezzata, quella stessa cagnolina che ho assistito con mio marito mentre partoriva i suoi nove cuccioli in una notte di ottobre, ritta su due zampe con la bocca spalancata dentro la mia ciotola di ceramica a fiori a meno di un centimetro dall’ultima frittella. Lei si gira verso di me, mi guarda e poi addenta la preda. Io sono ancora sulla porta, i miei sensi immobilizzati dall’orrore e dalla rabbia. E dalla mia stupidità. Dalla mia assoluta, totale stupidità. Mi metto a urlare “Via! Via di lì!” dimostrando ancora di più la mia idiozia. Lei manda giù l’ultimo boccone e lentamente, per via della panciona gonfia delle mie frittelle, va a stravaccarsi sul divano. “Cosa hai fatto! Cosa!” se vado ancora avanti e qualcuno mi sente finisco all’ospedale psichiatrico del paese. Ma la mia rabbia è devastante, mi scendono lacrime che bruciano le guance, puro odio distillato. Vado su è giù per la cucina imprecando e maledicendo qualunque cosa, piango disperata, disperata, disperata. Mentre lei se ne sta placida a godersi il frutto della sua prontezza d’azione. Non ha neanche rovesciato la ciotola, peggio per lei perché adesso ho una gran voglia di spaccargliela sulla testa. Mi brucia la gola per quanto ho gridato, decido di sedermi un attimo. Non ho né tempo né ingredienti a sufficienza per farle daccapo. Mi arrendo.

Poco meno di un’ora dopo sento la ghiaia stridere sotto le gomme della macchina di mio marito, davanti al garage. Poi il motore si spegne, i suoi passi arrivano portatori di gioia e di piacere, la mano libera dal vassoio abbassa la maniglia della portafinestra che ho dimenticato di chiudere a chiave; mi aspetto una ramanzina, ma lui è tutto un sorriso, dice ‘ciao’ come se avesse davanti agli occhi la cosa più bella della sua vita, e neanche si accorge della mia faccia stravolta, mi viene incontro, mi bacia – sa di freddo, di aria nuova e del suo profumo, lo stesso da anni – mi accarezza i capelli. “Missione compiuta!” E io non posso fare altro che sorridere all’idea che per fortuna siamo in due.

 


Diario dalla mia isola

di Stefania Aureli

 

 

Il sole aveva già cambiato rotta e colore,

puntava ora ad ovest

verso le soffici onde dell’oceano,

era quasi rosa con piccoli grumi di arancio e fiammelle rosse.

 

 

Due erano i pesanti sacchi verdi,

uno per parte, stretti dalle forti mani.

Fasci di foglie e rametti sottili si affacciavano dagli argini di plastica,

“verdura molto nutriente” imparai molti passi dopo.

Era davanti a me, con un ritmo perfetto,

dondolava precisa come un pendolo,

il suo corpo e le braccia con i due pesi disegnavano un’ombra:

una bilancia.

 

Il sentiero bruciava le suole dei sandali,

la sua voce intonava una nenia crepuscolare,

fruscìo, gorgoglìo e oceano.

Il mio fiato a tratti affannato cercava l’intonazione.

 

Alberi di banane e piccole cascatelle,

una grande sottana svolazzante di cotone grezzo,

verdura in sacchi, capelli scuri come la sua pelle raccolti insieme a quelli argentati.

Sete.

 

Era bellissima.

 

La sua casa era arroccata sopra una collinetta dopo il terzo albero di banane,

percorrendo il sentiero a nord del villaggio.

L’abito del Sabato era appeso dietro la porta di legno insieme con la sottoveste bianca.

Una capanna di legno e un vestito blu a fiorellini azzurri.

 

Mattoncini e sassi per tenere sollevato il pavimento,

un pozzo vicino, un ruscello vicino,un macete,

un albero del pane: non lo avevo mai mangiato prima di allora.

Un grande frutto da tagliare e da friggere.

 

Un tempo il suo sorriso doveva essere meraviglioso:

denti bianchi come il cocco da bere e grandi labbra carnose come foglie di aloe.

Occhi di verità e coraggio.

Che onore nella sua casa!

 

 

Un solo piatto, un solo letto, un tavolino ben saldo.

Uno specchio dalla cornice di plastica rossa,

il cappellino e la borsetta del Sabato alla messa

per ringraziare Dio cantando la libertà.

 

 

Dorcas non era più giovane,

venticinque anni fa aveva cominciato a lavorare nel turismo.

Puliva i bagni dei grandi alberghi.

Due miglia di cammino dal suo alloggio e quasi tre dal suo villaggio.

 

Era bellissima.

 

 

Era un corallo nero

di quelli che i turisti tentavano di rubare dal suo oceano,

lucidi e levigati dalla vita.

Era una donna fiera e libera.

 

Dorcas mi ha dato cibo, acqua, canti.

Mi ha insegnato a danzare tra i banani,

nelle fiammelle del sole…

… e quando me ne sono andata mi ha detto “ arrivederci amica mia ”….

 

Era bellissima… e la sua voce,spesso,

mi insegna ancora dell’albero del pane,

della festa del Sabato.. e di me,

donna come lei.

 

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