Senza sbarre

Trasferirsi a Istanbul

di Francesca Pacini

A volte si capita in un posto per caso, guidati dal destino. E quel posto  diventa casa nostra. Isadora ora vive nella città turca in cui molti italiano sognano di trasferirsi. ha aperto anche un blog che offre informazioni e consigli utili…

 

Ci siamo conosciute a Istanbul lo scorso novembre. Isadora ha un’aria sbarazzina, con quei guizzi birichini che spesso caratterizzano i toscani. Ma ora la sua città Istanbul. E non intende lasciarla. Per aiutare anche gli altri italiani che decidono di affrontare un trasferimento, ha anche aperto un sito,Vivi Istanbul, che regala orientamenti e consigli utili. Cambiare abitudini non è sempre facile, ma ne vale davvero la pena…

 

 

07-07Cosa significa lasciare l'Italia e andare a vivere all'estero?

 

Per me ha significato abbandonare una dimensione paesana che mi andava molto stretta e aprirmi a culture diverse. L’ho fatto inizialmente concentrandomi sull’imparare bene l’inglese e poi mi sono fatta prendere un po’ la mano e sono finita  a vivere in 3 paesi diversi nel giro di 4 anni.


 

Perché hai scelto Istanbul?

In realtà non avevo mai pensato a Istanbul come una mia meta. Stavo vivendo in Inghilterra ormai da due annetti e volevo lasciare il nord dell’Europa per spingermi sul mediterraneo. È stato poi un mio caro amico (turco) conosciuto a Newcastle che mi ha dato l’idea di provare a venire a Istanbul. Mi ha ospitato per un primo periodo ed è stato subito amore. Ho scoperto che era esattamente ciò che cercavo: un mix di cultura mediterranea, influenze dell’Islam sulla società e la bellezza di una lingua sconosciuta. Per non parlare ovviamente della bellezza della città.


Come donna, pensi sia più difficile trasferirsi in un paese come la Turchia? Sai quanti pregidizi (sbagliati) ci sono! Che problemi hai incontrato?

In realtà per me non è stato assolutamente difficile trasferirmi a Istanbul in quanto donna e in quanto persona. Forse è da attribuire ai miei studi di comunicazione interculturale e la mia sensibilità per la diversità culturale, ma io non noto alcuna pressione su di me. Noto un diverso atteggiamento verso la donna nelle famiglie tradizionali e soprattutto in quelle religiose, ma non è niente che si riversa sul mio modo di vivere. Si tratta solo di delicate regole sociali che posso scegliere o non scegliere di assecondare, essendo straniera.

Non trovo la situazione della donna a Istanbul molto diversa da quella di alcune parti dell’Italia. Ovviamente non posso parlare della Turchia nel suo complesso, perché racchiude realtà troppo diverse tra loro.

Ci sono cose che in certi contesti è meglio non fare: ad esempio è meglio evitare di usare le stesse parolacce usate dagli uomini turchi in quanto ragazza, è sconsigliato parlare di sesso apertamente con i miei amici in presenza del mio ragazzo ed è meglio non fumare sigarette davanti ai genitori dei miei amici, se la famiglia è tradizionale. Questi sono solo esempi e che ovviamente non riguardano tutte le situazioni e tutte le persone, ma che fanno parte della mia esperienza.  In generale direi che sono piuttosto lesta nel capire ciò che è meglio fare e non fare e lo accetto, in quanto  parte del contesto dove io ho scelto di vivere e perciò al quale sono felice di adattarmi.



Come vedi l'Italia, da fuori, oggi? Ti manca qualcosa del nostro paese?

Vedo l’Italia come qualcosa che mi appartiene ancora, ma per poco. Dall’esterno si riesce a vedere le cose in maniera distaccata a volte, però alla fin fine vorrei solo il meglio per il paese dove ancora vivono la mia famiglia e i miei amici e dove credo tornerò un giorno e crescerò i miei figli. Il grande legame verso la mia terra è la lingua. A meno che non si impari una seconda lingua fin da bambini, una lingua straniera rimarrà sempre straniera. Non ne riuscirò mai ad avere piena padronanza e mi manca molto sentirmi al pari di tutti nell’espressione linguistica qua in Turchia. Dell’Italia mi manca la bellezza e la bontà del cibo. Ovviamente la famiglia e gli amici. Consiglierei a tutti di trasferirsi a Istanbul con me!


Che consigli a chi rimane qua e combatte tutti i giorni, in questo paese così lacerato?

Questa è una domanda difficile. Consiglierei prima di tutto lasciare perdere per un po’ i media, le televisioni, i giornali. Non state a sentire le storielle che ci raccontano dei politici, della crisi in Europa e in Italia. Lasciate perdere il loro linguaggio arrugginito e smettetela di fidarvi della loro selezione delle notizie. È anche colpa dei media se questa politica è diventata un teatrino.

Pensate a come portare il vostro contributo. Pensate a creare, ad esprimervi, a collaborare. Dimenticate la depressione e la crisi e fate finta di essere in un paese dove c’è ancora tanto da poter fare. Pensate a creare gli spazi che vi mancano, fare le cose che vi piacciono e iniziate a essere più solidali tra di voi. Ai giovani che sono attivi in politica pregherei di ribellarsi al sistema e di rimanere in politica per interesse verso l’umanità e non verso il potere o l’ideologia. Tutto cambia, è solo questione di tempo. Prima iniziate, prima andremo avanti. Date priorità all’educazione, perché è strumento essenziale dello sviluppo.


Ci racconti la tua vita a Istanbul?

Un via vai di persone, traghetti, cani, gatti, macchine, gabbiani, semafori e chi ne ha più ne metta.

Un giorno qua a Istanbul sembra finire subito: ci sono così tante cose da fare che non rimane che il tempo di chiedersi dove siano andate le ore.  Prima di dormire ti rendi conto di aver camminato chilometri e fatto in su e in giù per la città con qualsiasi mezzo di trasporto possibile. La vita qui è talmente frenetica da essere difficile da riassumere.

Al momento collaboro con una guida turistica alternativa (www.hikeast.com), do lezioni di italiano e seguo il sito che ho aperto insieme ad una mia amica a Marzo per gli italiani che vivono a Istanbul (www.vivistanbul.com)



ll  tuo sito è molto interessante. Come è nata l'idea?

 

È nata mentre ancora stavo in Kenya aspettando di ritrasferirmi a Istanbul dopo un anno di assenza. Mentre ero via, ricevevo molte email di persone che si volevano trasferire a Istanbul e mi chiedevano consigli. Ne parlavo con Cristina, la mia amica italiana che viveva insieme a me a Istanbul, e poi ci siamo dette: perché non proviamo a fare qualcosa per aiutare gli italiani che vogliono trasferirsi a Istanbul? Io ho pensato che era la miglior idea per trovare la forza di tornare e vivere la città in modo diverso.

Quando ho vissuto qua dal 2010 al 2011 ho sentito molto la difficoltà di non trovare gli spazi dove parlare la mia lingua e dove cercare informazioni riguardo alla città nella mia lingua. Adesso che parlo turco, mi chiedo come fanno tutti coloro che arrivano senza parlare una parola. Poi mi rendo conto che anche io ho vissuto tutte queste difficoltà e posso aiutare coloro che si trovano in questa situazione adesso.  Il progetto futuro è di aprire una serie di servizi di traduzione e di mediazione culturale per gli italiani che vivono a Istanbul.

 

La prigione che abitiamo

di Susi Borzacchiello

Una volta ascoltai un noto psicoanalista parlare di carcere. Mi colpirono le sue parole quando affermò che ognuno di noi, se potesse, trasformerebbe il mondo in un’unica prigione, per rinchiudervi tutti tranne sé stesso. In questo modo salverebbe sé stesso dal pericolo rappresentato dall’altro, un pericolo simbolico posto alla propria libertà. Restando sul tema, l’inconscio freudiano, quella parte “sorvegliata” dal grande custode “Super-io”, il luogo dove nascondiamo e teniamo sotto chiave pensieri, istinti, pulsioni, desideri che ci imbarazzano e riteniamo riprovevoli, rimanda proprio alla metafora della prigione. Ma dalla prigione si cerca di evadere perché è il luogo che priva della libertà, e quindi anche l’inconscio evade, evade con i sogni e con i contenuti simbolici che essi ci restituiscono al mattino. Non tutti però ricordano i sogni e c’è chi è pronto a giurare che non sogna, che le sue notti siano assenza di coscienza e basta. Ma è proprio così?

Il carcere è un luogo simbolico, dunque, che ci “salva” dal riconoscere la parte più nascosta di noi, perché poi quella parte occorre saperla accoglierla, interrogarla, incamminarsi in un percorso di autoconoscenza, anche senza l’aiuto dello psicanalista, che ci affranca dalla paura di vivere, dal dolore sordo che sembra non avere un perché, che si nutre della sensazione di sentirsi il bersaglio della cattiveria degli altri: tutti colpevoli tranne me stesso. Salvarsi da questo punto di vista è il primo passo verso la libertà, assumendosi la responsabilità di ciò che si è e di ciò che si fa, partendo dal qui e ora, con la consapevolezza che il passato non si cambia,  crediamo o meno nel destino e nell’ineluttabilità di ciò che è stato. Invece è più rassicurante riprodurre schemi di comportamento antichi e non ci sforziamo di vedere oltre quella prigione in cui ci siamo incatenati anziché proiettare la nostra esistenza liberi dalle catene che noi stessi contribuiamo a stringere intorno a noi.

Il mito platonico della caverna ci viene in aiuto per comprendere quanto siano potenti le tenebre che ci impediscono di vedere la forma reale delle cose, attribuendo alle ombre che si proiettano sui muri il significato di oggetti reali. I prigionieri della caverna platonica vivono al buio, volgono le spalle all’ingresso. Dietro di loro, all’esterno, arde un grande fuoco che proietta sul muro le ombre di uomini che trasportano oggetti lungo una strada posta tra il fuoco e le loro spalle. Platone racconta cosa potrebbe accadere se uno di loro venisse liberato dalle catene e, in piedi, potesse volgere lo sguardo verso l’esterno. I suoi occhi rimarrebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. L’abitudine a guardare le ombre, scambiandole per forme reali, lo condurrebbe a pensare che le ombre che guarda all’esterno siano meno reali di quelle che è abituato a guardare sul muro della caverna. Se poi il prigioniero potesse uscire all’esterno, la luce diretta del sole lo accecherebbe e non riuscirebbe comunque a vedere la realtà, anzi, proverebbe irritazione per essere stato costretto ad abbandonare il buio della caverna. Il prigioniero avrebbe bisogno di tempo per abituarsi a distinguere le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua e solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti. Il processo di conoscenza, anche se lento e doloroso, lo porterebbe a volgere di notte lo sguardo al cielo e ammirare i corpi celesti con maggiore facilità che di giorno. Ecco infine che il prigioniero, oramai liberato dalle tenebre, potrebbe vedere il sole e non il suo riflesso nell'acqua e vorrebbe ritornare nella caverna e liberare i suoi compagni, ma prima dovrebbe convincerli di ciò che aveva visto. Il ritorno dalla luce alla tenebre porrebbe però il problema inverso, dovrebbe cioè riabituare gli occhi al buio per ritornare a guardare il fondo della caverna. In questo spazio di tempo sarebbe oggetto di scherno da parte dei suoi compagni convinti che il tempo passato all’esterno della caverna gli abbia procurato danni agli occhi. Il momentaneo riadattamento  alle ombre della caverna lo esporrebbe anche a un rischio maggiore, perché impiegherebbe del tempo a convincerli  e se tentasse di liberarli e portarli alla luce, i compagni, convinti che il dolore provocato dalla luce diretta sia insopportabile, piuttosto lo ucciderebbero per non sottoporre i loro occhi allo stesso  dolore. Ecco il dialogo tra Socrate e Glaucone riportato nel libro vii del dialogo “La Repubblica”: «E considera anche questo», aggiunsi: «se quell'uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all'improvviso dal sole?» «Certamente», rispose. «E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l'abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?» «E come!», esclamò. «Questa similitudine», proseguii, «caro Glaucone, dev'essere interamente applicata a quanto detto prima: il mondo che ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere, la luce del fuoco che qui risplende all'azione del sole; se poi consideri la salita e la contemplazione delle realtà superiori come l'ascesa dell'anima verso il mondo intellegibile non ti discosterai molto dalla mia opinione, dal momento che desideri conoscerla>>.

 

Avrei dovuto inaugurare questo spazio nella Stanza di Virginia parlando di carcere reale, il luogo dove  si eseguono misure restrittive proporzionate al reato commesso, carcere come luogo di punizione e come luogo di risocializzazione, secondo il principio dettato dall’art. 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’inconscio forse mi ha guidato e mi ha fatto scrivere della prigione come luogo simbolico, come metafora dell’esistenza ancor prima che come luogo di detenzione. Forse perché la dimensione del carcere reale e dell’umanità dolente che lo abita è invisibile a noi prigionieri senza catene. Su di esso agisce una rimozione collettiva che fa volgere lo sguardo lontano dai muri e dalle sbarre, che ci fa chiudere gli occhi come il prigioniero della caverna quando incontra la luce della conoscenza, proprio come l’inconscio che censura ciò che provoca  imbarazzo e disagio.

 

Le donne antifasciste nel carcere di Perugia

di Susi Borzacchiello

LE DONNE ANTIFASCITE NEL CARCERE DI PERUGIA

una lapide apposta nel 1979 sulle mura del vecchio carcere per ricordare le loro storie

 

donne partigianeClara Balboni, Anna Bazzini, Adele Bei, Maria Bernetich, Anna Bessone, Francesca Vera Ciceri Invernizzi, Cesira Fiori, Lea Giaccaglia, Ergenite Gili, Lucia Gobetto, Antonia Logar, Rosa Messina, Lucia Olivo, Marcellina Oriani, Anna Pavignano, Maria Maddalena Pizzato, Anita Pusterla, Camilla Ravera, Giorgina Rossetti, Carmelina Succio, Iside Viana, Valeria Wachenhusen: nel ricordo di queste donne, condannate dal Tribunale Speciale tra il 1928 e il 1943, per avere svolto attività antifascista, il 7 ottobre 1979 fu scoperta una lapide affissa sul muro di cinta del carcere di Perugia, dove erano state detenute. Alcune di loro riacquistarono la libertà solo dopo l’agosto del ‘43 perché, dopo aver scontato la pena inflitta dal Tribunale Speciale, furono inviate d’ufficio al confino di polizia, senza poter rivedere, neppure per poche ore, i propri familiari. Nel 2005  il vecchio carcere, nel centro della città, è stato chiuso, sostituito da una struttura moderna in località Capanne.

Le detenute politiche del carcere di Perugia erano tutte comuniste, tranne Marcellina Oriani, testimone di Geova. Per il loro impegno politico, per aver partecipato prima al movimento antifascista e poi alla lotta di liberazione, queste donne subirono una doppia condanna, penale e morale. L’ideale di donna fascista era casalinga parsimoniosa e ignorante fattrice, silenziosa ombra del marito e madre dei futuri soldati da offrire alla Patria. Adele Bei, quando i giudici del Tribunale Speciale le ricordarono dei due figli abbandonati in Francia, rispose:  “Non pensate alla mia famiglia. Qualcuno provvederà. Pensate invece ai milioni di bambini che per colpa vostra stanno soffrendo la fame in Italia”. Molte di queste donne affidarono  alla penna i dolorosi ricordi della loro carcerazione e hanno lasciato toccanti testimonianze su come vissero la detenzione, come seppero difendersi dalle privazioni, fisiche e morali, dei libri che riuscivano a procurarsi, tra rischi e difficoltà, delle letture comuni e delle discussioni politiche, della capacità di ricreare tra il gruppo delle politiche una parvenza di famiglia dove, a turno, una di loro assumeva il ruolo di mamma e guidava il gruppo negli studi, offriva consigli e conforto nei momenti bui in cui la disperazione prevaleva anche sull’impegno politico e morale. Il ricordo dei figli, dei mariti, dei genitori, diventava una spina nel cuore. Il dolore della perdita, della separazione dagli affetti più cari, sopportato con fierezza, in nome di quegli ideali che avevano appreso sfidando una cultura patriarcale che le condannava all’ostracismo per avere osato sfidare il regime e per aver tradito l’immagine tradizionale della donna .

Le donne antifasciste condannate dal Tribunale Speciale, in tutta Italia, dal 1927 al 1943, furono 161.

Il carcere fascista era un carcere duro e non solo per gli antifascisti. Furono circa 5.000, in gran parte comunisti, i politici che riempirono le prigioni italiane in quegli anni. I detenuti politici creavano collettivi per prepararsi ad affrontare la lotta una volta ritornati liberi, ma il loro atteggiamento non era soltanto d’attesa perché, pur nelle dure condizioni di vita, cercavano di conquistare spazi e sfruttare tutte le occasioni per mantenere i contatti con i partiti clandestini e antifascisti. Riuscivano, nonostante i rigidi controlli, ad allargare le maglie della censura e far entrare libri proibiti, a volte libri in francese, in modo da eludere il controllo oppure, con la complicità di qualche detenuto che lavorava in legatoria, sostituendo la copertina del libro proibito con quella di un romanzo.

Entrare a far parte di un collettivo in carcere, però, non era cosa semplice. Un nuovo detenuto politico veniva sottoposto a una sorta di esame da parte dei compagni, per verificare se ci si poteva fidare. Così , il nuovo arrivato raccontava di come era stato arrestato, com’era avvenuto l’interrogatorio, come s’era svolto il processo. Sulla base delle informazioni il collettivo decideva se ammettere o meno il nuovo venuto. L’esigenza di difendersi da possibili infiltrati determinava l’espulsione dal camerone del detenuto che aveva inoltrato domanda di grazia, o che aveva fornito informazioni o alla polizia o aveva dato prova di atti di viltà agli occhi del collettivo.

Nel 1931 entrò  in vigore il nuovo Regolamento carcerario, che rese le condizioni di vita dei reclusi particolarmente dure, anche per i detenuti comuni. All’atto dell’ingresso i detenuti, dopo aver fornito le generalità in matricola, venivano spogliati di ogni oggetto e indumento, rapati a zero e sottoposti a perquisizione corporale. Poi, il nuovo arrivato indossava la divisa di rozzo tessuto con il numero di matricola cucito a quattro cifre sulla giubba. Il corredo fornito dal carcere consisteva in una gavetta, un boccale, un catino e un bicchiere, un cucchiaio e una forchetta di legno, un asciugamani, uno strofinaccio, una camicia, un paio di mutande e un paio di calze, due lenzuola, una coperta rattoppata. Le celle erano occupate da più persone, arredate  con un pancaccio e un bugliolo appena nascosto da un telo di sacco. Le cimici infestavano i materassi che, di tanto in tanto, venivano bonificati dal lanciafiamme dello scopino.

Il carcere femminile di Perugia era considerato il più duro tra le tre case penali esistenti. Le detenute politiche vivevano quasi segregate in celle singole e si riunivano per brevi periodi della giornata, durante le poche ore di socialità, per i pasti, per le ore d’aria e nell’ora concessa per poter scrivere le lettere. In questi momenti erano sorvegliate da una suora carceriera. In questi incontri, attesi e vissuti con ansia, le detenute cercavano di sfruttare ogni momento per scambiarsi riflessioni sulle letture fatte, per rafforzare e mantenere vivo lo spirito di lotta che le faceva sentire unite ai compagni di lotta che vivevano in clandestinità, ma liberi e ai quali speravano di potersi ricongiungersi per continuare insieme la lotta. Le condizioni di vita erano insopportabili, il gelo dell’inverno, ricorderà Vera Ciceri Invernizzi, operaia metallurgica, comunista, condannata a otto anni dal Tribunale Speciale per attività antifascista, era tale “che al mattino sull’acqua della bacinella c’era uno strato di ghiaccio”, ma d’estate il tormento era dato dall’afa e dalla mancanza d’aria e, per trovare refrigerio, le donne si stendevano sul ruvido pavimento della cella. Il pasto era rappresentato da una pagnotta, una gavetta di zuppa e acqua, la domenica ricevevano un pezzo di carne “dura come un mulo”. In occasione delle feste del regime, il 21 aprile e il 28 ottobre, e nelle feste religiose, le autorità concedevano pastasciutta e l’autorizzazione a ricevere un pacco da casa. Le feste del regime, però, erano occasione di scontro tra la direzione e le detenute politiche che rifiutavano di partecipare ai festeggiamenti e per il loro rifiuto subivano sanzioni durissime. Racconta Adele Bei: “era il 28 ottobre 1928 e le suore, con distintivo appuntato sul petto e gagliardetto al vento, guidavano un gruppo di detenute che facevano sfilare sotto le finestre delle politiche, cantando Giovinezza e All’Arme siam fascisti e gridando abbasso le comuniste. Finita la manifestazione, Suor Romualda, che capeggiava il gruppo, va dalle politiche che erano riunite nella cella comune, per annunciare che per onorare i festeggiamenti non sarebbero rientrate nelle celle. Al rifiuto delle detenute di beneficiare di quella concessione, perché non aderivano ai festeggiamenti, la suora andò via sbattendo la porta. Il giorno il direttore chiamò le politiche una per volta e ad ognuna annunciò che sarebbero rimaste chiuse per otto giorni e messe a pane e acqua. Ritornarono insieme il 9 novembre, ma “festeggiammo lo stesso il 7 novembre al canto di Bandiera Rossa e dell’Internazionale”.

Un’altra atrocità era rappresentata dall’uso del letto di forza, utilizzato come strumento di punizione, è ancora Adele Bei che descrive una scena cui assiste in un momento in cui sfugge alla sorveglianza della suora guardiana: “Passeggiavo nel cortile durante l’ora d’aria, ero sola perché la suora addetta alla mia sorveglianza si era allontanata un momento, quando sentii un fievole lamento che usciva da una porticina  che dava sul corridoio delle celle di punizione. Mi affacciai svelta, perché mi era stato severamente proibito parlare con le comuni, ed ebbi il tempo di vedere, nel mezzo di una di quelle luride celle, un quadrato di ferro fissato nel pavimento munito di un pagliericcio sopra il quale stava distesa una povera donna legata come un cristo in croce. Con un lamento simile al rantolo di coloro che hanno pochi momenti da vivere, chiedeva aiuto. Era legata con grosse cinghie che somigliavano tanto ai finimenti di una bestia da soma. Una cinghia legava le braccia tese, una al collo e una ai piedi, da renderla immobile. Sollevò appena la testa e mi disse “così ci fanno morire a noi povere carcerate”. Durante i molti anni trascorsi in quel triste luogo ebbi tempo e modo di sperimentare di persona e studiare a fondo la vita delle detenute. Questo anche perché la nostra idea ha per fondamento la creazione di una società nuova, non solo priva di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma composta di persone migliori, animate da sentimenti umani, soprattutto verso coloro che soffrono>>.

La lapide posta sul muro di cinta del vecchio carcere di Perugia ricorda il sacrificio di queste donne e contiene un monito e un insegnamento per le generazioni future: SACRIFICANDO LIBERTA’ E AFFETTI / LE CONDANNATE DAL TRIBUNALE SPECIALE / QUI RINSERRATE / NEL GELIDO SILENZIO DI QUESTE MURA TENEBROSE / CONTRIBUIRONO A RICONQUISTARE ALL’ITALIA / CONTRO L’ODIOSA DITTATURA FASCISTA / DEMOCRAZIA E INDIPENDENZA / ASSICURANDO INSIEME ALLE SUE DONNNE / BUON TITOLO ALLA PARITA’ DEI DIRITTI / DA SEMPRE LORO NEGATA / PER SUSSEGUIRSI DI EPOCHE E DI CIVILTA’ / I CITTADINI DEMOCRATICI DI PERUGIA / RICONOSCENTI / NE AFFIDARONO LA MEMORIA E L’INSEGNAMENTO / ALLE GIOVANI GENERAZIONI.

 

La prigione che abitiamo

di Susi Borzacchiello

Riflessioni sul mondo della giustizia e del carcere


Una volta ascoltai un noto psicoanalista parlare di carcere. Mi colpirono le sue parole quando affermò che ognuno di noi, se potesse, trasformerebbe il mondo in un’unica prigione, per rinchiudervi tutti tranne sé stesso. In questo modo salverebbe sé stesso dal pericolo rappresentato dall’altro, un pericolo simbolico posto alla propria libertà. Restando sul tema, l’inconscio freudiano, quella parte “sorvegliata” dal grande custode “Super-io”, il luogo dove nascondiamo e teniamo sotto chiave pensieri, istinti, pulsioni, desideri che ci imbarazzano e riteniamo riprovevoli, rimanda proprio alla metafora della prigione. Ma dalla prigione si cerca di evadere perché è il luogo che priva della libertà, e quindi anche l’inconscio evade, evade con i sogni e con i contenuti simbolici che essi ci restituiscono al mattino. Non tutti però ricordano i sogni e c’è chi è pronto a giurare che non sogna, che le sue notti siano assenza di coscienza e basta. Ma è proprio così?

Il carcere è un luogo simbolico, dunque, che ci “salva” dal riconoscere la parte più nascosta di noi, perché poi quella parte occorre saperla accoglierla, interrogarla, incamminarsi in un percorso di autoconoscenza, anche senza l’aiuto dello psicanalista, che ci affranca dalla paura di vivere, dal dolore sordo che sembra non avere un perché, che si nutre della sensazione di sentirsi il bersaglio della cattiveria degli altri: tutti colpevoli tranne me stesso. Salvarsi da questo punto di vista è il primo passo verso la libertà, assumendosi la responsabilità di ciò che si è e di ciò che si fa, partendo dal qui e ora, con la consapevolezza che il passato non si cambia, crediamo o meno nel destino e nell’ineluttabilità di ciò che è stato. Invece è più rassicurante riprodurre schemi di comportamento antichi e non ci sforziamo di vedere oltre quella prigione in cui ci siamo incatenati anziché proiettare la nostra esistenza liberi dalle catene che noi stessi contribuiamo a stringere intorno a noi.

Il mito platonico della caverna ci viene in aiuto per comprendere quanto siano potenti le tenebre che ci impediscono di vedere la forma reale delle cose, attribuendo alle ombre che si proiettano sui muri il significato di oggetti reali. I prigionieri della caverna platonica vivono al buio, volgono le spalle all’ingresso. Dietro di loro, all’esterno, arde un grande fuoco che proietta sul muro le ombre di uomini che trasportano oggetti lungo una strada posta tra il fuoco e le loro spalle. Platone racconta cosa potrebbe accadere se uno di loro venisse liberato dalle catene e, in piedi, potesse volgere lo sguardo verso l’esterno. I suoi occhi rimarrebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. L’abitudine a guardare le ombre, scambiandole per forme reali, lo condurrebbe a pensare che le ombre che guarda all’esterno siano meno reali di quelle che è abituato a guardare sul muro della caverna. Se poi il prigioniero potesse uscire all’esterno, la luce diretta del sole lo accecherebbe e non riuscirebbe comunque a vedere la realtà, anzi, proverebbe irritazione per essere stato costretto ad abbandonare il buio della caverna. Il prigioniero avrebbe bisogno di tempo per abituarsi a distinguere le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua e solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti. Il processo di conoscenza, anche se lento e doloroso, lo porterebbe a volgere di notte lo sguardo al cielo e ammirare i corpi celesti con maggiore facilità che di giorno. Ecco infine che il prigioniero, oramai liberato dalle tenebre, potrebbe vedere il sole e non il suo riflesso nell'acqua e vorrebbe ritornare nella caverna e liberare i suoi compagni, ma prima dovrebbe convincerli di ciò che aveva visto. Il ritorno dalla luce alla tenebre porrebbe però il problema inverso, dovrebbe cioè riabituare gli occhi al buio per ritornare a guardare il fondo della caverna. In questo spazio di tempo sarebbe oggetto di scherno da parte dei suoi compagni convinti che il tempo passato all’esterno della caverna gli abbia procurato danni agli occhi. Il momentaneo riadattamento alle ombre della caverna lo esporrebbe anche a un rischio maggiore, perché impiegherebbe del tempo a convincerli e se tentasse di liberarli e portarli alla luce, i compagni, convinti che il dolore provocato dalla luce diretta sia insopportabile, piuttosto lo ucciderebbero per non sottoporre i loro occhi allo stesso dolore. Ecco il dialogo tra Socrate e Glaucone riportato nel libro vii del dialogo “La Repubblica”: «E considera anche questo», aggiunsi: «se quell'uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all'improvviso dal sole?» «Certamente», rispose. «E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l'abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?» «E come!», esclamò. «Questa similitudine», proseguii, «caro Glaucone, dev'essere interamente applicata a quanto detto prima: il mondo che ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere, la luce del fuoco che qui risplende all'azione del sole; se poi consideri la salita e la contemplazione delle realtà superiori come l'ascesa dell'anima verso il mondo intellegibile non ti discosterai molto dalla mia opinione, dal momento che desideri conoscerla>>.

 

Avrei dovuto inaugurare questo spazio nella Stanza di Virginia parlando di carcere reale, il luogo dove si eseguono misure restrittive proporzionate al reato commesso, carcere come luogo di punizione e come luogo di risocializzazione, secondo il principio dettato dall’art. 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’inconscio forse mi ha guidato e mi ha fatto scrivere della prigione come luogo simbolico, come metafora dell’esistenza ancor prima che come luogo di detenzione. Forse perché la dimensione del carcere reale e dell’umanità dolente che lo abita è invisibile a noi prigionieri senza catene. Su di esso agisce una rimozione collettiva che fa volgere lo sguardo lontano dai muri e dalle sbarre, che ci fa chiudere gli occhi come il prigioniero della caverna quando incontra la luce della conoscenza, proprio come l’inconscio che censura ciò che provoca imbarazzo e disagio.

 

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