Attualità

Cara Maestra

di Silvia Rosati

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Una lettera che diventa lo spunto per riflessioni esistenziali in cui l'età adulta diventa come una lama di rasoio, che incide, scarnifica, toglie il disincanto ma allo stesso tempo regala doni preziosi...

 

Cara Maestra,

Ricordo quando, da bambina, mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande. A scuola per esempio, quando lei chiedeva a noi bambini quali fossero le nostre aspirazioni. Ricordo quella sensazione di disagio che cresceva quando il suo sguardo mi suggeriva che stava per avvicinarsi il mio turno per rispondere: arrossivo, non sapevo cosa dire. C’era chi dava risposte estrose che non si sono mai verificate. Ma erano risposte chiare, date con quella determinazione che contraddistingue un bambino di sei anni che vuole fare il veterinario per poter curare le tartarughe marine alle Galapagos. Io arrossivo, ma non perché mi vergognavo di non sapere cosa fare nella vita, ma perché tutti rispondevano a quella domanda e lei commentava più o meno compiaciuta le loro risposte. E io non sapevo dire altro che “non lo so”, risposta che lei riteneva non fosse una risposta. Certo, non designava nulla di concreto, ma era pur sempre una risposta. Ma lei non tollerava la mia incertezza; io non capivo la sua intolleranza.

Vent’anni dopo la situazione apparentemente non è cambiata. Ma per me la differenza sostanziale è che adesso non arrossisco più davanti all’incertezza del futuro. Sì, spesso credo che avere delle ambizioni chiare e adoperarsi affinché si realizzino sia più semplice da concepire. Pensare di avere un obiettivo, per quanto possa essere difficile raggiungerlo, credo sia più facile da “sopportare”; mentre pensare di non avere particolari ambizioni dà una sensazione di smarrimento talvolta, come se tutto fosse vuoto e necessitasse di un senso pratico che io, però, non so trovare. È come se fossi insofferente verso questo problema al punto da non considerarlo neanche un problema personale ma, ciò nonostante, ne avverto il peso che mi opprime, che mi angoscia, come avessi timore di sprecare il tempo e di non saper vivere facendo affidamento solo su me stessa, paura di non poter essere indipendente come, invece, mi auguro. Come se fossi travolta da una sorta di nausea, se mi permette il riferimento a Sartre. Ma poi penso che, sebbene non proprio le stesse, queste siano preoccupazioni condivise anche da chi persegue un obiettivo e dedica la propria vita per poterlo raggiungere, che “fanno parte della vita”, dunque mi rassereno e riprendo le mie riflessioni tra un sorso di caffè e qualche pagina di Pirandello.

Il punto è che viviamo in un mondo-sistema che non prevede l’incertezza come condizione. È come se avere uno scopo debba essere il nostro imperativo categorico; essere utili, adoperarsi per qualcosa, essere padroni di idee chiare da concretizzare. Come se solo questo potesse farci sentire appagati e realizzati. Ma è davvero sicura che sia così per tutti? O meglio, è sicura che sia giusto che debba essere così per tutti? C’è questa tendenza più o meno consapevole all’adattamento, allo “stare al passo con i tempi” e tra le tante abitudini che si possono annoverare a mo’ di esempio, credo ci sia anche l’inclinazione ad avere delle aspirazioni, a sapere cosa fare della propria vita. È come se ci si prefissasse di essere inquadrati in uno schema chiuso che guarda al futuro muovendo solo da se stesso sulla base delle sue regole inconfutabili. Non intendo dire che sia sbagliato porsi all’interno di un progetto simile, purché sia una scelta personale e consapevole. La questione che spesso si presta alla mia riflessione è che io non mi riconosco in questo schema. Anzi, quando mi sorprendo a osservare la maggior parte delle persone che ritrovo attorno a me, non ne capisco l’agire. O meglio, non capisco come le persone facciano ad essere felici, soddisfatte di quella meccanicità dei movimenti, dei loro giorni.

“Come mi sento distante da loro, dall’alto di questa collina. Mi sembra d’appartenere ad un’altra specie. Escono dagli uffici, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un’aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una «bella città borghese». Non hanno paura, si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l’acqua addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l’interruttore, che gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali. Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle sedici d’inverno, e alle diciotto d’estate, il piombo fonde a 335° gradi, l’ultimo tram parte dal Municipio alle ventitré e cinque. Son pacifici, un po’ melanconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro oggi; le città non dispongono che d’una sola giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina.”

Non mi riconosco in questo pensiero di Sartre per stravaganza o brama di originalità, ma semplicemente perché per me questo modo di vivere meccanico, che tende alla ripetizione di cose affinché diventino necessarie all’esistenza, preclude l’incertezza.

“L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente.”

Afferro questo concetto di contingenza e lo modello fino a disporne come apertura alle innumerevoli possibilità dell’esistenza. Mi piace pensare che, rifuggendo dalla smania di necessità, si possa cambiare idea, rinnovarsi, sperimentare cose nuove, condividere opinioni per poi modificarle e creare interrogativi che forse non avranno risvolti pratici, ma che potrebbero renderci fieri e appagati di ciò che pensiamo e di come lo pensiamo.

Ha mai ascoltato un pezzo di musica jazz? Si è mai soffermata a riflettere sull’ improvvisazione che ne è propria? L’improvvisazione produce musica in armonia con il resto del pezzo ma nel contempo spicca, forgia il carattere del pezzo stesso. Ha un ruolo rilevante sebbene non sia qualcosa di premeditato, di costruito. Non è nello spartito, eppure lo abbellisce e lo rende unico. Credo che l’improvvisazione sia un elemento necessario anche alla vita quotidiana e per me ciò è possibile grazie all’abbraccio di possibilità che ci mettono alla prova, che ci fanno fare esperienza dei nostri limiti facendoci capire che cambiare prospettiva serva a intendere i nostri pensieri come multiformi. Bendisporsi alla possibilità, alla modifica delle idee, è momento di arricchimento che ci modifica intimamente e ci rende consapevoli di essere unici e molteplici.

Tutto ciò per dirle, signora Maestra, che non sempre è necessario creare delle regole per poter realizzare qualcosa o realizzarsi. A volte si può essere soddisfatti anche solo per aver concepito dei pensieri che ci fanno vivere in armonia con noi stessi, che ci fanno essere fieri di noi anche se non abbiamo un lavoro o non abbiamo alcun titolo che possa etichettarci. Anche se solo per un attimo, anche se poi torna la sensazione di smarrimento che sta lì, sopita, ad aspettare la ricaduta nella meccanicità della vita da cui, passivamente, ci lasciamo condizionare. Sono pensieri che ci lasciano fluttuare, che ci distaccano dalla vita quotidiana e spesso questi sono pensieri derivanti proprio da tutti quei “non lo so” che abbiamo spesso usato come risposta e che come tale non sono stati accettati.

 

Il tesoro tra le mani

di Francesca Girardi

Come faremmo senza i libri? Che sono una sorta di "vita nella vita", una specie di doppia esistenza che, come in un gioco di specchi e rimandi, rimbalza tra carne e carta...

 

I libri, che mondo nel mondo.

Una dedica al caro libro, un oggetto che può apparire statico ma in realtà, prende vita.

Come?

Nel modo in cui lo si comprende…

Andare in libreria! Che bella avventura, e non esagero.

Che si tratti di una “storica” libreria di paese o di una libreria in franchising, credo sia com’essere alla ricerca di un tesoro.

girardiMentirei se negassi che l’atmosfera calda, un po’ retrò, di una piccola libreria gestita ancora in maniera, come posso dire… artigianale, non abbia del fascino di per sé. Magari guardandola anche solo dall’esterno, attraverso le vetrine, è già in grado di svelare il valore del suo contenuto. Anche una libreria che appartiene a una grande catena racchiude la stessa virtù, ma l’esprime magari in maniera più esaltante, d’effetto.

I libri sono pur sempre portatori di tesori, sia che si trovino su uno scaffale impolverato, oppure su una mensola ultramoderna e, perché no, in mostra all’aria aperta, su una bancarella di mercato.

E mi piace utilizzare la parola tesori perché credo che chi si appresta alla lettura di un testo, si leghi ad esso in maniera molto personale; non è detto che chi sperimenta la stessa lettura possa poi cogliere e condividere gli stessi significati o esser stato catturato dalle stesse parti.

È come avere in mano una bussola: siamo poi noi a decidere in quale direzione andare.

Talvolta mi chiedo se quando entriamo in libreria, entriamo per cercare il libro o è il libro che attende di essere scoperto…

 

Eccoli, son lì!

In fila, dritti sulle loro schiene: qualcuno è più alto, qualcuno più basso e sì!

Ce ne sono di diverse misure: snelli, cicciotti, alti, piccoli oppure ancora più piccoli.

Tutti son sempre osservati, scorsi con lo sguardo, talvolta lasciati lì, a riposare, per lasciare che l’occhio di qualcun altro ne sia attratto.

Alcuni sono spesso richiesti ancora prima di essere notati. Altri, invece, proprio perché in disparte, attirano maggiormente l’attenzione.

Pochi rimangono fermi nella stessa posizione.

Può capitare che per un po’ si sentano abbandonati, ma poi anche per loro arriverà il momento.

Tutti viaggeranno e vedranno posti diversi, si accomoderanno in luoghi ameni, divertenti oppure tristi, malinconici ed è proprio qui che, magari,

saranno riferimento silenzioso o compagno di avventure.

Profumeranno di emozioni, momenti e sensazioni uniche. Rallegreranno le ore, terranno compagnia quando la solitudine sarà l’unica presenza.

Forse passeranno di casa in casa, di mano in mano oppure, pur restando nello stesso posto, sempre dritti in compagnia di altre schiene dritte, saranno mostrati per quel ‘quid’ particolare che contengono.

Potran essere doni delicati e portatori di dediche e messaggi.

Ma potranno anche non essere ben’accetti e restare incompresi: non abbiate paura, prima o poi, qualcuno si accorgerà di loro e riscopriranno d’esser vivi…

Le cose da fare

di Anna Bertini

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A volte vorremmo fermare il mondo e scendere da questa giostra vorticosa, incessante.

Un monologo dal ritmo veloce, come questa vita che non ci dà tregua...

 

Ci sono molte cose da fare, troppe. Bisogna lavare il viso, lavare i segni, il malessere.

Molte cose da fare, a volte non ce la si fa, viene proprio da arrendersi.

Prima che rientrino i bambini, togliere il rossore del pianto, alzare il collo che sento spezzato:

- Dove sei mamma cigno dove sei cosa ti hanno fatto? Sono qui! No, no, non devono trovarmi così.

Sento un vortice tra le ossa e l’animo, è profondo, mi ci perdo. Fa più male delle botte, devo provare a non caderci dentro. Sono umiliata, ho i pensieri cancellati. Com’è successo, perché? Cosa ho detto? Cosa ho fatto per meritarlo? Non lo so.

Sono di cartapesta, devo riprendere le forze, mettermi in piedi, provare a camminare senza sembrare un burattino con i fili intrigati. Ci sono cose da fare: tirare giù il vestito, vedere se le calze sono rotte, riavvolgere il nastro, togliere quel grido dalle orecchie:

- Sei un nulla, posso averti quando voglio!

Togliere quel grido dalle orecchie:

- Chi credi di essere?

Toglierlo, riavvolgere il nastro:

- Ti faccio vedere io!

Devo alzarmi da qui, ci sono cose da fare, i bambini torneranno da scuola, non possono trovarmi spersa, così diversa: devono trovare il mio sorriso, devono trovarmi che profumo del loro dolce preferito.

Alzarmi da terra, raddrizzare lo sguardo, bisogna avere coraggio, sentire l’energia, non avere paura, forse avere pietà e pena; pietà di te stessa, pena di chi ti ha offesa.

- Mamma hai qualcosa, cosa è successo?

Oh devo cancellare tutto, questo livido dal polso, le botte sulle gambe, i graffi sul viso, i segni di quel veleno. Ho paura che lui, il cuore, si secchi. Che si freddi, che si fermi. Non voglio sentire più niente, fate silenzio ronzii nelle orecchie, colpi dentro al petto. Vorrei restare qui, diluita nella paura, perché qualcuno veda, perché qualcuno creda.

Stanno tornando i bambini, mi laverò il viso, tolgo i vestiti stropicciati, sporchi di disagio, metto il sorriso, il migliore che trovo, il migliore per loro.

Devo volermi bene, devo credere, guardarmi allo specchio, mettere un po’ di cipria, fare un po’ di trucco. Si stupiranno, non lo indosso mai:

- Mamma ti sei fatta bella per uscire? No, tesoro, mi sono fatta bella per te. Per sopravvivere, mi sono lavata via il dolore e ho messo una tenerezza, è quella di quando ti tengo vicino, ti piace?

Ci sono cose da fare, ritrovare il domani, ritrovare se stessi, ritrovare il motivo per cui si è amato ed era giusto, e si è dato la vita, e c’è onore nel legame del ventre, nell’averlo creduto per sempre.

Ci sono cose da fare, mi alzo in piedi, piano riparto: è una specie di domani, stanno arrivando i bambini. Sì, era tutto ieri, ed ora, è già domani, siamo già lontani.

 

 

 

Monologo scritto e interpretato da Annalisa Insardà per la serata di premiazione del primo Concorso Letterario Natale Patti - Sogni e realtà; la violenza sulla donna, e musicato dal Maestro Alberto Maniaci.