Editoriale

I giorni dell'ocra e del blu - Diario di un viaggio in Marocco

di Francesca Pacini

MaroccoDi solito, quando viaggio, scrivo subito, appena rientrata. Stavolta non ce l’ho fatta.

Non ce l’ho fatta perché è difficile, perché le parole non riescono a dire, non riescono a contenere la scintillante meraviglia di quei colori, quei suoni, quegli odori. Ancora oggi, dopo mesi, le immagini faticano ad arrivare sulla punta dei pensieri per essere catturate, tradotte, traslocate nei confini della materia parlata e pensata. E ti rendi conto del limite. Le parole non ti portano sempre dove vuoi. A volte ti lasciano a piedi, come una macchina vecchia.

E io, io sono rimasta qui, in mezzo alla strada, a corto di vocaboli, consonanti e punti. Provo a fare l’autostop. Oppure mi fermo sul ciglio, con i pensieri arruffati, e ci provo.

E penso  che, alla fine,  a volte è bello non riuscire a raccontare.

Ci sono luoghi in cui, davvero, a parlare è solo la solenne, magnifica voce del posto. Ed è una voce che viaggia sul vento, che si appoggia sui raggi del sole e li canta, uno a uno, che si infila in una finestra aperta, di  notte, per guardare chi dorme.

Questa voce, in Marocco, danza anche con gli odori, si mescola ai profumi forti che di giorno ti attraversano, ti invadono come un ricordo inatteso, e percorre i souk, sorridendo ai turisti in difficoltà che tentano di schivare il ragazzino che li bracca, li marca, si incolla al loro sudore per venirne fuori con qualche moneta. E poi si incastra, per un attimo, nelle sciarpe indaco appese ai fili, all’interno di vicoli irraggiungibili, accarezza la magia di quel colore magico, misterioso, e poi corre via, corre sulla voce del muezzin che chiama alla preghiera arrivando lontano lontano, in posti che davvero solo l’orecchio di Dio può ascoltare.

Poi arriva sulla piazza di Marrakech, ebbra di colori e di suoni, di quella corte dei miracoli, sgangherata e piena dei cromatismi più audaci, vociferante, urlante, aggressiva. Un’umanità allegra e allo stesso tempo dolente, carica di tutto il peso e di tutta la leggerezza del mondo.

E si ferma, questa voce, si ferma ad ascoltare il dolore della scimmietta incatenata, offesa, umiliata da quel pannolone che vorrebbe farla somigliare a una bambina mentre lei, figlia di terre libere e selvagge, non ha più padre né madre, esposta ai crudeli click delle macchine fotografiche che se la portano a casa come un trofeo, mentre con i suoi occhietti tristi afferra il collare che la strozza e fissa un  padrone indifferente. Indifferente alla sua malinconia, al suo stordimento sotto il sole cocente sostituito, verso sera, dai tanti piccoli soli dei flash che si accaniscono sul suo corpicino.

Che strazio. E la voce lo sa. Lo conosce. Come conosce bene la sofferenza di ogni animale di Marrakech. Dei suoi gatti senza ventre e dei suoi asini sdentati, con gli occhi sbarrati per la sete mentre trottano in giro trasportando turisti obesi e sbattendo gli uni contro gli altri.

Non c’è spazio per la pietà, qui.

Gli occhi degli abitanti di Marrakech sono liquidi, ci scivoli dentro ma non anneghi perché non sono oceani ma pozzanghere. Sguardi obliqui, che non ti trafiggono ma passano oltre, come se tu fossi aria e non carne.

Non sono occhi buoni. Forse, non sono neanche cattivi. Di sicuro, sono furbi, sono occhi che sanno della vita e di come spremerla, succhiarne il midollo, prendere i pezzi del sole al mattino e catturare le stelle ogni notte per spremerne via tutta la polpa di luce.

Qui la vita è magia e crudeltà, incanto e orrore, e si rinnova, ogni giorno, con il canto del muezzin all’alba.

Marrakech si perde nel vociare dei suk, nel sudore degli artigiani, negli uomini che ti artigliano un braccio per portarti nel loro negozio mentre tu, braccata come una preda, ti difendi allo stremo ma sai che loro, di nuovo, sono più forti, hanno quell’ostinazione implacabile che fa del loro commercio una croce, un tormento per chi ama solo guardare, sfiorare gli oggetti e portarne il ricordo altrove. Comprare, barattare diventa quasi un atto violento, come violento è il sole di mezzogiorno. C’è qualcosa di crudo, di aspro, in quella contrattazione interminabile in cui loro ridono, si divertono mentre tu, sfinita, cerchi la cosa meno costosa pur di andartene e farli contenti.

Trattare, per loro, è un gioco. Ma per un occidentale diventa un braccio di ferro, una lotta straniante. Noi siamo abituati a conoscere il valore monetario di un oggetto, scegliere, andare via. Nei souk invece l’eterno gioco diventa sorrisi, tè, domande e risposte che inseguono nuove domande.

C’è gentilezza. Ma è una gentilezza commerciale. Un sorriso che ha sempre uno scopo in agguato, una bocca aperta su denti che vogliono prendere, non elargire.

E questo ti fa sentire sola, molto sola. Ma ti dà anche forza, e ti spinge oltre i limiti della consueta confidenza in questo gioco straniero.

E se a Marrakech ti perdi sempre, ti perdi e alla fine ti trovi, torni sempre alla grande piazza che è un po’ come il tuo nord interiore, appena fuori dalla città è tutta una celebrazione cromatica di spazi dipinti fra l’azzurro del cielo e l’ocra delle colline, in cui sfilano fiori di mille colori e l’erba verde di boschi irreali, quasi fossero quadri appena finiti.

E a bocca aperta, respiri stupori e incantamenti fino ad arrivare lì, alle porte del deserto, in cui nulla assomiglia più a nulla. C’è solo il vento che soffia, quel vento che qui mormora di cose lontane e vicine, di nomadi e mistici, viaggiatori solitari e carovane, berberi con le loro belle canzoni antiche e i loro occhi che pungono. Sono diversi, i berberi. Hanno occhi profondi che si dilatano sull’infinito, e la loro faccia scura che narra di misteri remoti, di tende di stelle e di sabbia, di notti che si accendono sulla vita illuminandola con un arcano sapere, che viene dal primo dei giorni.

E tutto intorno il rosso e l’ocra. Silenzio e colore. Perduto, per sempre, nell’attimo in cui ti sembra di infilarti nell’eternità. E’ solo un attimo, e vola via rincorso da vento.

Ma si fissa, per sempre.

Come fa Marrakech, come fa il Marocco. Stanno lì, nel futuro dei giorni. E sanno che non ti non lasceranno. Non ti lasceranno mai più.

 

Istanbul

di Francesca Pacini

istanbulCosì sono tornata a cercarti.  Come si fa quando ti  rimane in bocca un sapore sospeso, incompiuto.

E ho capito che tu sei un po’ come me, Istanbul. Mi assomigli. Sei terra di frontiera, incrocio di venti, di culture, di tradizioni. Sei in un bivio perenne, sempre divisa fra un oriente mai dimenticato e un occidente adorato, di cui sei invaghita per la vita bella e le promesse di lusso e  divertimento e luccichii. Eppure non riesci a scordarti il silenzio bello dei tuoi vicoli antichi, con le donne immerse nei loro veli e il kajal che disegna il mistero di due occhi che >>>

L'articolo intero si trova sul sito www.lamiaistanbul.com

Una stanza tutta per noi

di Francesca Pacini

 

Finalmente.

Finalmente il numero zero vede la luce. Non è stato facile. Quando si decide di fare una rivista gratuita, e si lavora (per fortuna) tanto, bisogna sacrificare i sabati e le domeniche, per non citare le sere, quando vorresti invece sprofondare sul divano e dimenticare tutto, dimenticarti perfino chi sei (o chi supponi di essere: il dubbio non dovrebbe mancare mai, nella vita).

Ma ne vale la pena. Ne vale la pena soprattutto quando, mesi prima, apri una pagina su Facebook dove cominci a immettere i primi “vagiti” di quella che diventerà poi la rivista. Crei una stanza virtuale in cui getti, timidi, i primi semini. Si tratta di idee, riflessioni, sensazioni. E subito, subito ricevi una risposta immediata, e la tua stanza diventa un luogo accogliente perché scopri che non sei sola, che là fuori ci sono tante altre persone che, come te, sono stanche di un Paese e di una realtà che hanno perso senso e direzione.

 

Incontri tante donne che non si riconoscono nelle veline e nei Bunga Bunga, ma che non vogliono neanche rimanere infilate nel femminismo più estremo, arido, esibito. E incroci, man mano, anche uomini che ti tendono la mano con la loro sensibilità, la loro voglia di impegnarsi, di dialogare. Incontri preziosi che hanno animato La Stanza prima ancora che diventasse rivista.

Piccole discussioni, dibattiti a volte più accesi, che dimostrano un’evidenza che diventa anche speranza: c’è ancora gente che pensa, che ha voglia di impegnarsi, di raccontare, di capire.

Si trova al di là del muro acefalo nel quale sbattiamo ogni giorno, quello che ci vuole figli dell’ignoranza, che ci vuole infilati nel gregge, chiusi nei nostri bei recinti a vivere la vita che altri hanno tracciato per noi, resi isterici dalla competizione e dall’ansia di apparire, ovunque, comunque.

Al di qua del muro, invece, esiste una “zona franca” in cui si incontra chi resiste, ogni giorno, alla violenza – a volte visibile, a volte meno- a cui siamo costretti.

Una Stanza. Una stanza tutta per noi. Per me. Per voi. Ho sempre amato Virginia Woolf, l’ho amata in modo totale, viscerale. Mi ha sempre ispirato, guidato. Nei suoi scritti ho trovato la passione, la partecipazione, il non volersi piegare alle regole imposte da altri. E, come lei, come molti di noi, fin da piccola ho avuto la mia Stanza. Poi, a un certo punto, ho deciso di condividerla con gli altri. Perché è bello avere una Stanza tutta per sé, ma è ancora più bello il contatto, la relazione che da una Stanza parte e a una Stanza torna, arricchita.

Di cosa si occupa La Stanza? Cerca di andare al di là del banale, di raccontare la cultura, la società, le cose che accadono e che stimolano riflessioni. C’è molta cultura, si parla e si scrive di letteratura, certo. Ma La Stanza si interessa anche delle persone, delle loro vite, dei fatti che possono fermarci a pensare.

Ovviamente, non posso fare La Stanza tutta da sola. Ho bisogno di voi, delle vostre Stanze, delle vostre scritture. Del vostro cuore e le vostro cervello. Perché oggi sono i grandi assenti.

Senza amore, senza partecipazione reale, sentita, non si va da nessuna parte, mai. Forse è per questo che assistiamo a un progressivo sfacelo. Ma non dobbiamo mai dare la colpa all’esterno se prima non siamo stati spietati, davvero spietati, con noi stessi.

Cosa possiamo fare, noi? Possiamo partire da noi. Possiamo cominciare da una semplice Stanza.

 

 

In appendice ripubblico un omaggio a Virginia Woolf, postato, qualche anno fa, nel mio blog:

 

Come una nuvola sulle onde

 

La vita, insomma, è molto solida o molto instabile?

Sono ossessionata da questa contraddizione. Dura da sempre, durerà sempre, affonda giù fino alle radici del mondo, quest'attimo in cui vivo. Ed è anche transitorio, fuggevole, diafano.

Passerò come una nuvola sulle onde.

 

(Virginia Woolf, Diario di una scrittrice)

 

 

Se l'esistenza di Virginia è passata come una nuvola sulle onde, le sue parole si sono invece fissate sulla carta per sempre.

Sono lì, a nostra disposizione. Meravigliose parole che raccontano storie (nelle quali lei rifletteva parti di sè, che avevano il suo nome, le sue paure, i suoi desideri), si fanno inchiostro per dare corpo a riflessioni mai stupide, mai banali.

Donna intelligente, Virginia. Troppo. E fragile, fragilissima. Quando la depressione la aggrediva sbatteva le sue ali di dolore tutto intorno, come una farfalla davanti alla luce della lampada.
Ma è proprio dalla consapevolezza di questa meravigliosa, terrifica precarietà che spuntò il faro (già, il faro) luminoso che guidava la sua scrittura nei sentieri tortuosi dell'anima.
Un'anima complessa, la sua, appoggiata su una fragilità estrema in cui però lei osava guardare l'abisso profondo di sè.

Ci entrava dentro fino a soffocare, talvolta. La sensibilità si tendeva fino agli estremi dell'universo mentre la pelle respirava dolore.

Ma non fuggiva.
Si attardava in quell'abisso in cui incontrava i mostri ma attingeva anche ai tesori.

Laggiù, dentro di sé, la vita perdeva consistenza e diventava quell'alone luminoso di cui più volte parlò.
E tuttavia senza consistenza non c'è più Terra, solidità. Volare o precipitare dipendono solo dalla forza di sopportare la visione di sè.

Virginia volò. E poi precipitò. Affogò. Scelse di affogare. E magari passò sulle teste degli uomini che invano la cercavano, quel giorno, nel fiume. Invisibile, finalmente libera, passò come una nuvola sulle onde.

 

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Jessica Ferro è nata a Foligno nel 1981 e risiede a Perugia, dove nel 2008 si è laureata in Tecnica Pubblicitaria...Read more >>
Torinese, classe 1968, lavora come bibliotecaria, è giornalista presso diversi giornali on line e cartacei,...Read more >>
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Jacopo Granci, Città di Castello 1984. Dottorando all'Università di Montpellier con una tesi sul movimento...Read more >>
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