Il relitto interiore e letterario
di Marina Brunetti
Un'indagine sui naufragi dell'anima, dentro e fuori le pagine dei libri. Perché i viaggi, alla fine, si somigliano tutti. E a volte si parte per non tornare, altre volte si rimane indietro, incastrati qua e là...
I viaggi terminano,
gli uomini muoiono
le storie vengono dimenticate
e le navi, pure quelle,
in un modo o nell’altro
se ne vanno.
Così alla fine restano
solamente i relitti.
(Alberto Cavanna)
Quante volte, nel corso della propria esistenza, si è fortunate vittime di una folgorazione? Pochissime, invero. Quando ci soffermiamo a immaginare, più difficilmente descrivere, il nostro luogo principe, quello in cui vorremmo vivere, o almeno trascorrere il miglior periodo della nostra vita terrena, il più delle volte non riusciamo a fissarne i particolari, ché spesso cambiano, mutano i colori, la quantità di gente di contorno, le sensazioni che trasmette a pelle.
Càpita, tuttavia, di trovare degli angoli di terra mirabilmente compiuti che incontrano le nostre corde interiori, degli scampoli di sabbia e roccia misti a cielo terso, su cui vorremmo adagiare “le nostre stanche membra”: e in mezzo a questi lasciarsi andare, come il relitto abbandonato che ci vive da sempre, sopravvissuto al tempo e alle intemperie, alle orde di turisti quieto, immortale come i gargoyle in cima a Nôtre Dame, nonostante gli uccelli, nonostante il sale e gli schiamazzi. Certi relitti sembrano incarnare la quiete che andiamo vagheggiando per una vita intera con lo sguardo fisso, un anelito di pace mai domo, l’immagine interiore che vorremmo. Nell’isola di Zacinto, a noi nota soprattutto per la bellissima poesia ad essa dedicata da Ugo Foscolo, vi è un posto sublime, una spiaggia chiamata “Navajo”, un’insenatura piccola e ricolma di sabbia circondata da altissimi crostoni di roccia, visitabile fisicamente solo da mare, a meno che non la si guardi dall’alto, come si accarezzano gli inaccessibili miracoli. Su di essa giace, secolare, un relitto.
Un ammasso di legno che, visto nel suo singolare abbandono, potrebbe tutt’al più trasmetterci qualcosa sul mistero dei suoi antichi navigatori, incuriosirci sulla loro sorte, ma non incantarci per la bellezza. Quello della spiaggia di Zacinto, invece, appare come il dettaglio naturale atto a compiere uno scenario perfetto di quiete e mistero, il non più utile annoverato tra le bellezze naturali della Terra.
Osservando quel relitto nel suo insieme, abbiamo come l’impressione che incarni quello nostro interiore, quello che abbiamo dentro, ossidato vulnus subito e custodito per una vita intera, frantumaglia fattasi tuttavia ormai sostrato, quel “paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo senza l’ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l’effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere” (E. Ferrante, La frantumaglia, 2003, p. 126).
In pratica, il relitto rappresenterebbe la rimozione, la pietra angolare su cui poggia tutto l’edificio della psicoanalisi, dunque il relitto appare come rimosso psicologico. Il paziente vuole dimenticare e “intenzionalmente” mantiene, respinge o rimuove fuori dal suo pensiero cosciente, dando origine così alla sua nevrosi; in realtà, i contenuti rimossi sfuggono alla coscienza e sono regolati da leggi proprie come una cristallizzazione insopportabile che quindi si può trasformare in una difesa, bloccata dalla forza del desiderio inconscio che cerca invano di ritornare alla coscienza. Freud ha il sentore che al centro di questi disturbi vi siano conflitti tra forze psichiche contrapposte: da un lato, pulsioni che premono per scaturire alla coscienza sotto forma di emozioni e di rappresentazioni e, dall’altro, resistenze che bloccano loro la strada verso la coscienza.
Di fronte al relitto si realizza uno spettacolo, una messa in scena della realtà, il com’è e il com’era confondono la visione, obbligando lo sguardo dello spettatore a una scelta. “Trovo straordinario che l’immagine, diversamente dal pensiero, non imponga alcuna opinione alle cose. In ogni operazione del pensiero è sempre implicito anche un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città o su un paesaggio. Il vedere invece trascende dalle opinioni; guardando una persona, un oggetto, o il mondo noi sviluppiamo un rapporto autentico, un’attitudine sganciata da qualsiasi giudizio, in fondo percepiamo a livello puro. L’atto di vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze”. (W. Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Milano, 1992).
È un totale senso di desolazione, uno spettro visivo di un’immagine che si trasforma in una tomba dei sentimenti, né più né meno come accade al relitto dentro di noi, la decadenza di una nave-contenitore non vista più come recipiente di eventi religiosi, feste e uomini, ma imbarcazione che si scurisce e diventa desolata come la visione-sublimazione di fronte a una vecchia carcassa rugginosa e morta, che ha contenuto dolore e catastrofe portandone ancora i segni della sua lotta. In fin dei conti, cosa sono i relitti-rovine se non la rimanenza di ciò che è stato e di ciò che inevitabilmente deve essere ricordato? Non esistono brutture in natura e, se ne hanno anche solo la parvenza, questa è mitigata e sublimata dall’ambiente circostante o dalle vicende epiche che esse raccontano, come le navi abbandonate.
Pensiamo, per esempio, all’importanza del relitto in letteratura, a Odisseo, oppure a Leopold Bloom dell’Ulisse di Joyce: dall’uno all’altro, l’Io narrante compie un viaggio di ritorno alla vita che dura oltre un millennio e nello stesso tempo vive la sua vita fino alla morte della letteratura stessa, nelle isole e nei porti sta il ricordo dei naufraghi e dei naufragi insieme ai relitti. Nell’Odissea, Ulisse è un uomo “multiforme”, versatile, ingegnoso, uomo fragile ma acuto, un eroe dell’intelligenza e dell’astuzia. I suoi sforzi, la capacità di sopportare le sofferenze, la tenacia e la pazienza hanno un solo obiettivo: il ritorno in patria a Itaca. Le difficoltà, finanche la tempesta e il naufragio vengono messi in conto, l’eroe classico e il viaggiatore contemporaneo precipitano dentro il vortice della natura e dentro la spirale della civiltà moderna. Nell’Ulisse di Joyce le figure dei due personaggi principali rappresentano due facce diverse dell’Ulisse omerico: il protagonista ebreo irlandese Leopold Bloom, al termine del suo viaggio a Dublino incarna il desiderio del ritorno, Stephen Dedalus, il ribelle che vuole lasciare la sua terra e la famiglia, rappresenta la componente errabonda di Ulisse e l’amore per l’avventura.
In Boccaccio (Decameron, Giornata II, novella IV, Rizzoli, Milano, 1987) Landolfo Rufolo rappresenta il viaggiatore che sfida il destino, che già prima del Rinascimento si chiama Fortuna, con le sole forze della virtù, cioè della capacità di ingegnarsi e di aggrapparsi ai piccoli frammenti, anche istintuali, di sopravvivenza durante la cattiva sorte. Il naufragio conseguente all’attacco dei pirati fa che Landolfo Rufolo perda tutti i suoi possedimenti presenti nella nave, tra i flutti si aggrappa a una cassa, a un brandello di relitto, se lo sconforto è grande, il premio maggiore è di aver salva la vita dopo la tempesta, ancora non sa cosa nasconde il relitto. Sorpresa: quella cassa a cui si è con tutte le sue forze aggrappato, una volta salvo, contiene un inestimabile tesoro che lo ricompensa bel oltre di ciò che aveva perduto. La sua virtù viene dunque premiata dalla fortuna.
La Tempesta di William Shakespeare, composta nel 1611, è la storia di un potente mago, Prospero - duca di Milano - spodestato dal fratello Antonio, lasciato su di una piccola barca in balia delle onde insieme alla figlioletta Miranda; egli approda su un’isola deserta dove aveva trovato rifugio la strega Sicorace, madre dell’unico abitante dell’isola, il mostro Calibano. Una spaventosa tempesta farà naufragare un veliero sulla spiaggia, cambiando per sempre il destino dei protagonisti. Teatro dell’azione è l’isola bagnata dall’acqua purificatrice del mare e abitata da presenze misteriose e inquietanti. L’isola è un luogo geografico di una dimensione indefinita: una proiezione della mente che entra in rapporto con le forze di un mondo superiore, dominandole. Ne “La tempesta”, collocata in un ambiente di memoria, accanto al mago, alla sua dolce figlia Miranda, all’etero Ariele, agli spiriti che il signore dell’isola fa apparire e scomparire con un gesto, a coloro che Prospero ha costretto a mettere piede sull’isola, vediamo muovere le immagini talismaniche di Ermete, Iside e Osiride, Medea e Giasone, Orfeo ed Euridice, Amore e Psiche, Endimione e Selene, Teseo e Arianna e i sette dei-astri “ombre” delle idee superiori, che dai cieli discendono ad infondere magia alla magia dello spettacolo. La Tempesta è una strano testo. Non è una commedia, né un dramma, né un romance. Forse l’insieme dei tre generi. Letteralmente, il dramma di una psiche: il racconto cifrato della vita di Shakespeare, il racconto della propria esistenza interiore come lascia intendere a più riprese attraverso varie voci.
Il romanzo di Umberto Eco, L’isola del giorno prima, si addentra tra navi e relitti. Anzi nella Daphne, una nave relitto c’è il teatro dell’esistenza, un luogo dove spazio e tempo si toccano e si dilatano e riescono anche a scambiarsi di posto, facendo girare le lancette della bussola o dell’orologio all’indietro. Roberto de la Grive, tra il luglio e l’agosto del 1643, a seguito di un naufragio, vaga per giorni su una zattera finché trae salvezza arrampicandosi su una nave, la Daphne che si trova in una baia a circa un miglio da un’isola. La nave è apparentemente deserta. Man mano che procede nell’ ispezione, osservando l’ambiente circostante, riprende le sue forze e scrive lettere ad una signora, narrando le vicende presenti e ricordando episodi passati. È sofferente agli occhi, quindi si muove ed agisce solo dopo il crepuscolo. Non sa nuotare sicché si trova nella situazione di “aver fatto naufragio su una nave deserta”. A dire il vero la Daphne sembra abbandonata da poco: è ricca di viveri e ha una buona scorta d’acqua. La Daphne si trasforma in un Teatro della Memoria: ogni tratto gli ricorda un episodio antico o recente della sua storia. Il nuovo mondo è in contrapposizione con il mondo conosciuto. Nei ricordi di Roberto emerge la realtà della vita parigina relativa al periodo tra Richelieu e Mazarino, e nelle discussioni di salotto trapelano filosofia, usanze, costumi e letteratura dell’epoca.
Il relitto è lì solo. Agitato dalle acque e dal vento. Respira le forze ancestrali della natura, si fa suono, onda, prende vita nei processi di ossidazione, nelle muffe, nei batteri.
È in parte emerso similmente alla coscienza, anzi rappresenta simbolicamente la metapsicologia freudiana. Ancorato inevitabilmente all’inconscio (al di sotto del mare, il fondale oscuro) si affaccia con il suo Io deperito, fisso e immobile ad attrarre lo sguardo del viaggiatore che assiste allibito allo spettacolo. E ancora, sopra di lui le forze non solo del cielo, ma anche di chi lo vorrebbe lontano, forse in viaggio verso un altrove che qualsiasi uomo di mare ha immaginato. C’è un Super Io che tenta di solleticare il tempo del suo infausto riposo.
Dentro di noi si agitano e si sollevano relitti del nostro viaggio trascorso, come quella nave che viaggiava lontano ma che ora si è fermata, così cristallizzati i desideri si sono fatti vincere dalle normali difese della quotidianità. Anche loro emergono a mezz’acqua, silenziosi o irruenti, fulminei e pacati a metterci davanti alla dimensione del tempo e dell’esistenza.
“Non si può stabilire in forma generale quanto grande debba essere la distorsione e la lontananza dalla cosa rimossa, perché l’opposizione della coscienza risulti nulla. In questo campo si stabilisce un delicato equilibrio, il cui gioco ci è nascosto, ma il cui modo di operare ci lascia intravedere che si tratta dell'intervento di una forza di frenaggio ogni qualvolta l’intensità d’invadenza dell’inconscio è tale da violare la barriera opposta all’appagamento. La repressione quindi agisce in maniera del tutto individuale […]” (S. Freud, Opere, Vol.VIII, Boringhieri, Torino, 1976 )
Cos’è quel fascino inquieto che mi prende quando guardo quel relitto, in particolare quello della spiaggia, quel senso d’angoscia come fossi davanti ad un baratro sull’ignoto?
Ricordiamo che “il motivo e lo scopo della rimozione non era altro che la fuga dal dispiacere. Ne segue che il destino della quota di affetto legata al rappresentante è molto più importante del destino della rappresentazione, ed è decisivo per la nostra valutazione del processo di rimozione. Se una rimozione è incapace ad evitare l’insorgere di sentimenti di dispiacere o di ansia, dobbiamo dire che ha fallito, anche se può aver raggiunto il suo scopo sul piano della rappresentazione”. (Freud, op.cit.)
Scrive Antonio Tabucchi ne Il filo dell’orizzonte (Feltrinelli Milano, 1986, p. 9): “Per aprire i cassetti bisogna girare la maniglia a leva, premendo. Allora la molla si sgancia, il meccanismo scatta con un lieve clic metallico, si mettono automaticamente in movimento i cuscinetti a sfera, i cassetti sono leggermente inclinati e scorrono da soli su piccole rotaie. A volte, per i cadaveri non autopsiati, bisogna aiutare il meccanismo tirando con le mani, perché alcuni hanno il ventre gonfio che preme contro il cassetto superiore e ostacola il movimento. Gli autopsiati invece sono asciutti, come prosciugati, con quella specie di cerniera-lampo lungo il ventre e l’interno riempito di segatura. Fanno pensare a bamboloni, a grandi fantocci di una rappresentazione finita buttati in un deposito di robe vecchie. A suo modo questo è un magazzino della vita”.
Un magazzino interiore affastellato di ricordi, il pozzo del passato. La ricostruzione di sé, della propria identità implica necessariamente il tempo: ciò che eravamo, che siamo stati e che siamo ha luogo nel tempo. La vita intera, come in uno specchio, come il relitto che affiora a metà dal mare.