Letteratura

La rivoluzione privata dell’Amica geniale

di Valentina Masotti

 

valentinaÈ un romanzo che non ha bisogno di molte presentazioni, L’amica geniale di Elena Ferrante. Il suo grande successo, corroborato dall'aura di mistero dietro cui si nasconde la reale identità dell’autrice, ha sancito da qualche anno a questa parte la sua indiscussa popolarità negli ambienti letterari e non. Composta di quattro libri che hanno quasi compiuto il giro del mondo, l’intera opera è stata pubblicata tra il 2011 e il 2014.

Nel momento in cui ci si addentra nella trama e le pagine cominciano a scorrere via una dietro l’altra, ci si rende conto però che L’amica geniale è molto più di un best seller. È una storia corposa, intensa. Un romanzo storico e di formazione, un intreccio inestricabile tra vicende private e grandi trasformazioni sociali che raramente si ha l’occasione di riscontrare nella letteratura dei nostri giorni. Accanto ai mutamenti dell’Italia degli anni Settanta, all'annichilimento dei grandi ideali che vi ha fatto seguito, i personaggi che animano il libro vivono e affrontano le loro rivoluzioni individuali, riproduzioni su piccola scala degli sconvolgimenti e delle ricomposizioni del contesto politico e sociale dagli anni Cinquanta a oggi.

Elena Greco e Raffaella Cerullo, Lenù e Lila, sono le due figure femminili che costituiscono il fulcro dell’intera vicenda. Entrambe nate nell'agosto del 1944, trascorrono l’infanzia e l’adolescenza in un quartiere alla periferia orientale di Napoli sviluppando tra loro un legame indissolubile, che le fiancheggerà nel lungo corso delle intricate vicissitudini a cui l’una e l’altra sono destinate. Sin dalla più tenera età, la loro amicizia viene sigillata da una reciproca promessa: emergeranno insieme dalla miseria delle loro origini, con impegno e coraggio sfuggiranno alla vita spenta a cui sono state condannate, troveranno forzieri colmi di pietre preziose, prenderanno la laurea, insieme daranno vita a un libro, diventeranno scrittrici famose. È forse quello il momento in cui, in quell'affastellarsi di fantasie infantili, germogliano i primi semi delle loro piccole rivoluzioni private, che già si sentono determinate a compiere.

Ma al termine della scuola elementare, Lila e Lenù subiscono una separazione forzata, i loro obiettivi comuni si scindono e le due bambine prendono strade diverse. La seconda proseguirà gli studi, mentre la prima, per imposizione del padre, dovrà accontentarsi delle poche nozioni di base acquisite e cominciare a faticare nella bottega di famiglia. Lenù è di un’intelligenza vivace, ma le doti di Lila sono sorprendenti, un oltraggio luminescente allo sfondo cupo del rione, che pare però doversi rassegnare a una vita che scorre tra scarpe da riparare e obblighi famigliari da rispettare.

La giovinezza delle ragazze è quasi completamente assorbita dal fantasma dell’ascesa sociale, nessuna delle due si rassegna a lasciar cadere il comune progetto d’infanzia, che si fa anzi sempre più radicato. In modi diversi, calibrati sulle effettive possibilità di ciascuna, le loro rivoluzioni individuali prendono il via. È una partenza timida, esitante, che predilige l’avvalersi di canali di mobilità sociale universalmente riconosciuti e accettati. Lenù otterrà la maturità liceale e si iscriverà alla Normale di Pisa, dove porterà a compimento gli studi in letteratura. Lila invece si sposerà giovanissima con un ricco commerciante del rione, raggiungendo il tanto agognato benessere economico per lei e la famiglia d’origine.

Ma se la scalata della figlia dello scarparo pare dare i suoi primi frutti in breve tempo, quella di Lenù, che mira a sbarazzarsi del contesto del rione, non sortisce alcun effetto tangibile per tutta la durata degli studi liceali. Lila compie un percorso dal basso verso l’alto, restando pur sempre ancorata al medesimo ambiente, all'interno del quale riesce però a conquistarsi un ruolo di maggior considerazione. Elena invece compie sforzi notevoli per cercare di transitare verso un contesto diverso, cerca di raggiungere una nuova nicchia sociale muovendosi in lungo e in largo, in un’oscillazione incessante tra determinazione e senso di inadeguatezza, voglia di affermarsi e paura di non essere all'altezza. Una piccola delusione da studentessa ginnasiale si rivela sufficiente a farle rimettere in discussione il suo intero progetto: “Volevo tornare a sprofondare nel rione, essere com'ero stata. Volevo buttar via lo studio, i quaderni zeppi di esercizi.” (“Storia del nuovo cognome”).

Appare disorientata, Lenù, e il contrasto che la sta lacerando interiormente si concretizza nella diversità delle due figure maschili che sono parte della sua vita di quegli anni. Antonio, il rassicurante fidanzato del rione, e Nino, il brillante studente liceale, bellissimo e irraggiungibile, rappresentano la contrapposizione, la lotta tra la condizione di partenza di Elena e quella a cui ardentemente aspira. Alla fine riuscirà nel suo intento di lasciarsi il rione alle spalle e si trasferirà a Pisa per frequentare l’Università. Ma il suo disagio persisterà, facendola sentire un’orfana sociale che, traghettando a intermittenza da un ambiente all'altro, non riesce più a sentirsi veramente parte di nulla: “Ce l’avevo fatta? Quasi. Mi ero strappata a Napoli, al rione? Quasi. Avevo amiche e amici nuovi, che venivano da ambienti colti, spesso ben più colti di quello a cui appartenevano la professoressa Galiani e i suoi figli? Quasi. Di esame in esame ero diventata una studentessa ben accolta dai professori pensosi che mi interrogavano? Quasi. [...] Temevo chi sapeva essere colto senza il quasi, con disinvoltura.” (“Storia del nuovo cognome”).

Soltanto in seguito, quando da laureanda della Normale sta per avviarsi a una promettente carriera di scrittrice, Elena comincia pian piano a rendersi conto che il benessere, la conoscenza, la cultura, non sono altro che una scorza, un ornamento da sfoggiare, incapace però di mutare la reale natura degli individui. Gli atteggiamenti gretti, i comportamenti meschini, possono appartenere a chiunque, indipendentemente dalla posizione e dal prestigio. D’altra parte, frequentando Pietro Airota, un giovane dal futuro già segnato da una promettente carriera accademica e che diventerà in seguito suo marito, non riesce a impedirsi di accostare l’indole di lui a quella del suo fidanzatino del liceo, cresciuto in condizioni svantaggiate come lei, ma rimasto praticamente privo di istruzione: “C’erano intere biblioteche tra lui e Antonio, ma si assomigliavano.” (“Storia del nuovo cognome”).

E proprio lì, a quel punto della sua vita, Lenù intravede forse per la prima volta le ombre che si celano dietro alla paura apparentemente irrazionale di Lila di perdere la propria forma, il contorno di sé, quella smarginatura che l’amica sembra temere più di ogni altra cosa, e che di tanto in tanto la afferra catapultandola in uno stato di precarietà, di terrore confuso L’essere umano è racchiuso in forme provvisorie che possono cadere e frantumarsi da un momento all'altro, in balìa del flusso degli eventi, ma soprattutto delle lotte interiori che ciascuno di noi, volente o nolente, si ritrova a dover affrontare o reprimere: “Che le persone, ancor più delle cose, perdessero i loro margini e dilagassero senza forma è ciò che ha spaventato più Lila nel corso della sua vita. L’aveva atterrita lo smarginarsi del fratello, che amava più di ogni altro suo familiare, e l’aveva terrorizzata il disfarsi di Stefano nel passaggio da fidanzato a marito.” (“Storia del nuovo cognome”).

Ma sarà molto più tardi, in occasione del violento terremoto dell’Irpinia del 1980, che il potere beffardo della smarginatura si manifesterà al massimo della sua prepotente brutalità. Lila e Lenù, entrambe in attesa di una bambina e prossime al parto, si troveranno casualmente ad affrontare insieme quell'imponente onda di distruzione. Oggetti, edifici, affetti, individui: niente è definitivo, tutto può venire distrutto in un turbine incomprensibile e sorprendente. Ma se in tutto questo Lila si ritroverà completamente spaesata, incapace di mettere in atto qualsiasi reazione, Lenù sarà invece in grado di ricostruire un ordine interiore tutto suo, in cui è lei stessa a essere il fulcro, a fungere da collante tra cose, avvenimenti, persone: “Tutto ciò che mi investiva – gli studi, i libri, Franco, Pietro, le bambine, Nino, il terremoto – sarebbe passato e io – qualsiasi io tra quelli che andavo sommando - , io sarei rimasta ferma, ero la punta del compasso che è sempre fissa mentre la mina corre intorno tracciando cerchi.” (“Storia della bambina perduta”).

All'apparenza, Elena è riuscita nel suo intento iniziale di separarsi dalle sue origini, ma soltanto lasciando una lunga scia indelebile dietro di sé. Si è laureata alla Normale, ha sposato un professore universitario, è diventata una celebre scrittrice. A un certo punto, però, rompe gli argini per tornare sui suoi passi. Lascia il marito per l’uomo che crede di amare da sempre, torna a vivere nei luoghi della sua infanzia insieme alle figlie, riallaccia rapporti che credeva ormai andati persi. Da tutto questo trae una sintesi coerente tra ciò che è stata e ciò che è diventata, un incastro perfetto tra le tante parti di lei sparse qua e là alla rinfusa.

Lila invece gli argini è abituata a romperli da sempre. Tradisce il marito quando è ancora una ragazzina e lo lascia poco dopo, nel momento in cui scopre che anche lui ha da tempo una relazione con una delle commesse della sua salumeria. Si trasferisce poco fuori Napoli, a San Giovanni a Teduccio, insieme a un amico di infanzia pur non intrattenendo con lui – inizialmente almeno – alcuna relazione di tipo sentimentale. Dalla vita agiata a cui l’aveva abituata il marito Stefano passa a una condizione miserevole di operaia in un salumificio. Vive senza sotterfugi, senza compromessi, a costo di inciampare e ritrovarsi faccia a terra. Ma poi si rialza, insieme al compagno Enzo si affaccia al mondo ancora quasi sconosciuto dell’informatica, diventa una programmatrice, riguadagna terreno, fonda l’impresa Basic Sight. È una personalità incontenibile la sua che, lei lo sa bene, non può rimanere intrappolata a lungo all'interno di ruoli preformati. E proprio per questo teme tanto lo smarginarsi dei contorni delle cose, delle persone, delle situazioni, fin troppo consapevole del rischio di distruzione che vi si annida.

Del resto, i rischi connessi alla smarginatura sono intrinseci al compiersi di qualsiasi rivoluzione, specialmente se questa non si limita a sovvertire assetti politici, sociali, economici, ma si spinge fino alla sfera privata, agli spazi intimi individuali. E quella di Lila è una rivoluzione impetuosa, travolgente, incurante delle norme e degli ordini costituiti e allo stesso tempo contrastante con la scarsa fiducia che la giovane donna nutre nei confronti dei mutamenti sociali dell’epoca. Sono gli anni delle rivoluzioni studentesche, del movimento operaio, dell’emancipazione femminile. Ma la sua rivoluzione, tumultuosa, instancabile, rimane confinata alle rivendicazioni personali e agli spazi del rione.

Elena darà invece il via alla sua vera rivoluzione privata soltanto in una fase più matura della sua vita quando, dopo aver faticosamente transitato da una nicchia sociale all'altra, deciderà di gettare all'aria il suo matrimonio con il professor Airota, di rinunciare ai legami di parentela prestigiosi, al benessere e al riconoscimento sociale. Fino a quel momento, tutti gli sforzi che ha compiuto per emergere sono passati dai canali più tradizionali: l’istruzione, l’acculturazione, la metamorfosi apparente nell'intento di farsi accettare da loro, che sapevano “essere colti con disinvoltura, senza il quasi”. Fino a un certo punto della sua esistenza, Lenù tenta di affermarsi infiltrandosi in quegli ambienti che in passato aveva potuto ammirare solo da lontano, si impone una trasformazione quieta, graduale, che si compie quasi in silenzio sullo scorrere del tempo. Soltanto quando la vita dell’amica Lila parrà essersi finalmente stabilizzata deciderà di gettarsi a capofitto in una rivoluzione a tutto tondo, rimettendo in discussione le mete raggiunte e ripercorrendo il suo cammino alla rovescia.

Raffaella la rivoluzionaria ed Elena la trasformista, Elena la rivoluzionaria e Raffaella che raggiunge uno stadio successivo del percorso alla ricerca di sé. Le vicissitudini delle due donne si intrecciano strettamente con gli avvenimenti storici, con le rivoluzioni politiche, con le promesse di trasformazione sociale, con il ritorno agli ordini prestabiliti. Siamo ormai alla fine degli anni Ottanta quando Lenù, che è anche la voce narrante di questa storia, si ritrova a dover prendere atto che “lo sfruttamento dell’uomo sull'uomo e la logica del massimo profitto, che prima erano ritenuti un abominio, erano tornati a essere ovunque i cardini della libertà e della democrazia.” (“Storia della bambina perduta”).

Senza una fine e senza un fine, la storia, così come le vite degli individui, non è altro che un continuo oscillare tra distruzioni, mutamenti, ricomposizioni. Lila si risolve a scavare a ritroso nel passato, l’unico modo, forse, per attribuire un senso a sé stessa, a ciò che la circonda. Ripercorre le vicende della sua Napoli fino agli albori. Strada dopo strada, monumento dopo monumento, ricostruisce gli eventi salienti che ne hanno sancito la valenza storica. Ne emerge “un ruscellare permanente di splendori e miserie, dentro una Napoli ciclica dove tutto era meraviglioso e tutto diventava grigio e dissennato e tutto ritornava a scintillare, come quando una nuvola corre sopra il sole e pare che sia il sole a fuggire, un disco diventato timido, pallido, prossimo all'estinzione, che però ecco, dissolta la nuvola, di colpo torna a essere accecante e bisogna schermarsi la mano tanto è lucente.” (“Storia della bambina perduta”).

La rassegnazione a questo andamento ciclico che scandisce l’alternanza tra epoche diverse, ma anche tra le diverse fasi delle esistenze individuali pare ormai l’unico modo per tessere un filo di consequenzialità in quel mare caotico che è il mondo, l’Europa, l’Italia, Napoli, il rione, la famiglia, l’individuo. E ciò implica anche una rivendicazione del proprio punto di partenza, il percepirlo come una base solida da cui spiccare il volo, come il porto sicuro a cui fare ritorno in caso di necessità. Lila non ha mai lasciato Napoli, ha sempre vissuto a stretto contatto con la sua realtà, la sua gente. Rimasta ancorata alle sue origini, è stata però in grado di plasmarle, di renderle duttili, di conformarle al suo percorso di vita: “Ah, Lila la scarpara, Lila che imitava la moglie di Kennedy, Lila l’artista e l’arredatrice, Lila l’operaia, Lila la programmatrice, Lila sempre nello stesso luogo e sempre fuori luogo.” (“Storia della bambina perduta”).

Forse il senso di tutto si può ridurre a nient’altro che questo, un movimento circolare di alti e bassi, l’assenza di una direzione univoca, l’inconsistenza dell’autodeterminazione assoluta. In fondo, però, le rivoluzioni, individuali e collettive, vale la pena di sperimentarle comunque. Forse sfoceranno in un nuovo percorso, forse invece ricondurranno al punto di inizio, o ancora porteranno a conquiste effimere, i cui effetti saranno ben presto destinati a svanire. Ma cos'è tutto questo se non l’essenza del vivere?

 

Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva, l'epistolario

di Lorenzo Giacinto

 

La testimonianza di un’appassionata storia sentimentale vissuta con indimenticabile poesia tra due grandi poeti

giacintoChi non ha mai avvertito, custodendo tra le mani l’epistolario di uno scrittore prediletto, quella sensazione netta di aver come oltrepassato i limiti dell’umana discrezione? Colpevoli di aver avuto accesso senza merito a un altare di sacra e inviolata intimità, ci sentiamo frastornati e financo rei di una forma di impudicizia che solo l’ammirazione verso il genio può risanare.

Eppure, leggere il breve ma intenso scambio di lettere fiorito tra Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva emenda qualsiasi traccia di voyeurismo intellettuale e restituisce allo stesso tempo ai vertici della letteratura quello che doveva essere documento privato, diamante prezioso annidato tra incartamenti, manoscritti e castelli di carta.

Siamo nel 1926. Due angeli in esilio si trovano grazie all’intermediazione di un altro grande nome, Boris Pasternak. Rilke si trova in Svizzera, dove decide di trattenersi alla fine di lunghi peregrinazioni europee. Marina Cvetaeva scrive le sue lettere da Parigi, città in cui il destino la confina pur continuando sempre a soffiarle come vento la nostalgia delle vaste lande russe. I due non si incontreranno mai, mai potranno sottoporre alla prova degli sguardi congiunti il legame che sembra unirli nella letteratura.

Pasternak consegna a Marina alcuni libri del poeta praghese, in un pigro pomeriggio parigino. E di colpo quel giorno sembra avere lo slancio del volo di un aquila nel cielo alto. Non esistono più esilio, malinconia, separazioni e promesse tardive. Il miracolo riesce a compiersi sull’unico terreno dove possa rendersi possibile: quello della letteratura. L’accostamento alle opere di Rilke è folgorante, unico, irripetibile. Provate pure a mettere un sismografo per misurare la sensibilità di una donna al sisma provocato da uno scrittore amato oltremisura. Non tutti gli innamoramenti avvengono ai tavoli dei caffè, sotto la luce dei lampioni notturni, tra i tailleur e gli abiti ingessati, vicino ai grandi fiumi delle città europee. Ve ne sono altri, più rari ma non meno potenti, che viaggiano su frequenze invisibili, scorrono tra le correnti sotterranee, apprendono il linguaggio muto dei venti e delle stagioni. Quello di Marina per Rainer attraversa la Senna, vola tra i tetti azzurri di Parigi, plana verso sud incurante di confini, valichi alpini, corrispondenze postali, giri di orologio. Arriva in una valle svizzera, infine, non per questo meno impetuoso, tra le mani delicate di un altro poeta.

Tra la slava irrequieta e il praghese viaggiatore brucia un amore di stampo provenzale: come due trovatori moderni conferiscono al loro sentimento il marchio della distanza. Quello della donna vive e respira tra i condomini, i boulevard e i salotti parigini, ma si sente che ha alle spalle tutta la maestosità della pianura e il soffio irrequieto dei venti siberiani:

Ulula un treno. I treni sono i lupi, i lupi sono la Russia. Non è un treno, è tutta la Russia che ulula verso di te.

Quello più pacato del poeta si accende nella calma della vegetazione svizzera, ma in filigrana sono visibili tante mappe geografiche interiori che affiorano:

L’atlante è stato aperto (la geografia per me non è una scienza, ma un insieme di rapporti che subito metto in pratica) e Tu sei già segnata, Marina, nella carta del mio intimo: in qualche posto tra Mosca e Toledo ho fatto spazio perché il Tuo oceano v’irrompesse.

Marina è una poetessa, tigre della natura e al tempo stesso di invincibile sensibilità. Una sorta di Sylvia Plath russa costretta a mille peregrinazioni e privazioni, madre di famiglia e allo stesso tempo un indomabile orgoglio di artista. Non è una donna facile, lo confessa pure lei. Vive di rapporti esclusivi, sconquassi dell’anima e del sangue, terremoti indotti. Rigorosa con se stessa e nei rapporti gli altri, fa parte di quella schiera di scrittrici che non possono fare a meno di vivere quello che scrivono:

Io sono così, Rainer, ogni mio rapporto con una persona è un’isola, e sempre un’isola completamente sprofondata. Dell’altra persona mi appartiene la fronte e un po’ del petto, il cuore lo cedo facilmente. Il petto non lo cedo. A me serve una volta sonora, il battito del cuore è sordo.

Come si fa a non percepire la grande vibrazione interiore di una donna simile? Ripetutamente chiede a Rilke un luogo per incontrarsi, uno che sia nuovo per entrambi. Una città, un ponte, l’ombra di una guglia, una collina orlata da un fiume tranquillo: un luogo che sia sconosciuto, non ricollegabile ad altri episodi del passato, che appartenga alla topografia interiore del nuovo, del diverso, del miracoloso. Non si incontreranno mai. Il poeta forse sente già nel suo sangue la fiamma gelida della leucemia che gli toglierà la vita qualche mese dopo.

Rainer Maria Rilke, il poeta degli angeli sul ponte San Carlo, l’ammiratore intimo di Rodin, l’ultimo poeta aristocratico dalla fronte bagnata di rugiada. Epigono di una vocazione che era assieme anche destino, scelto e subito, sofferto e voluto, al quale si sentiva di appartenere con la totalità dei sensi. Si racconta, Rainer, attraverso l’epistolario, racconta molto di se stesso con estrema eleganza, senza affettazione alcuna. Cercava la solitudine per poter meglio cogliere la voce lontana e segreta degli uomini. Risonanze segrete, echi misteriosi, sinergie oscure e rivelatrici: là dove il rumore della vita arriva più tenue e sfumato l’aria si fa più pulita, la sensibilità si raffina.

Ecco, la ricerca di una solitudine totale in cui però germoglia il fiore misterioso dell’umanità: è in questa curva del sentimento che avviene l’incontro con l’irrequieta, dolce e imperiosa Marina. Donna dell’esclusivo, del “sì o no” a tutti i costi. Al diavolo le mezze misure, i compromessi che sanno di moderazione, le dighe di morigeratezza: se anche ad alta quota manca l’aria, non è altrove che si possono guardare gli dei in faccia. Una poetessa che vive di squarci e di vera e propria compromissione fisica con la poesia:

Per tutta la vita, Rainer, io mi sono data nei versi, a tutti. Anche ai poeti. Ma ho sempre dato troppo, il tono della mia voce ha sempre superato ogni possibile risposta. La risposta se ne impauriva. Io le sottraevo in anticipo tutta l’eco.

Ma Rilke, che non è poeta comune o volgare, accoglie nella sua grotta l’eco unico della voce della russa: ecco la famosa volta sonora che risuona di suggestioni. Dall’isolamento svizzero lui le scrive un componimento, lo intitola con sobrietà Elegia, lo dedica a Marina e lo spedisce nella lettera che dovrà affrontare il tepore dei primi caldi di giugno.

Sublimazione della lirica, sublimazione del sentimento amoroso. C’è anche altro, però, qualcosa che forse supera e sormonta tutto il resto, e riequilibra le distanze e le dimensioni: la poesia stessa. Ne vivono spietatamente e appassionatamente i due protagonisti del carteggio, simili a due vampiri irrequieti. E Rilke stesso diventa, ancor prima che artista adorato, l’emblema stesso della lirica. Marina lo paragona più volte ad una montagna, maestosa ed imperturbabile nella sua costituzione fisica, una montagna fatta di vette insuperabili e vallate nascoste, di rocce e vegetazione, di aperture improvvise ed antri invisibili, di millenni in cui le lave della terra si rimescolavano furiose nelle sue viscere.

Ecco perché l’intero epistolario, ancor prima di essere resoconto stupito e stupefacente di una storia sentimentale unica nella sua natura, è anche e soprattutto un accorato inno di amore e di appartenenza verso la poesia. Non una semplice posa, però, né una dichiarazione programmatica d’intenti, ma un’insondabile ed insopprimibile vocazione che è insieme destino.

Nel breve componimento che Rilke manda a Marina si legge, più o meno verso la fine, una frase che diviene una sorta di cammeo:

Gli amanti, Marina, non dovrebbero, non devono sapere così tanto del declino. Devono essere come nuovi.

Forse in queste parole vi è un’evidente allusione alla malattia che già aveva colpito Rilke e di cui mai farà cenno alla poetessa. Lascerà solamente, all’improvviso, lettere senza risposte, silenzi durante i quali l’edera si arrampica sulle colonne e il muschio inumidisce i capitelli, mentre le stagioni fanno il loro immutabile corso.

Habeas Corpus di Pasquale Vitagliano: personale e universale

di Anna Bertini

Ci vorrebbe una notte
che rendesse sontuose le rovine
e ragionevoli le disperazioni

(da La brutta notte)

In questi ultimi anni
sono stato trattenuto alla deriva,
deviato dal mio tragitto e preda del passato,
finché non mi è stato restituito l’habeas corpus.

(da In questi ultimi anni)


Habeas_corpusHABEAS CORPUS
hà·beas còr·pus,ˈa-/
Nel diritto anglosassone, il principio che tutela l'inviolabilità personale, e il conseguente diritto dell'arrestato di conoscere la causa del suo arresto e di vederla convalidata da una decisione del magistrato. In estensione è il complesso delle norme che garantiscono, nelle Costituzioni dei vari paesi, la libertà personale del cittadino; nel 1679 divenne legge dello Stato inglese (“Habeas corpus act”), sancendo il principio della inviolabilità personale che ancora oggi tutela.
L’Origine è in “abbi il tuo corpo (libero)”, dalle parole iniziali di un rescritto del sec. XII, con cui si ingiunge a chi detenga un prigioniero di dichiarare in quale giorno e per quale causa egli sia stato tratto in arresto.


Come già con altre opere di autori, mi piace dire sin dall’inizio del mio discorso su Habeas Corpus di Pasquale Vitagliano che non mi accosto a questo testo con lo sguardo e il linguaggio del critico o del recensore, ma con quello stupito e grato del lettore che trova nell’opera - in questo caso quindi nella parola di un poeta - motivi profondi di vicinanza, stimoli di crescita. Sempre quando il vedere e il sentire risultano ampliati da una lettura sento gratitudine per chi mi ha dato occasione di tale cambiamento. Lo spazio su La Stanza sembra adatto per il tipo di approccio che scelgo a questa opera. In primo luogo perché la poesia di Vitagliano è completamente scevra da connotazioni di genere. L’autore si pone davanti al lettore senza retoriche e senza maschere, parte da una profonda introspezione che apre alla più inerme umanità e la pone a fondamento di un richiamo all’agire. Così l’”habeas corpus” diventa presa di coscienza che restituisce dignità interiore e la traspone nel tessuto sociale e relazionale. I panni sporchi di casa si portano in piazza, perché dalla mancanza di responsabilità del singolo nella propria sfera affettiva si ingenera il vizio che mina la società. Vitagliano punta il dito contro l’individuo che sporge critica all’establishment e alle istituzioni senza aver consapevolezza dei comportamenti che lo rendono corresponsabile e complice del degrado etico e morale di questo tempo. Da uomo di legge riesce a permeare la sua poetica di una ricerca della giustizia e nello stesso tempo si fa cronista, attraverso una scrittura essenziale e sincera dell’impossibilità che ci è data in questo momento storico di pur solo nominare ciò che è giusto senza cadere in un equivoco.

Il bagno lo facciamo lo stesso

In ogni casa c’è un angolo
di inferno, l’inferno che accettiamo
l’inferno quotidiano, l’inferno che vogliamo.

Ascolto alla radio mia madre
che prepara la cena
cantando Sanremo
carezza la testa a mio padre
gli dice
mi hai rovinato la vita,
lo sai che mi hai rovinato la vita.

Anche il mare non è più lo stesso
da quando le mareggiate sono
sempre più frequenti, la schiuma,
le schiume, le bolle, i piccoli rifiuti alla deriva,
persino i mozziconi galleggiano in acqua,

eppure il bagno lo facciamo lo stesso.


immagineL’autore nomina le sezioni della sua opera secondo colori primari; ci sono il bianco e il nero ovviamente, necessari al discorso, il rosso della passione civile, l’azzurro dei cieli che rivendica presenze spirituali e creazioni che non siano solo dell’uomo, il giallo della paura.

Manca il verde. Il verde libertà e il verde naturalistico.

Il discorso di Vitagliano è civile e si organizza all’interno di un tessuto sociale complesso, dove l’uomo è rimasto invischiato nella propria sovrastruttura.

Ho visto le menti migliori della mia generazione
distrutte dalla noia, affamate, brillanti autistiche,
trascinarsi per corridoi di portaborse all’alba in cerca di
un lavoro, un posto. Vedremo.Faremo. Le faremo sapere.
Bei giovani dal volto d’angelo brucianti ancora per le antiche
libidine fuori dei cortili ad aspettare le studentesse sfatte.
Troppo piccoloborghesi per le allucinazioni, troppo poveri
per le ribellioni.
Aspetta, aspetta. Quelli che sono venuti dopo
non hanno atteso più. Lavorare meno, lavorare tutti, Li hanno presi alla lettera
con ii numeri verdi.
Verdi, rossi, bianchi, neri, senza più colore

(da Una parodia)

È un uomo in crisi, inaridito, che si scopre solo che si confessa colpevole, ma oramai disarmato. È un individuo universale e privato, che cerca di abbandonare il proprio manicheismo ma non riesce a trovare un equilibrio, un’indulgenza, un’oasi di mezzo tra bene e male.

Fine della malattia

Non c’è più la malattia
a far galleggiare sul pantano
il nostro amore senza amore.
E’ più molesto
questo nostro stalking quotidiano
della violenza di un estraneo.
Siamo stati messi all'angolo
dal rumore dei ragazzi,
zittiti dalle nostre paure,
impotenti per le nostre querule verità.
Non si chiamerà genealogia
questa sequenza di ingenue causalità.

Vorrei andare al cinema
a rivedere la mia storia


Siamo forse tutti noi, vogliosi di cambiare, ma in dubbio su come attuare il cambiamento, ignari di come dare a questo efficacia, come conferire portata più ampia a raggiunte consapevolezze. Arresi - per comodo in parte e per delusione dall’altra - al non avere potere sul rinnovamento, spesso nemmeno quello delle nostre proprie vite, per non parlare di quello civile. Pure, la risposta che Pasquale Vitagliano non offre come certa ma pone al centro dell’osservazione perché tutti la possano ponderare è in quell’habeas corpus - il corpo libero non reo - dove non rea sia l’anima.

“Non lo dimenticherò, che Dio ti benedica"

L’ho ascoltata in un vecchio film
l’hai mai ascoltata questa frase?
Chi altri l’ha più ascoltata?
Chi l’ascolterà più
Vorrei ascoltarla ancora.

“Non lo dimenticherò, che Dio ti benedica"

Non è retrò ringraziare.
Non è archeologico
invocare la benedizione del proprio Dio
Non è disumano.
No, non è disumano
attaccarsi a qualcuno.
Non sono disumano se mi ostino
a non dimenticare il bene nel mio inferno.
Non sono disumano se mi ostino
a chiamare un Dio che non ha ancora parlato.

In mezzo ai troppi - e a parere di chi scrive inutili - dibattiti su cosa sia poesia, quella di Vitagliano si afferma con necessità e potenza rendendo inutile ogni catalogazione.

Solo al buio è concessa la pietà che il sole disdegna
per dover redigere il sinistro inventario del riflusso,
oltre le cateratte di catrame i relitti possono tornare reliquie,
ti può anche venire di pregare nella notte traforata,
finché un faro non illumina l’incubo farsi avanti,
farsi avanti una talpa che adesso vede bene ed ha fame.

(da A guardare bene le foto)

Pasquale Vitagliano è nato a Lecce e vive a Terlizzi, provincia di Bari.
Lavora nella Giustizia, è giornalista e critico letterario per riviste locali e nazionali.
Ha pubblicato le sillogi Amnesie Amniotiche, 2009 per Lietocolle e sempre per questi tipi Il cibo senza nome nel 2011 e Come i corpi le cose nel 2013. Ha scritto il romanzo Volevamo essere statue (2012 per Sottovoce). Suoi scritti sono presenti in diverse antologie.

 

L'ultima stella di Lisbona

di Lorenzo Giacinto

Un ritratto dello scrittore portoghese Fernando Pessoa e della città dove visse la sua breve vita

pessoaLisbona è una città che invita al ritorno e insieme promette lunghe fughe oltre il vasto orizzonte, un tempo territorio di conquista di esploratori ambiziosi. Chi vi è stato già una volta avrà avvertito forse un dolce ma inevitabile abdicare anche a se stessi. Una sorta d’incanto, una fascinazione rara ed inspiegabile legano alcune città elette agli atomi d’ossigeno che vi si respirano. Accade che si perdono i confini tra le strade di un luogo e la propria fisicità di individuo, la mappa diventa anatomia. La città diventa chi la percorre in un preciso momento storico.

Una mattina assolata o un pomeriggio sonnolento si può decidere allora di arrampicarsi per le strade ripide della capitale portoghese, e ritrovarsi come se si venisse portati da una forza esterna in un caffè chiamato A Brasileira, dove l’immaginazione può scendere dai propri nidi d’aquila e planare tranquilla sulle tegole e le case in calce bianca che risplendono di luce. Una statua posta di fronte al locale, bersaglio di selfie rapinosi, ricorda che il più importante scrittore lusitano, Fernando Pessoa, vi aveva eletto la propria seconda dimora. Lo si immagini allora, con la sua bombetta calata su un viso refrattario agli occhi curiosi, dei timidi baffi neri triangolari a custodire timidamente la bocca, un paio di occhiali che gli danno un’aria di uno studente troppo cresciuto.

Apre il suo taccuino, e in quel gesto non c’è nulla di snobistico o comandato. Scrive. Probabilmente si sente un piccione un po’ goffo. In fin dei conti la letteratura è l’occupazione degli oziosi, un po’ di senso di colpa non guasta. Però bisogna fare i conti con una cosa che si chiama vocazione, si attacca al sangue e fa il giro del corpo, lo sapeva bene anche Flaubert. Continua a scrivere dunque, a volte smette quando qualcuno gli passa accanto. Poi ricomincia. Si trova a Lisbona, ma pensa alla sua infanzia in Sudafrica. Ecco, il destino lo ha voluto mettere di fronte agli oceani, precario sulla terraferma, mosso da un vento interiore che spira dalle profondità dei fondali oceanici. A Durban passa l’intera giovinezza: doppia diverse volte il Capo di Buona Speranza, studia l’inglese e i classici della letteratura, avverte il richiamo di casa dall’altra parte dell’Equatore.

Ad eccezione di questa parentesi in Africa, la biografia di Pessoa non registra grandi sussulti. I movimenti, le oscillazioni, gli smottamenti e le ricomposizioni sono tutte interiori. In fin dei conti qualsiasi biografia è un violare le imposte chiuse, un indovinare quello che succede nell’intimità nella penombra. I sismografi, però, testimoniano quello che si produce nelle viscere della terra, non quello che vi accade in superficie.

« Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia,

non c'è niente di più semplice.

Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.

Tutti i giorni fra l'una e l'altra sono miei. »

 

Lasciamo inviolata all’uomo la sua gelosa navigazione nelle acque avventurose dell’esistenza.

 

Torniamo a Fernando, al suo pomeriggio speso al caffè, mentre la luce di Lisbona si sposa con l’azzurro del Tago. Scrive ancora, soprattutto poesie. Sono tante, molte delle quali disperse, disseminate come arcipelaghi su fogli di carta, riviste, lettere. Il genio tiene poco a se stesso, ecco un’altra verità da almanacco. Ordina una, due, tre, chissà quante Ginjinha, il liquore dolciastro alla ciliegia. Forse l’accompagna con un buon pastel de nata aromatizzato alla cannella. In quel momento nella Sé, la cattedrale della città, suonano svogliate le campane, disperdendo nugoli di gabbiani nell’aria.

Fernando non è sposato, vive di innamoramenti estetici e fulminee rivelazioni. Non sa cosa sia la passione carnale, forse non lo saprà mai. Più dei corpi avvinghiati lo interessa il puro sentimento d’amore.

Quel pomeriggio non si firma come Fernando Pessoa. Alla fine di un foglio stiracchiato, dove minuscola si stende la sua scrittura simile ad una colonna di formiche, si legge Ricardo Reis.

La data riporta il 2 luglio del 1930. Con un po’ di invadenza, avvicinandosi a quel pezzo di carta che è diventato depositario di un cielo azzurro e insieme di una vita troppo breve, si legge:

 

“Quel che sentiamo, non quel che è sentito,

è quel che abbiamo. Certo, l’inverno stringe,

Come destino accogliamolo.

Ci sia inverno sulla terra, non nella mente,

e, amore ad amore, o libro a libro, amiamo

il nostro fuoco breve”

 

Ecco avanzare l’oraziano Fernando, l’invito a godere quanto più possibile ciò che la vita ci concede in maniera effimera. Non si abbia paura del fuoco, non si abbia timore della fiamma che lambisce i polpastrelli, pare dirci l’ultima coppia di versi. E una donna non nominata, Lidia, che sarà l’interlocutrice di tante altre poesie, diventa l’immagine che convoglia un amore per la vita non strozzato da ansie metafisiche o religiose. Ma sì, che tuoni pure Giove nei cieli coperti, nelle vette insuperabili e inaccessibili, che lapidi pure Nettuno con le onde le spiagge levigate e le ripide scogliere: bisogna ignorare, cara Lidia, ciò che non parla la lingua degli amanti.

 

A che serve scalare l’Himalaya, se si addomestica la vita in un giardino moresco di Lisbona. Ad altri lidi e ad altre latitudini s’ingorghino le nuvole pesanti: qui la leggerezza a volte sembra essere una docile promessa. Libertà, s’affanna a dire Fernando, che per un gioco di dadi il 2 luglio del 1930 è Ricardo, libertà anche a costo dell’amore:

 

“Non voglio, Cloe, l’amore tuo, che opprime

e amore esige. Voglio esser libero.

La speranza è un dovere del sentimento.”

 

Si dice che la letteratura è vita che non basta a se stessa. Vita che esce dai canali, dagli argini, che rompe le dighe e spezza i bastoncini dello shangai. Quale miglior argomento allora per spiegare gli eteronimi di Fernando Pessoa? Ricardo Reis, Bernardo Soares, Alvaro de Campos, Alberto Caeiro, ognuno con una propria biografia inventata, ognuno con la sua bibliografia ragionata, ognuno con il proprio lasciapassare per il mondo.

Solo dopo la morte di Pessoa si verrà a sapere che tutti quei personaggi erano nati da una sola penna, da una sola multiforme sensibilità in grado di misurarsi camaleonticamente con la complessità della vita. Il Pessoa romantico, il Pessoa lucido pessimista, il Pessoa avventuriero e funambolo che tutto ha visto e sentito: uomo nel quale si agitano e si sciolgono le contraddizioni, dentro cui tutte le città rumoreggiano e tutte le onde crepitano. Troppa vita, caro Fernando, per una persona sola. Troppo da dire, da fare, da immaginare, da avvertire, troppo peso su quel fegato che ti darà la morte a soli 47 anni, approdo finale di un’ode incompiuta.

 

Ma quel termine è lontano ancora, lontano quanto possono esserlo 5 lunghi anni. Pessoa è ancora seduto alla A Brasileira, come quasi fa tutti i giorni. Il pomeriggio diventa sera, già le acque del Tago si indorano, i panni stesi nelle ore più calde svolazzano tra i palazzi dell’Alfama, più ad Est. Pochi giorni prima ha rinunciato a vedere una sua ammiratrice, una poetessa in trasferta a Lisbona, perché l’oroscopo di quel giorno lo sconsigliava. Le ha fatto recapitare nella stanza d’albergo la copia di un suo libro e un biglietto di scuse. Anche questo è Fernando Pessoa.

 

Si alza all’improvviso, raccoglie le sue cose, saluta in un portoghese non più sobrio i volti noti e si avvia verso la Baixa, il quartiere di Lisbona ricostruito interamente dopo il terremoto devastante del 1755. Là, dove si apre imponente la Praça do Comercio, gli sembra di rifiatare alla vista dell’azzurro. Davanti a sé il fiume, ma i portoghesi lo chiamano mar, questi indomabili sognatori.

Gli giunge all’orecchio lo svagato sferragliare del tram 28 che come una serpe sinuosa scala i colli di Lisbona, ma sono le navi attraccate al molo poco distante che catturano la sua attenzione.

 

Subito il senso dell’avventura, l’attrazione innata tutta portoghese per le mappe e i viaggi, si fanno strada impetuosi nel suo animo dove il sentimento casalingo non ha mai dissipato quella sete ancestrale dell’altrove, quella giostra inesausta di derive e approdi e ripartenze. Diventa allora Alvaro de Campos, l’ingegnere futurista che ha fatto della sua vita un inesauribile viaggio. Alvaro è emblema dell’uomo che vuole diventare il compendio di tutte le passioni e di tutte le esperienze dell’esistenza. Egli è vissuto in tutte le città, ha solcato tutti i mari conosciuti, si è accompagnato con principi e puttane, saltimbanchi e intellettuali, ha sofferto e gioito ad un tempo, offrendo il suo corpo come un campo di battaglia nel quale tutti gli scontri sono avvenuti con fragorose perdite e vittorie. E infine, amara, la capitolazione finale:

 

“Ah non poter essere io tutta la gente e tutti i luoghi”.

 

Di nuovo allora sale l’invocazione, simile all’Invitation au voyage di Baudelaire:

 

“Viaggiare! Perdere paesi!

Essere altro costantemente,

non avere radici, per l'anima,

da vivere soltanto di vedere!

Neanche a me appartenere!

 

Andare avanti, andare dietro

l'assenza di avere un fine,

e l'ansia di conseguirlo!

Viaggiare così è viaggio.”

 

Così forse medita Fernando Pessoa, mentre torna con le ultime luci verso la parte alta della città. Dall’oceano giunge una brezza che porterà pioggia all’alba, e forse per pochi giorni. A Lisbona piove sempre troppo o troppo poco. Prima però una deviazione verso la sobria chiesa della Graça. Là esiste ancora un miradouro, uno dei tanti belvedere della città, forse uno dei più belli. A destra, imponente e solitario, si vede il castello di São Jorge. Intorno i tetti dell’Alfama evocano atmosfere arabe. Un ultimo sguardo sulla città prima del congedo. Di fronte il bianco delle case si scioglie come zucchero filato nell’azzurro del Tago.

Il male di vivere di Raymond Carver tra le scene di America Oggi

di Valentina Masotti

raymondNei primi anni Novanta, Robert Altman dava vita a uno spaccato della società americana contemporanea, in un film destinato a lasciare una traccia indissolubile del nostro tempo. La sua fonte di ispirazione furono nove racconti e una poesia di un grande autore che costruiva le sue storie attorno a personaggi imperfetti, ordinari. E che non amava l’etichetta di minimalista.

È come un ronzio di sottofondo, il male di vivere raccontato da Raymond Carver. Impalpabile ma incessante, accompagna i protagonisti dei suoi racconti ben oltre le pagine di una short story, quasi fosse una condizione ineluttabile, un’imposizione a cui l’uomo contemporaneo debba piegarsi, necessariamente. Succede a volte che questo ronzio si faccia più intenso, che si acutizzi travolgendo la noia rassicurante dell’abitudine, della normalità. Ma sono solo delle parentesi, che si aprono e si chiudono fugaci all’interno di mondi dominati da un’inalterabilità sconcertante.

Carver non narra di vicende eccezionali, né di persone dotate di capacità sorprendenti. Le trame dei suoi racconti non si articolano in un crescendo di suspense inteso ad assecondare i pronostici dei suoi lettori. Spesso le cose non vanno come dovrebbero andare, a volte gli avvenimenti straordinari sono soltanto degli inframezzi casuali che piombano dal nulla senza risolversi in un lieto fine. Proprio come accade nella vita reale.

Nel film America Oggi gli abitanti di dieci storie diverse si incontrano, le loro vite si sfiorano accidentalmente, generando un affresco delle nostre società contemporanee. Guidati da un individualismo esasperato e divenuti oramai inconsapevoli degli ideali a cui forse un tempo avevano aderito, conducono un’esistenza confinata ai loro piccoli mondi, impotenti di fronte all’inevitabilità dei loro destini.

Come Bill e Arlene Miller, sorpresi dal desiderio incontrollato di appropriarsi delle vite degli abbienti Vicini di casa durante una loro assenza. In possesso delle chiavi dell’appartamento dei loro dirimpettai, finiscono con il trascorrere sempre più tempo in una casa che non è la loro, fino ad arrivare a sperare che gli Stone non faranno mai ritorno. Ma Arlene, uscendo, chiude la porta dimenticandosi le chiavi all’interno e i Miller saranno d’un tratto privati di quell’illusoria scalata sociale.

Proprio a questo sembrano essere condannati molti dei personaggi di Carver. All’incapacità di liberarsi intenzionalmente da una condizione che li opprime. Il cambiamento non è mai frutto di un’aspirazione, di una scelta ragionata, ma è piuttosto determinato dal caso, da forze esterne sulle quali i protagonisti non possono esercitare alcuna influenza. E quando ciò accade la quotidianità acquista un valore nuovo, inedito. Non è più quella cella stretta e buia da cui si vorrebbe tanto evadere, ma diventa un rifugio caldo e rassicurante, da ricostruire a ogni costo.

È il caso dei genitori di Scotty, un bambino che perde la vita dopo essere stato ricoverato per alcuni giorni in ospedale. Sconvolti e reduci dalle notti in bianco trascorse a vegliare il figlio, trovano conforto nei panini alla cannella offerti da un pasticcere. Una cosa piccola ma buona, che li porta a riscoprire il ruolo vitale dei gesti più ovvi. Analogamente, Limonata narra di un padre frastornato dalla perdita del figlio in un tragico incidente. Lo sbalordimento di fronte all’ineluttabilità degli eventi non ha ancora lasciato posto alla rassegnazione e lui si sente come proiettato in una vita parallela.

Claire, dal canto suo, non si capacita del fatto che il marito abbia procrastinato la denuncia del ritrovamento di un cadavere per non dover rinunciare alla battuta di pesca organizzata con gli amici. Non riesce ad assolverlo e, allo stesso tempo, si tormenta per quell’interferenza imprevista che crea scompiglio nel loro rapporto. E si chiede se, Con tanta di quell’acqua fuori da casa, Stuart dovesse proprio andarsi a cacciare in un posto tanto sperduto, riserva di brutte sorprese.

Vuoi star zitta per favore? racconta di un’altra coppia scombinata da un accadimento straordinario, con Ralph che non riesce a perdonare la moglie Marian per aver lasciato una festa in compagnia di un altro uomo diversi anni prima. Nonostante si sforzi in tutti i modi di non compromettere la loro serenità e di lasciarsi alle spalle quell’unica macchia nella loro vita matrimoniale, proprio non può fare a meno di cedere alla rabbia.

Sì, pensò, c’era proprio una malvagità che premeva sul mondo e aveva solo bisogno di uno spiraglio, bastava la benché minima fessura1.

Anche se poi, complici le suppliche della moglie, riesce infine a rituffarsi indeterminatamente nel sogno rincuorante delle sue certezze.

Questa ambivalenza nei confronti delle abitudini quotidiane, fonti di apatia e di punti saldi nello stesso tempo, si risolve in una sorta di compromesso nel racconto Jerry, Molly e Sam. Al è un padre di famiglia a cui gli obblighi della vita famigliare cominciano ad andare stretti. Capro espiatorio diviene la cagnetta Suzy che, in un accesso di egoismo, il protagonista decide di abbandonare all’insaputa della moglie e dei figli per poi pentirsene soltanto poco dopo. Al esita tra ciò che ritiene giusto e ciò che vorrebbe per sé stesso, tra la sicurezza delle quattro mura domestiche e la libertà che si ricorda di aver sperimentato soltanto da ragazzo. In definitiva, non si sottrarrà al suo ruolo di padre e di marito, pur non rinunciando a togliersi qualche sfizio di tanto in tanto.

Altre volte, la tentazione di sfuggire ai vincoli imposti può sfociare in una repressione violenta e irrazionale. Accade quando Jerry propone a Bill un’uscita tra vecchi amici. Loro due soli, senza le rispettive famiglie con le quali sono ormai soliti trascorrere la gran parte del tempo: “Di’ alle donne che usciamo”, e sfrecciano in direzione di un biliardo e un paio di birre. Ma qualcosa è destinato ad andare storto e quell’intermezzo di emancipazione si chiude su Bill che prende a sassate una delle ragazze che contava di rimorchiare insieme all’amico. Un modo come un altro per arginare le istigazioni ad abbandonare una quotidianità asfissiante, ma che è anche un porto sicuro a cui, in fondo, non si ha il coraggio di rinunciare.

Se con i suoi racconti Carver mette in luce il rapporto ambiguo e contrastante che l’uomo contemporaneo intrattiene con le banali certezze offerte da una vita ordinaria, non è questo l’unico tema attorno al quale ruotano le sue storie. Dalle vicende a cui si è ispirato il film America Oggi emergono pure l’indifferenza, l’autoreferenzialità, il consumismo, il conformismo. È una denuncia delle piaghe della società dei nostri giorni a 360 gradi.

Il bisogno di aderire alle convenzioni dettate da una società prevalentemente fondata su stereotipi, emerge in particolare dal personaggio di Earl. Due avventori della tavola calda in cui la moglie Doreen lavora come cameriera si prodigano in commenti poco lusinghieri nei confronti del suo aspetto e lui, da quel momento, la sprona a mettersi a dieta.

Benché non gliene fosse mai importato prima, a partire da quell’istante la forma fisica della compagna diviene il centro delle sue preoccupazioni. E a nulla varrà l’apprensione dei colleghi di lavoro per via del pallore e i giramenti di testa della povera Doreen, perché, comunque sia, “Loro non sono tuo marito”. Così, da questo racconto traspare l’esigenza umana di conformarsi a determinati modelli, anche a costo di perdere di vista ciò che conta davvero.

E poi Carver affronta anche le degenerazioni di una società improntata ai consumi, schiava delle forze di mercato che sfuggono al controllo e plasmano le sorti delle persone, impotenti di fronte ai turbini della domanda e dell’offerta. Patty è un’agguerrita venditrice di Vitamine, ma la sua intraprendenza si rivela totalmente vana nel momento in cui i consumi di questi prodotti calano. Così, si avvia forzatamente verso un declino inarrestabile, destinato a compromettere la sua posizione professionale come la sua vita privata. In Collettori si assiste invece all’incontro tra un disoccupato perseguitato dai creditori e un venditore porta a porta disposto a tutto pur di riuscire a rifilare uno dei suoi aspirapolveri. Dopo i primi attimi di diffidenza, si instaura tra i due una sorta di complicità, di reciproca comprensione per essere entrambi relegati ai margini di un sistema economico che fagocita tutto quanto, senza eccezioni.

Non manca infine una denuncia nei confronti di un individualismo desolante, che permea, oramai senza scampo, le relazioni interpersonali. Come in Con tanta di quell’acqua fuori da casa, in cui il ritrovamento del cadavere di una giovane ragazza non impedisce a un gruppo di pescatori di proseguire la serata bevendo whiskey in compagnia, come se nulla fosse successo.

Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non gliene frega più niente di quello che succede agli altri; due, alla gente non gliene frega più niente in assoluto.2

Oppure in Una cosa piccola ma buona, in cui un’autoreferenzialità portata all’esasperazione si concretizza nella figura di un pasticcere che si vendica del mancato ritiro di una torta con una serie di telefonate insistenti e sgradevoli. Il dolce era destinato a Scotty, nel frattempo coinvolto in un grave incidente stradale. Com’è ovvio, la madre in quel frangente a tutto pensa fuorché alla torta che avrebbe dovuto essere ritirata. Eccessivamente preso da sé stesso, dalla sua piccola realtà quotidiana, al pasticcere non passa neppure per la testa che tale inadempienza possa essere dovuta a una contingenza straordinaria, a una tragica fatalità. Ma, quando viene a sapere cosa è realmente accaduto, si mortifica, risvegliandosi bruscamente dal torpore della sua routine.

Perché in fondo non sono cattivi, i personaggi di Carver. Di tanto in tanto riescono persino a mostrare un barlume di rimpianto, di pentimento a fronte di un’inettitudine che li costringe ad adottare comportamenti deludenti, che impedisce loro di fare la differenza nel mondo. Sono soltanto offuscati, intorpiditi dall’impossibilità di dare un senso alle loro vite, condannate alla mediocrità e ridotte al compimento di azioni monotone e ripetitive, giorno dopo giorno.

1 R. Carver, “Vuoi star zitta, per favore?”, in America Oggi, Einaudi, 2015, p. 49.

2 R. Carver, “Con tanta di quell’acqua fuori da casa”, in America Oggi, Einaudi, 2015 p. 68.

 

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