Letteratura

Anna Karenina, o la felicità sotto un treno in corsa

di Tessa Granato

Anna Karenina

Una donna che sceglie consapevolmente di assomigliare a se stessa, tra conoscenza di sé e istinto, per tratteggiare uno dei personaggi più discussi e amati della storia letteraria.

 


Un’adultera, una società spietata, un amore morto che resuscita, un suicidio e un lieto fine. A raccontarlo sembrerebbe un romanzo imbalsamato d’altri tempi. Ma c’è un ma. Anna Karenina vale la pena di essere riletto anche nel 2015. 
In primis l’autore, Tolstoj, è un sensitivo delle parole, che ipnotizza con la sua macroscopica, microscopica analisi degli atteggiamenti umani e con il suo stile poetico, bollente. Aprendo il libro a caso ci si imbatte in frasi come queste:

“Ci sono delle persone che, incontrando un loro antagonista fortunato, sono pronte a distogliere lo sguardo da tutto quel che c’è di buono in lui, e a vedere in lui la sola parte cattiva; ci sono delle persone, al contrario, che desiderano soprattutto di trovare in questo antagonista fortunato quelle qualità con cui egli le ha vinte, e cercano in lui, con un dolore pungente al cuore, la sola parte buona. Levin apparteneva a così fatte persone”.

Il comportamento descritto da Tolstoj risuona universale, facilmente individuabile tra i percorsi dell’esistenza; un atteggiamento mentale comune ma tortuoso, sintetizzato con sapienza. 
È questo solo uno dei tanti passaggi del libro, in cui l’anima del protagonista viene sminuzzata, donata al lettore. E ancora:

“Si adirava contro tutti per la loro intrusione appunto perché sentiva nell'anima che loro, tutti quelli, avevano ragione”.

“E bastaron queste parole perché quei vicendevoli rapporti non ostili, ma freddi, che Levin voleva tanto evitare, si stabilissero di nuovo tra i fratelli”.

“Bisognava restare lì, in una compagnia estranea e così opposta al suo stato d’animo; ma ella aveva un vestito che, lo sapeva, le stava bene; non era sola: intorno c’era quell’abituale solenne ambiente di ozio, ed ella si sentiva meglio che a casa; non doveva escogitare quel che dovesse fare. Tutto si faceva di per sé”.

“Era una di quelle bestie che sembrava non parlino solo perché la disposizione meccanica della loro bocca non glielo permette. A Vronskij, almeno, sembrò che essa avesse capito tutto quello che sentiva adesso, guardandola”.

Lo sguardo di Tolstoj, capace di descrivere con uguale sensibilità sia il mondo visibile, che quello invisibile dei sentimenti, rende questo romanzo mobile, con una velocità regolabile dal lettore - libero quest’ultimo di soffermarsi su uno o più dei tanti aspetti della realtà ivi narrati.
I personaggi sono scomposti e vivisezionati nella loro immagine esteriore e nella loro interiorità, più o meno vera della maschera indossata in pubblico. Si tifa per l’uno o per l’altro, per Anna Karenina o per Kitty, per Vronskij o per il marito di Anna, poiché le descrizioni sono vive, colorate, un canto irresistibile. Eccone alcune, che con una manciata di parole costruiscono l’ingranaggio letterario:

“Stepàn Arkàdjevic’ era un uomo sincero nei suoi propri riguardi. Non poteva ingannare se stesso e persuadersi che si pentiva della sua azione. Non poteva pentirsi di non essere - lui, bell’uomo di trentaquattro anni, facile all’amore - innamorato della moglie, madre di cinque bambini vivi e due morti, ch’era d’un anno soltanto più giovane di lui. Si pentiva solo di non averlo saputo nascondere alla moglie”.

“Questo scintillio riluceva nei suoi occhi deliziosi, realmente indefinibili. Lo sguardo stanco e insieme appassionato di quegli occhi circondati da un cerchio nero, stupiva per la sua completa sincerità”.

“Dalla camera si udiva la voce di Anna, che diceva qualcosa. La sua voce era allegra, animata, con intonazioni straordinariamente precise (...) Ella era distesa, col viso rivolto verso di lui. Le guance erano rosse, gli occhi scintillavano, le piccole mani bianche, spuntando dai polsi della camiciola, giocavano con un angolo della coperta, attorcigliandolo. Sembrava che ella fosse non solo sana e fresca, ma nella migliore disposizione di spirito”.

Anna Karenina, affascinante donna di mondo sposata a un importante funzionario, si innamora dell’ufficiale Vronskij e rinnega la famiglia per vivere con lui e la figlia nata dall’unione. La vicenda è descritta, nonostante la gravità della situazione, come una festa, un carnevale amoroso.

“Questo giocar con le parole, questo nascondere il segreto, aveva per Anna, come del resto per tutte le donne, un grande fascino. E non la necessità di nascondere, non lo scopo per cui si nascondeva, ma lo stesso processo del nascondere la trascinava”.

“(...) l’attesa dell’incontro, tutto si univa nella generale impressione di un gioioso sentimento di vita. Questo sentimento era così forte, che egli involontariamente sorrideva. Anche prima aveva provato la gioiosa coscienza del proprio corpo, ma non aveva mai voluto tanto bene a se medesimo, al proprio corpo, come adesso. (...) Quella stessa chiara e fredda giornata d’agosto, che aveva agito così disperatamente su Anna, gli sembrava eccitante e vivificatrice, e rinfrescava il suo volto e il collo che s’erano infocati per la doccia. (...) Non ho bisogno di nulla, di nulla oltre a questa felicità”.

“Egli sentiva tutto il tormento della sua situazione e di quella di lei, tutta la difficoltà in cui si trovavano, esposti com’erano agli occhi di tutta la società, di nascondere il proprio amore, mentire e  ingannare, e mentire, ingannare, usare astuzia e pensar continuamente agli altri allorquando la loro passione era tanto forte, che tutt’e due dimenticavano il resto, eccetto il proprio amore”.

La drammatica gioia dell’amore esplode come un petardo la notte di Capodanno, sorta di miraggio letterario, a cui fa da contraltare la seria e contorta vicenda di Kitty: giovane figlia di aristocratici innamorata di Vronskij e poi respinta, che a sua volta respinge il filosofico possidente terriero Levin, per poi sposarlo dopo qualche anno. 
Se all’inizio la dualità delle due storie non affiora, verso metà romanzo si intravede l’intento dell’autore di descrivere due opposti tipi di amore, e di donne; da una parte c’è la passione gelosa che rinnega tutto (Anna Karenina rinuncerà al figlio avuto dal marito per seguire Vronskij), dall’altra la calma comprensione e l’affetto razionale che lega Levin e Kitty. 
In modo sotterraneo, Anna è leggermente giudicata, lo si intravede dietro le parole che elogiano la sua vivacità, la sapienza nel dirigere le conversazioni mondane, la sua intelligenza e gusto nel vestire. Lo stesso Levin, che prima di conoscerla la condannava, dopo resta attratto dalla sua fisicità morbida, la dolcezza sofferta e il modo di far sentire importante ogni ospite. Come ebbe a dire un gentiluomo durante il corso della storia, Anna dà l’impressione di non annoiarsi mai. Bella, colta, appassionata di teatro, amante dell’arte: ma, dietro gli elogi, si celano la sua passionalità e l’egoismo, che sfoceranno nel suicidio. Anna Karenina è quindi un profumo che inebria, ma al contempo una dannata, vittima e artefice della sua tragedia privata. 

Il romanzo tratta temi decisamente progressisti e scottanti. Il classico stridio tra la razionalità e l’impulso, che tanto piace ai romanzieri dell’Ottocento (vedi Ragione e sentimento di Jane Austen, o Tess dei D’Ubervilles di Hardy Thomas) qui è onnipresente ma assente, se ne sente il peso leggerissimo, ma senza cipria o parrucche voluminose. Il melodramma tende una trappola, ma non riesce a catturare Tolstoj. 
Si parla esplicitamente di divorzio, abbandono del tetto coniugale e, anche se in modo non esplicito, in un dialogo fra Anna Karenina e una parente, si parla di contraccezione, concetto per l’epoca più che azzardato. Se, da un lato, c’è l’ultimo avamposto di una società che concepisce il delitto d’onore e chiude ogni porta alle donne scandalose come Anna Karenina, dall’altra si percepisce aria di rivoluzione, cambiamento radicale dei costumi.

La grazia realistica del narrare di Tolstoj è una rarità, un relitto in fondo all’oceano. Il suo stile è ridondante ma lampante, e non serve solo a costruire un semplice romanzo d’amore, ma una serie di tipi umani, come una mostra psicologica in parole. L’ormai celebre incipit è un inizio fulminante, e che rende l’idea dello stile di Tolstoj:

“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”, così come: “Non so forse che le stelle non camminano?” egli si domandò, guardando un vivace pianeta che aveva già mutato la sua posizione nel ramo superiore d’una betulla. “Ma io, guardando il movimento delle stelle, non posso immaginarmi la rotazione della terra, e ho ragione dicendo che le stelle camminano”.

Levin è l’unico carattere veramente positivo della storia, scontroso nell’alta società, dove si sente congelato, a suo agio solo in campagna, dove lavora duramente a contatto coi braccianti. La sua rassegnazione, la timida ma rabbiosa ritirata nel mondo rurale, in cui scopre di amare la sua donna ancora di più, lo rendono un ideale di uomo puro, giustamente in contrapposizione con la scaltrezza, la superficialità di Vronskij. Levin raggiunge la felicità senza chiederla, mentre la Karenina fa a lotta con il mondo per avere la felicità totale, che le viene rinnegata piano piano, mangiandosela lei stessa. 

Le emozioni vive, la bellezza della prosa - che sovente si sofferma sul paesaggio, l’anima e il popolo russo - rendono questo romanzo, un decantato omaggio alla ricerca dell’armonia interiore. E, per essere venuto alla luce sul mercato editoriale nel 1877, Anna Karenina ha pochissime rughe. 

Non solo in Russia, ma anche in Francia si cerca l’armonia interiore attraverso le pagine di un romanzo. Il rosso e il nero di Stendhal, pubblicato nel 1830, è un’opera che segue le orme del protagonista, Julien Sorel, ossessionato dal costruirsi un suo “posto al sole”. 
La Karenina è un personaggio che cerca la felicità, facendo indirettamente del male agli altri e direttamente anche a se stessa; Sorel fa del male agli altri direttamente, e indirettamente a se stesso. 
L’eroe maledetto de Il rosso e il nero nasce in una famiglia modesta, e vuole emanciparsi della sua umile condizione. Mosso da un fanatismo per Napoleone, dotato di una memoria eccezionale e un’ambizione fuori dal comune, egli diventa precettore dei figli del sindaco della cittadina in cui vive, iniziando così la sua scalata sociale. In quel lasso di tempo seduce la padrona di casa, donna devota e tenera, che a sua volta si innamora perdutamente di lui. Poco prima di uno scandalo pubblico, Sorel riesca a scappare e ad entrare in seminario, per trovarsi poi a contatto con una ricca famiglia parigina, dove fa perdere la testa alla giovane Mathilde. 
In procinto di sposarsi, egli riceve una lettera di minaccia dalla prima amante e, in un momento di pazzia, la raggiunge, cercando di ucciderla con un'arma da fuoco, durante la funzione religiosa. 
Condannato a morte, le sue speranze di gloria e felicità periscono con l’esecuzione, generando una scia di ulteriori lutti. 
Se in Anna Karenina due personaggi si mettono in salvo (Levin e Kitty) e raggiungono la desiderata armonia, ne Il rosso e il nero la ricerca della felicità annega nel sangue. 

Ognuno di questi due capolavori costruisce lentamente, come il tempo fa con una conchiglia, un marchingegno architettonico e logico che nasconde segreti, come il segreto dell’eco in una conchiglia. Se fuori il guscio è geometrico e perfettamente simmetrico, un gioiello della natura, dentro c’è il mistero del mondo, come dentro ai libri di Tolstoj e Stendhal c’è il mistero degli esseri umani, schiavi dei loro corpi e delle loro pulsioni. 

L’amore e la sfortuna, in questa parte di mondo letterario, invadono e distruggono tutto. Ma alcuni dei loro protagonisti riscattano una felicità finita sotto un treno in corsa, e danno speranza anche a noi ignari lettori del 2015.

 

Un’adultera, una società spietata, un amore morto che resuscita, un suicidio e un lieto fine. A raccontarlo sembrerebbe un romanzo imbalsamato d’altri tempi. Ma c’è un ma. Anna Karenina vale la pena di essere riletto anche nel 2015.
In primis l’autore, Tolstoj, è un sensitivo delle parole, che ipnotizza con la sua macroscopica, microscopica analisi degli atteggiamenti umani e con il suo stile poetico, bollente. Aprendo il libro a caso ci si imbatte in frasi come queste:

“Ci sono delle persone che, incontrando un loro antagonista fortunato, sono pronte a distogliere lo sguardo da tutto quel che c’è di buono in lui, e a vedere in lui la sola parte cattiva; ci sono delle persone, al contrario, che desiderano soprattutto di trovare in questo antagonista fortunato quelle qualità con cui egli le ha vinte, e cercano in lui, con un dolore pungente al cuore, la sola parte buona. Levin apparteneva a così fatte persone”.

Il comportamento descritto da Tolstoj risuona universale, facilmente individuabile tra i percorsi dell’esistenza; un atteggiamento mentale comune ma tortuoso, sintetizzato con sapienza.
È questo solo uno dei tanti passaggi del libro, in cui l’anima del protagonista viene sminuzzata, donata al lettore. E ancora:

“Si adirava contro tutti per la loro intrusione appunto perché sentiva nell'anima che loro, tutti quelli, avevano ragione”.

“E bastaron queste parole perché quei vicendevoli rapporti non ostili, ma freddi, che Levin voleva tanto evitare, si stabilissero di nuovo tra i fratelli”.

“Bisognava restare lì, in una compagnia estranea e così opposta al suo stato d’animo; ma ella aveva un vestito che, lo sapeva, le stava bene; non era sola: intorno c’era quell’abituale solenne ambiente di ozio, ed ella si sentiva meglio che a casa; non doveva escogitare quel che dovesse fare. Tutto si faceva di per sé”.

“Era una di quelle bestie che sembrava non parlino solo perché la disposizione meccanica della loro bocca non glielo permette. A Vronskij, almeno, sembrò che essa avesse capito tutto quello che sentiva adesso, guardandola”.

Lo sguardo di Tolstoj, capace di descrivere con uguale sensibilità sia il mondo visibile, che quello invisibile dei sentimenti, rende questo romanzo mobile, con una velocità regolabile dal lettore - libero quest’ultimo di soffermarsi su uno o più dei tanti aspetti della realtà ivi narrati.
I personaggi sono scomposti e vivisezionati nella loro immagine esteriore e nella loro interiorità, più o meno vera della maschera indossata in pubblico. Si tifa per l’uno o per l’altro, per Anna Karenina o per Kitty, per Vronskij o per il marito di Anna, poiché le descrizioni sono vive, colorate, un canto irresistibile. Eccone alcune, che con una manciata di parole costruiscono l’ingranaggio letterario:

“Stepàn Arkàdjevic’ era un uomo sincero nei suoi propri riguardi. Non poteva ingannare se stesso e persuadersi che si pentiva della sua azione. Non poteva pentirsi di non essere - lui, bell’uomo di trentaquattro anni, facile all’amore - innamorato della moglie, madre di cinque bambini vivi e due morti, ch’era d’un anno soltanto più giovane di lui. Si pentiva solo di non averlo saputo nascondere alla moglie”.

“Questo scintillio riluceva nei suoi occhi deliziosi, realmente indefinibili. Lo sguardo stanco e insieme appassionato di quegli occhi circondati da un cerchio nero, stupiva per la sua completa sincerità”.

“Dalla camera si udiva la voce di Anna, che diceva qualcosa. La sua voce era allegra, animata, con intonazioni straordinariamente precise (...) Ella era distesa, col viso rivolto verso di lui. Le guance erano rosse, gli occhi scintillavano, le piccole mani bianche, spuntando dai polsi della camiciola, giocavano con un angolo della coperta, attorcigliandolo. Sembrava che ella fosse non solo sana e fresca, ma nella migliore disposizione di spirito”.

Anna Karenina, affascinante donna di mondo sposata a un importante funzionario, si innamora dell’ufficiale Vronskij e rinnega la famiglia per vivere con lui e la figlia nata dall’unione. La vicenda è descritta, nonostante la gravità della situazione, come una festa, un carnevale amoroso.

“Questo giocar con le parole, questo nascondere il segreto, aveva per Anna, come del resto per tutte le donne, un grande fascino. E non la necessità di nascondere, non lo scopo per cui si nascondeva, ma lo stesso processo del nascondere la trascinava”.

“(...) l’attesa dell’incontro, tutto si univa nella generale impressione di un gioioso sentimento di vita. Questo sentimento era così forte, che egli involontariamente sorrideva. Anche prima aveva provato la gioiosa coscienza del proprio corpo, ma non aveva mai voluto tanto bene a se medesimo, al proprio corpo, come adesso. (...) Quella stessa chiara e fredda giornata d’agosto, che aveva agito così disperatamente su Anna, gli sembrava eccitante e vivificatrice, e rinfrescava il suo volto e il collo che s’erano infocati per la doccia. (...) Non ho bisogno di nulla, di nulla oltre a questa felicità”.

“Egli sentiva tutto il tormento della sua situazione e di quella di lei, tutta la difficoltà in cui si trovavano, esposti com’erano agli occhi di tutta la società, di nascondere il proprio amore, mentire e  ingannare, e mentire, ingannare, usare astuzia e pensar continuamente agli altri allorquando la loro passione era tanto forte, che tutt’e due dimenticavano il resto, eccetto il proprio amore”.

La drammatica gioia dell’amore esplode come un petardo la notte di Capodanno, sorta di miraggio letterario, a cui fa da contraltare la seria e contorta vicenda di Kitty: giovane figlia di aristocratici innamorata di Vronskij e poi respinta, che a sua volta respinge il filosofico possidente terriero Levin, per poi sposarlo dopo qualche anno.
Se all’inizio la dualità delle due storie non affiora, verso metà romanzo si intravede l’intento dell’autore di descrivere due opposti tipi di amore, e di donne; da una parte c’è la passione gelosa che rinnega tutto (Anna Karenina rinuncerà al figlio avuto dal marito per seguire Vronskij), dall’altra la calma comprensione e l’affetto razionale che lega Levin e Kitty.
In modo sotterraneo, Anna è leggermente giudicata, lo si intravede dietro le parole che elogiano la sua vivacità, la sapienza nel dirigere le conversazioni mondane, la sua intelligenza e gusto nel vestire. Lo stesso Levin, che prima di conoscerla la condannava, dopo resta attratto dalla sua fisicità morbida, la dolcezza sofferta e il modo di far sentire importante ogni ospite. Come ebbe a dire un gentiluomo durante il corso della storia, Anna dà l’impressione di non annoiarsi mai. Bella, colta, appassionata di teatro, amante dell’arte: ma, dietro gli elogi, si celano la sua passionalità e l’egoismo, che sfoceranno nel suicidio. Anna Karenina è quindi un profumo che inebria, ma al contempo una dannata, vittima e artefice della sua tragedia privata.

Il romanzo tratta temi decisamente progressisti e scottanti. Il classico stridio tra la razionalità e l’impulso, che tanto piace ai romanzieri dell’Ottocento (vedi Ragione e sentimento di Jane Austen, o Tess dei D’Ubervilles di Hardy Thomas) qui è onnipresente ma assente, se ne sente il peso leggerissimo, ma senza cipria o parrucche voluminose. Il melodramma tende una trappola, ma non riesce a catturare Tolstoj.
Si parla esplicitamente di divorzio, abbandono del tetto coniugale e, anche se in modo non esplicito, in un dialogo fra Anna Karenina e una parente, si parla di contraccezione, concetto per l’epoca più che azzardato. Se, da un lato, c’è l’ultimo avamposto di una società che concepisce il delitto d’onore e chiude ogni porta alle donne scandalose come Anna Karenina, dall’altra si percepisce aria di rivoluzione, cambiamento radicale dei costumi.

La grazia realistica del narrare di Tolstoj è una rarità, un relitto in fondo all’oceano. Il suo stile è ridondante ma lampante, e non serve solo a costruire un semplice romanzo d’amore, ma una serie di tipi umani, come una mostra psicologica in parole. L’ormai celebre incipit è un inizio fulminante, e che rende l’idea dello stile di Tolstoj:

“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”, così come: “Non so forse che le stelle non camminano?” egli si domandò, guardando un vivace pianeta che aveva già mutato la sua posizione nel ramo superiore d’una betulla. “Ma io, guardando il movimento delle stelle, non posso immaginarmi la rotazione della terra, e ho ragione dicendo che le stelle camminano”.

Levin è l’unico carattere veramente positivo della storia, scontroso nell’alta società, dove si sente congelato, a suo agio solo in campagna, dove lavora duramente a contatto coi braccianti. La sua rassegnazione, la timida ma rabbiosa ritirata nel mondo rurale, in cui scopre di amare la sua donna ancora di più, lo rendono un ideale di uomo puro, giustamente in contrapposizione con la scaltrezza, la superficialità di Vronskij. Levin raggiunge la felicità senza chiederla, mentre la Karenina fa a lotta con il mondo per avere la felicità totale, che le viene rinnegata piano piano, mangiandosela lei stessa.

Le emozioni vive, la bellezza della prosa - che sovente si sofferma sul paesaggio, l’anima e il popolo russo - rendono questo romanzo, un decantato omaggio alla ricerca dell’armonia interiore. E, per essere venuto alla luce sul mercato editoriale nel 1877, Anna Karenina ha pochissime rughe.

Non solo in Russia, ma anche in Francia si cerca l’armonia interiore attraverso le pagine di un romanzo. Il rosso e il nero di Stendhal, pubblicato nel 1830, è un’opera che segue le orme del protagonista, Julien Sorel, ossessionato dal costruirsi un suo “posto al sole”.
La Karenina è un personaggio che cerca la felicità, facendo indirettamente del male agli altri e direttamente anche a se stessa; Sorel fa del male agli altri direttamente, e indirettamente a se stesso.
L’eroe maledetto de Il rosso e il nero nasce in una famiglia modesta, e vuole emanciparsi della sua umile condizione. Mosso da un fanatismo per Napoleone, dotato di una memoria eccezionale e un’ambizione fuori dal comune, egli diventa precettore dei figli del sindaco della cittadina in cui vive, iniziando così la sua scalata sociale. In quel lasso di tempo seduce la padrona di casa, donna devota e tenera, che a sua volta si innamora perdutamente di lui. Poco prima di uno scandalo pubblico, Sorel riesca a scappare e ad entrare in seminario, per trovarsi poi a contatto con una ricca famiglia parigina, dove fa perdere la testa alla giovane Mathilde.
In procinto di sposarsi, egli riceve una lettera di minaccia dalla prima amante e, in un momento di pazzia, la raggiunge, cercando di ucciderla con un'arma da fuoco, durante la funzione religiosa.
Condannato a morte, le sue speranze di gloria e felicità periscono con l’esecuzione, generando una scia di ulteriori lutti.
Se in Anna Karenina due personaggi si mettono in salvo (Levin e Kitty) e raggiungono la desiderata armonia, ne Il rosso e il nero la ricerca della felicità annega nel sangue.

Ognuno di questi due capolavori costruisce lentamente, come il tempo fa con una conchiglia, un marchingegno architettonico e logico che nasconde segreti, come il segreto dell’eco in una conchiglia. Se fuori il guscio è geometrico e perfettamente simmetrico, un gioiello della natura, dentro c’è il mistero del mondo, come dentro ai libri di Tolstoj e Stendhal c’è il mistero degli esseri umani, schiavi dei loro corpi e delle loro pulsioni.

L’amore e la sfortuna, in questa parte di mondo letterario, invadono e distruggono tutto. Ma alcuni dei loro protagonisti riscattano una felicità finita sotto un treno in corsa, e danno speranza anche a noi ignari lettori del 2015.

 

Alle amiche geniali...

di Stella Larotonda

 

amica geniale

I libri sono come gli amori: ci catturano, e non ci lasciano andare più. Ci sono autori che ci attirano, ci seducono, ci invitano a restare con loro. E ci raccontano, attraverso le loro storie, pezzi di noi...

 

Ho appena chiuso l’ultimo libro della quadrilogia di Elena Ferrante, Storia della bambina perduta. Ho riletto più volte l’ultima frase, non potevo credere che fosse quella conclusiva. Nemmeno un punto a capo, qualcosa che evidenziasse che il libro stava volgendo al termine, al suo termine definitivo. E poi quelle pagine bianche dopo la fine che ti fanno credere che manchi ancora un po’ e allora te continui a leggere pensando che hai ancora tempo, che non devi frenare. Mi pento di non aver rallentato, di aver sorvolato sui libri con la rapidità – a volte superficiale – di chi ha fretta di sapere come vanno a finire. Ma le storie di Elena Ferrante ti si aggrappano addosso con un tale peso che, se da un lato hai bisogno di liberartene, dall’altro tremi pensando al momento in cui non saranno più lì a farti compagnia. Mi sento un po’ triste… quella tristezza che si prova quando qualcuno ti dice che partirà, quando si ritorna dalle vacanze, quando sei in macchina, guardi fuori di notte e sopraggiunge l’immotivata malinconia, quando ti ricordi di un amore lontano che ormai non hai più. Ho perso qualcosa? Non dovrei averla trovata? I libri non servono a questo, a dare? Ma io mi sento triste lo stesso. Mi sarebbe piaciuto continuare così per sempre, mettermi a letto dopo una giornata stancante, accendere la mia lampada preferita e ritrovarle lì, quelle due amiche, quelle mie amiche.

Elena Greco (detta Lenù) e Lila Cerullo, da poche settimane, – non è molto che ho preso tra le mani il primo dei quattro libri, L’amica geniale – si sono stabilite in un angolo del mio cervello e lì se ne stanno ancora adesso, mentre mi muovo tra gli automatismi delle azioni quotidiane. Le vedo, avverto i loro sguardi severi che mi esaminano; mi sento parte dei loro litigi, delle loro cose non dette. Mentre scrivo penso a Lenù, alla bambina diligente, quella brava a scuola, buona e paziente, quella che si impegna perché ha deciso che vuole imparare. Una disciplina che la porta a raggiungere livelli sognati da bambina, quando il desiderio più grande era scrivere un libro come Piccole donne. Elena ce la fa, diventa una scrittrice, scrive romanzi di successo, articoli di interesse sociale, e nel suo lavoro riceve apprezzamenti e riconoscimenti. È la ragazza che parte, che se ne va per poi tornare e ripartire di nuovo, quella che tenta di staccarsi per vedere il mondo, conoscerlo e indagarlo con altri occhi. Gli occhi che sono un po’ suoi e un po’ di Lila (l’amica geniale?).

«Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare».

«Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito».

«No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre».

Feci un risolino nervoso, poi dissi: «Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono».

«Non per te: tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine.

Le parole sono rivolte a Elena, ma l’intuizione che dietro all'amica geniale si nasconda Lila nasce subito. È proprio Elena a presentarci Lila dotata, sin da piccola, di un’intelligenza fuori dal comune, in grado di sfidare tutti, di eccellere in qualunque campo.

Già in prima elementare, era al di là di ogni possibile competizione. Lila faceva a mente calcoli

complicatissimi, nei suoi dettati non c’era nemmeno un errore, parlava sempre in dialetto come noi tutti ma

all’occorrenza sfoderava un italiano da libro, ricorrendo anche a parole come avvezzo, lussureggiante, ben

volentieri. Lila era troppo per chiunque.

L’unica qualità che Lila sembra non avere è la bontà. Lila è cattiva, o così appare nel confronto con Elena. Già da bambina riesce a difendersi dai soprusi del mondo maschilista del Rione, in cui a comandare sono i furbi, i violenti, gli uomini. Eppure Lila a un certo punto si ferma, cade nelle braccia del maschio dominante – comportamento che a me, lettrice e sua ammiratrice, delude così tanto che se potessi smetterei di parlarle per un po’ – mentre ad andare avanti è Elena, spinta da una forza originata non tanto da se stessa, quanto da sé in relazione con la sua amica geniale. I pensieri, le vittorie e le azioni di Elena sono quasi sempre reazioni al rapporto con Lila, conseguenze di un litigio o di una discussione, o di una semplice osservazione uscita dalla bocca della sua amica. Una vita può trascorrere nel tentativo di compiacere o competere con qualcuno che stimiamo a tal punto da averlo interiorizzato, come se l’avessimo mangiato e ora risiedesse legittimamente dentro di noi.

Lila che infonde energia a Elena, che la osserva, che la spinge a progredire. Ma anche Lila che esamina, Lila che giudica, Lila che non parla e che ostacola. Sì, perché l’amicizia - soprattutto tra donne - non è solo amore, supporto, stima e comprensione; spesso si trasforma in un continuo frenare, intralciare, un ricorrente inciampare non solo nei propri errori, ma anche in quelli dell’altra.

Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata, ma me ne accorsi per la prima volta solo in

quella circostanza. Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo è

certo, ma senza un oggetto, senza una vera passione, senza un’ambizione determinata. Ero voluta diventare

qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio

diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di

lei.

Ogni esperienza di Elena è attraversata dall’ossessionante “fantasma” di Lila che negli anni manterrà il potere di entrare violentemente nella sua vita privata di donna adulta ormai lontana, ormai realizzata. E io che me ne sto lì a seguire le loro avventure, non so mai per chi parteggiare. Mi ritrovo ad amare e odiare nello stesso tempo, prima una e poi l'altra; sono divisa tra queste due affascinanti bambinedonnemadrinonne che se dovessi disegnarle traccerei gli occhi a fessura di Lila, la bocca e la pelle di Elena, tutto in una persona sola.

Una volta ho letto una frase: “è attraverso lo sguardo delle altre donne che noi donne possiamo crescere”, o qualcosa di simile. Mi ricordo che pensai subito a mia madre, a mia sorella, alle mie amiche. Donne con cui ho avuto conflitti forti, le cui rigide opinioni, gli sguardi severi e le posizioni a volte inflessibili hanno influenzato le mie esperienze al punto da averle manipolate, o cancellate. Ma sono cresciuta, e tuttora cresco e, nonostante il desiderio incosciente di liberarmi della loro autorità, so che ne ho bisogno, che smetterei di progredire se mi trovassi sola, senza le mie donne.

Il mondo indagato da Elena Ferrante è tutto al femminile, quello maschile c’è, ma è spiato attraverso gli occhi di due bambine, poi donne, poi madri. Il rapporto tra madre e figlia è centrale in tutti e tre i libri; Elena e sua madre zoppicante, donna severa, violenta e sguaiata; Elena e le sue figlie (che odia e ama, che abbandona e ritrova, rivelando a se stessa che si può essere madri, pur non volendo rinunciare a essere donne); Lila e la sua bambina perduta, la piccola Imma, lei sì che era destinata a diventare geniale. Le immagini che descrivono il legame tra Lenù e la sua mamma autoritaria e anaffettiva sono cariche di verità, commuovono e si fanno spazio nel petto e nello stomaco con un'intensità che solo una donna – al di là di qualsiasi congettura sul sesso della misteriosa scrittrice – può trasmettere: la ricerca costante di un’approvazione negata, le carezze che infastidiscono, le urla ancestrali lanciate addosso, il silenzio, il rancore e il rimprovero, ma la perenne e durevole presenza.

Quando mi abbracciava prima che me ne andassi, sembrava che lo facesse per scivolarmi dentro e restarci

come una volta io ero stata dentro di lei.

I romanzi di Elena Ferrante tracciano quasi sessant’anni di storia, toccando avvenimenti realmente accaduti: le contestazioni degli anni ‘70, il movimento femminista, il mondo operaio, il sequestro di Aldo Moro, il terremoto del 1980 … Ogni esperienza storica entra nella vita delle due protagoniste, sconvolgendola. La scrittura di Elena Ferrante ha la qualità di guidarci tra i fatti della trama e della Storia senza divagazioni o abbellimenti stilistici. Il fine è comunicare: non c’è spazio per distrazioni sulla forma, ed è anche per questo che riusciamo ad aderire così profondamente alle emozioni dei personaggi narrati. Ricordo perfettamente il momento in cui, leggendo il secondo libro della quadirilogia, ho realizzato (ero in treno, leggevo e – come accade sempre quando un libro ti trascina con sé – non mi accorgevo della persona al mio fianco che chiacchierava del più e del meno, della voce che annunciava le fermate, del telefono che mi squillava nella tasca del cappotto): questi personaggi sono veri e da adesso in poi mi commuoverò con loro, io mi preoccuperò per loro.

Dedico queste riflessioni alle amicizie eterne, al nervosismo e l’inquietudine che può causare solo chi ti conosce davvero, dal principio. A tratti empatizzo con Elena, in altri momenti mi sento vicina a Lila; ho chiuso il libro, ma le due donne viaggiano nella mia mente e nei miei ricordi di quasi donna, di quasi adolescente, di quasi bambina. Quasi, perché un periodo definito, quando siamo noi a viverlo, non è mai così definito. Mi viene voglia di chiamare la mia amica geniale e parlare un po' con lei, chiederle come sta, raccontare un po’ di quello che mi succede, fingendo di non conoscere i suoi pensieri, ascoltando i suoi giudizi, simulando attenzione, mostrando di non sapere cosa muove le sue critiche. No, non lo faccio. Il pensiero mi rende nervosa, oggi il confronto non mi va. Preferisco non guardarmi allo specchio. Per ora.

Il relitto interiore e letterario

di Marina Brunetti

Un'indagine sui naufragi dell'anima, dentro e fuori le pagine dei libri. Perché i viaggi, alla fine, si somigliano tutti. E a volte si parte per non tornare, altre volte si rimane indietro, incastrati qua e là...

 

I viaggi terminano,

gli uomini muoiono

le storie vengono dimenticate

e le navi, pure quelle,

in un modo o nell’altro

se ne vanno.

Così alla fine restano

solamente i relitti.

(Alberto Cavanna)

 

Brunetti MarinaQuante volte, nel corso della propria esistenza, si è fortunate vittime di una folgorazione? Pochissime, invero. Quando ci soffermiamo a immaginare, più difficilmente descrivere, il nostro luogo principe, quello in cui vorremmo vivere, o almeno trascorrere il miglior periodo della nostra vita terrena, il più delle volte non riusciamo a fissarne i particolari, ché spesso cambiano, mutano i colori, la quantità di gente di contorno, le sensazioni che trasmette a pelle.

Càpita, tuttavia, di trovare degli angoli di terra mirabilmente compiuti che incontrano le nostre corde interiori, degli scampoli di sabbia e roccia misti a cielo terso, su cui vorremmo adagiare “le nostre stanche membra”: e in mezzo a questi lasciarsi andare, come il relitto abbandonato che ci vive da sempre, sopravvissuto al tempo e alle intemperie, alle orde di turisti quieto, immortale come i gargoyle in cima a Nôtre Dame, nonostante gli uccelli, nonostante il sale e gli schiamazzi. Certi relitti sembrano incarnare la quiete che andiamo vagheggiando per una vita intera con lo sguardo fisso, un anelito di pace mai domo, l’immagine interiore che vorremmo. Nell’isola di Zacinto, a noi nota soprattutto per la bellissima poesia ad essa dedicata da Ugo Foscolo, vi è un posto sublime, una spiaggia chiamata “Navajo”, un’insenatura piccola e ricolma di sabbia circondata da altissimi crostoni di roccia, visitabile fisicamente solo da mare, a meno che non la si guardi dall’alto, come si accarezzano gli inaccessibili miracoli. Su di essa giace, secolare, un relitto.

Un ammasso di legno che, visto nel suo singolare abbandono, potrebbe tutt’al più trasmetterci qualcosa sul mistero dei suoi antichi navigatori, incuriosirci sulla loro sorte, ma non incantarci per la bellezza. Quello della spiaggia di Zacinto, invece, appare come il dettaglio naturale atto a compiere uno scenario perfetto di quiete e mistero, il non più utile annoverato tra le bellezze naturali della Terra.

Osservando quel relitto nel suo insieme, abbiamo come l’impressione che incarni quello nostro interiore, quello che abbiamo dentro, ossidato vulnus subito e custodito per una vita intera, frantumaglia fattasi tuttavia ormai sostrato, quel “paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo senza l’ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l’effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere” (E. Ferrante, La frantumaglia, 2003, p. 126).

In pratica, il relitto rappresenterebbe la rimozione, la pietra angolare su cui poggia tutto l’edificio della psicoanalisi, dunque il relitto appare come rimosso psicologico. Il paziente vuole dimenticare e “intenzionalmente” mantiene, respinge o rimuove fuori dal suo pensiero cosciente, dando origine così alla sua nevrosi; in realtà, i contenuti rimossi sfuggono alla coscienza e sono regolati da leggi proprie come una cristallizzazione insopportabile che quindi si può trasformare in una difesa, bloccata dalla forza del desiderio inconscio che cerca invano di ritornare alla coscienza. Freud ha il sentore che al centro di questi disturbi vi siano conflitti tra forze psichiche contrapposte: da un lato, pulsioni che premono per scaturire alla coscienza sotto forma di emozioni e di rappresentazioni e, dall’altro, resistenze che bloccano loro la strada verso la coscienza.

Di fronte al relitto si realizza uno spettacolo, una messa in scena della realtà, il com’è e il com’era confondono la visione, obbligando lo sguardo dello spettatore a una scelta. “Trovo straordinario che l’immagine, diversamente dal pensiero, non imponga alcuna opinione alle cose. In ogni operazione del pensiero è sempre implicito anche un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città o su un paesaggio. Il vedere invece trascende dalle opinioni; guardando una persona, un oggetto, o il mondo noi sviluppiamo un rapporto autentico, un’attitudine sganciata da qualsiasi giudizio, in fondo percepiamo a livello puro. L’atto di vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze”. (W. Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Milano, 1992).

È un totale senso di desolazione, uno spettro visivo di un’immagine che si trasforma in una tomba dei sentimenti, né più né meno come accade al relitto dentro di noi, la decadenza di una nave-contenitore non vista più come recipiente di eventi religiosi, feste e uomini, ma imbarcazione che si scurisce e diventa desolata come la visione-sublimazione di fronte a una vecchia carcassa rugginosa e morta, che ha contenuto dolore e catastrofe portandone ancora i segni della sua lotta. In fin dei conti, cosa sono i relitti-rovine se non la rimanenza di ciò che è stato e di ciò che inevitabilmente deve essere ricordato? Non esistono brutture in natura e, se ne hanno anche solo la parvenza, questa è mitigata e sublimata dall’ambiente circostante o dalle vicende epiche che esse raccontano, come le navi abbandonate.

Pensiamo, per esempio, all’importanza del relitto in letteratura, a Odisseo, oppure a Leopold Bloom dell’Ulisse di Joyce: dall’uno all’altro, l’Io narrante compie un viaggio di ritorno alla vita che dura oltre un millennio e nello stesso tempo vive la sua vita fino alla morte della letteratura stessa, nelle isole e nei porti sta il ricordo dei naufraghi e dei naufragi insieme ai relitti. Nell’Odissea, Ulisse è un uomo “multiforme”, versatile, ingegnoso, uomo fragile ma acuto, un eroe dell’intelligenza e dell’astuzia. I suoi sforzi, la capacità di sopportare le sofferenze, la tenacia e la pazienza hanno un solo obiettivo: il ritorno in patria a Itaca. Le difficoltà, finanche la tempesta e il naufragio vengono messi in conto, l’eroe classico e il viaggiatore contemporaneo precipitano dentro il vortice della natura e dentro la spirale della civiltà moderna. Nell’Ulisse di Joyce le figure dei due personaggi principali rappresentano due facce diverse dell’Ulisse omerico: il protagonista ebreo irlandese Leopold Bloom, al termine del suo viaggio a Dublino incarna il desiderio del ritorno, Stephen Dedalus, il ribelle che vuole lasciare la sua terra e la famiglia, rappresenta la componente errabonda di Ulisse e l’amore per l’avventura.

In Boccaccio (Decameron, Giornata II, novella IV, Rizzoli, Milano, 1987) Landolfo Rufolo rappresenta il viaggiatore che sfida il destino, che già prima del Rinascimento si chiama Fortuna, con le sole forze della virtù, cioè della capacità di ingegnarsi e di aggrapparsi ai piccoli frammenti, anche istintuali, di sopravvivenza durante la cattiva sorte. Il naufragio conseguente all’attacco dei pirati fa che Landolfo Rufolo perda tutti i suoi possedimenti presenti nella nave, tra i flutti si aggrappa a una cassa, a un brandello di relitto, se lo sconforto è grande, il premio maggiore è di aver salva la vita dopo la tempesta, ancora non sa cosa nasconde il relitto. Sorpresa: quella cassa a cui si è con tutte le sue forze aggrappato, una volta salvo, contiene un inestimabile tesoro che lo ricompensa bel oltre di ciò che aveva perduto. La sua virtù viene dunque premiata dalla fortuna.

La Tempesta di William Shakespeare, composta nel 1611, è la storia di un potente mago, Prospero - duca di Milano - spodestato dal fratello Antonio, lasciato su di una piccola barca in balia delle onde insieme alla figlioletta Miranda; egli approda su un’isola deserta dove aveva trovato rifugio la strega Sicorace, madre dell’unico abitante dell’isola, il mostro Calibano. Una spaventosa tempesta farà naufragare un veliero sulla spiaggia, cambiando per sempre il destino dei protagonisti. Teatro dell’azione è l’isola bagnata dall’acqua purificatrice del mare e abitata da presenze misteriose e inquietanti. L’isola è un luogo geografico di una dimensione indefinita: una proiezione della mente che entra in rapporto con le forze di un mondo superiore, dominandole. Ne “La tempesta”, collocata in un ambiente di memoria, accanto al mago, alla sua dolce figlia Miranda, all’etero Ariele, agli spiriti che il signore dell’isola fa apparire e scomparire con un gesto, a coloro che Prospero ha costretto a mettere piede sull’isola, vediamo muovere le immagini talismaniche di Ermete, Iside e Osiride, Medea e Giasone, Orfeo ed Euridice, Amore e Psiche, Endimione e Selene, Teseo e Arianna e i sette dei-astri “ombre” delle idee superiori, che dai cieli discendono ad infondere magia alla magia dello spettacolo. La Tempesta è una strano testo. Non è una commedia, né un dramma, né un romance. Forse l’insieme dei tre generi. Letteralmente, il dramma di una psiche: il racconto cifrato della vita di Shakespeare, il racconto della propria esistenza interiore come lascia intendere a più riprese attraverso varie voci.

Il romanzo di Umberto Eco, L’isola del giorno prima, si addentra tra navi e relitti. Anzi nella Daphne, una nave relitto c’è il teatro dell’esistenza, un luogo dove spazio e tempo si toccano e si dilatano e riescono anche a scambiarsi di posto, facendo girare le lancette della bussola o dell’orologio all’indietro. Roberto de la Grive, tra il luglio e l’agosto del 1643, a seguito di un naufragio, vaga per giorni su una zattera finché trae salvezza arrampicandosi su una nave, la Daphne che si trova in una baia a circa un miglio da un’isola. La nave è apparentemente deserta. Man mano che procede nell’ ispezione, osservando l’ambiente circostante, riprende le sue forze e scrive lettere ad una signora, narrando le vicende presenti e ricordando episodi passati. È sofferente agli occhi, quindi si muove ed agisce solo dopo il crepuscolo. Non sa nuotare sicché si trova nella situazione di “aver fatto naufragio su una nave deserta”. A dire il vero la Daphne sembra abbandonata da poco: è ricca di viveri e ha una buona scorta d’acqua. La Daphne si trasforma in un Teatro della Memoria: ogni tratto gli ricorda un episodio antico o recente della sua storia. Il nuovo mondo è in contrapposizione con il mondo conosciuto. Nei ricordi di Roberto emerge la realtà della vita parigina relativa al periodo tra Richelieu e Mazarino, e nelle discussioni di salotto trapelano filosofia, usanze, costumi e letteratura dell’epoca.

Il relitto è lì solo. Agitato dalle acque e dal vento. Respira le forze ancestrali della natura, si fa suono, onda, prende vita nei processi di ossidazione, nelle muffe, nei batteri.

È in parte emerso similmente alla coscienza, anzi rappresenta simbolicamente la metapsicologia freudiana. Ancorato inevitabilmente all’inconscio (al di sotto del mare, il fondale oscuro) si affaccia con il suo Io deperito, fisso e immobile ad attrarre lo sguardo del viaggiatore che assiste allibito allo spettacolo. E ancora, sopra di lui le forze non solo del cielo, ma anche di chi lo vorrebbe lontano, forse in viaggio verso un altrove che qualsiasi uomo di mare ha immaginato. C’è un Super Io che tenta di solleticare il tempo del suo infausto riposo.

Dentro di noi si agitano e si sollevano relitti del nostro viaggio trascorso, come quella nave che viaggiava lontano ma che ora si è fermata, così cristallizzati i desideri si sono fatti vincere dalle normali difese della quotidianità. Anche loro emergono a mezz’acqua, silenziosi o irruenti, fulminei e pacati a metterci davanti alla dimensione del tempo e dell’esistenza.

“Non si può stabilire in forma generale quanto grande debba essere la distorsione e la lontananza dalla cosa rimossa, perché l’opposizione della coscienza risulti nulla. In questo campo si stabilisce un delicato equilibrio, il cui gioco ci è nascosto, ma il cui modo di operare ci lascia intravedere che si tratta dell'intervento di una forza di frenaggio ogni qualvolta l’intensità d’invadenza dell’inconscio è tale da violare la barriera opposta all’appagamento. La repressione quindi agisce in maniera del tutto individuale […]” (S. Freud, Opere, Vol.VIII, Boringhieri, Torino, 1976 )

Cos’è quel fascino inquieto che mi prende quando guardo quel relitto, in particolare quello della spiaggia, quel senso d’angoscia come fossi davanti ad un baratro sull’ignoto?

Ricordiamo che “il motivo e lo scopo della rimozione non era altro che la fuga dal dispiacere. Ne segue che il destino della quota di affetto legata al rappresentante è molto più importante del destino della rappresentazione, ed è decisivo per la nostra valutazione del processo di rimozione. Se una rimozione è incapace ad evitare l’insorgere di sentimenti di dispiacere o di ansia, dobbiamo dire che ha fallito, anche se può aver raggiunto il suo scopo sul piano della rappresentazione”. (Freud, op.cit.)

Scrive Antonio Tabucchi ne Il filo dell’orizzonte (Feltrinelli Milano, 1986, p. 9): “Per aprire i cassetti bisogna girare la maniglia a leva, premendo. Allora la molla si sgancia, il meccanismo scatta con un lieve clic metallico, si mettono automaticamente in movimento i cuscinetti a sfera, i cassetti sono leggermente inclinati e scorrono da soli su piccole rotaie. A volte, per i cadaveri non autopsiati, bisogna aiutare il meccanismo tirando con le mani, perché alcuni hanno il ventre gonfio che preme contro il cassetto superiore e ostacola il movimento. Gli autopsiati invece sono asciutti, come prosciugati, con quella specie di cerniera-lampo lungo il ventre e l’interno riempito di segatura. Fanno pensare a bamboloni, a grandi fantocci di una rappresentazione finita buttati in un deposito di robe vecchie. A suo modo questo è un magazzino della vita”.

Un magazzino interiore affastellato di ricordi, il pozzo del passato. La ricostruzione di sé, della propria identità implica necessariamente il tempo: ciò che eravamo, che siamo stati e che siamo ha luogo nel tempo. La vita intera, come in uno specchio, come il relitto che affiora a metà dal mare.

 

Altrove, fuori dal tempo

di Lorenzo Giacinto

Da sempre, Milan Kundera ci affascina con i suoi libri che ci trascinano fuori dai confini dell'ordinario, per incontrare le sottili dimensioni dell'essere. Così accade anche con "L'immortalità", il suo ultimo romanzo in cui le dimensioni temporali si dilatano fino a svanire...

 

Con una certa parte del nostro essere viviamo tutti fuori dal tempo”

KSotto quale comune denominatore, a quale ascendente particolare si possono ascrivere eventi, immagini e personaggi, tra loro così diversi come due falliti tentativi di suicidio, un dottore strampalato con il passatempo puramente ludico di bucare le gomme delle macchine, le avventure erotiche di un uomo con il soprannome di un celebre pittore, gli occhiali scuri di una donna, le evasioni ideali di sua sorella verso la Svizzera? In quale altro libro Goethe ed Hemingway, in un aldilà nel quale ogni innamorato della letteratura sognerebbe di andare, passeggiano a braccetto conversando amabilmente di questioni legate alla fama, all’immortalità, alla manomissione di biografie di geni letterari ad uso e consumo dei contemporanei e dei posteri?

Domande che sembrano essere scivolose incursioni nel nonsense o in una nebulosa semantica in districabile come una tela di ragno, ma che prendono un senso e una direzione inconfondibili nel mondo kunderiano. L’immortalità, l’ultimo romanzo scritto in ceco dal grande scrittore poi naturalizzato francese, racconta ciò che di noi, creature legate all’effimero, resta o potrebbe restare inciso nell’orizzonte più vasto dei tempi, nel respiro atemporale del pianeta. Partendo dai gesti dunque, ai quali in maniera presuntuosa attacchiamo la nostra irripetibile individualità. Da uno di quei gesti, una mano alzata in segno di saluto, nasce il racconto di Kundera. Ma siamo veramente padroni di quello che facciamo? Siamo veramente noi ad essere pienamente consapevoli delle azioni che compiamo, delle movenze che assumiamo, delle pose che prendiamo durante la nostra esistenza? Sono queste le domande che subito inchiodano il lettore, con quella inconfondibile carica seducente e al tempo stesso eversiva, timbro caratteristico dello scrittore boemo. E la risposta che egli sembra suggerirci, perché mai essa ci viene imposta con una patente di ufficialità o di arrogante verità dogmatica, è che siamo noi piuttosto ad essere usati da quello che pretendiamo di essere il riflesso più autentico della nostra soggettività di essere umani. Verrebbero in mente, per chi ha conoscenze di letteratura italiana delle origini, gli spiritelli di quel grande poeta che era il Cavalcanti, i quali, simili a dei fantasmi, infestavano la mente e i cuori delle persone, lasciando le membra pervase da una inquieta febbre dello spirito. E forse è questa la realtà della vicenda umana : ognuno di noi ripete inconsapevolmente i gesti che altri hanno già compiuto, anticipa quello che altri faranno a posteriori.

Ma non per questo la compassione che s’accompagna ai personaggi del libro viene meno, non per questo l’empatia malinconica verso l’umanità trascolora nel più bieco cinismo indifferente e sprezzante. Agnes, ad esempio, apre e chiude il libro conferendogli una nota di estrema poesia e delicatezza. La vediamo durante la narrazione, mentre smarrita e spaventata contempla la sua corporeità allo specchio, quasi a voler sfidare pudicamente quella irrevocabile condanna alla gravità, alla pesantezza dei corpi, ricercando una promessa di leggerezza altrove, in quella amena vallata in Svizzera che tanto ama e che la condurrà poi inaspettatamente alla morte. E sua sorella Laura, che invece fa della fisicità il suo totem esistenziale, il suo cavallo di battaglia.

Due modi di stare al mondo, due modi di attraversare il campo elettromagnetico delle passioni, due modi di affrontare le tempeste della vita : Agnes preferisce essere sballottata nella stiva, Laura si erge a prua accettando il confronto serrato con i colpi duri dell’esistenza. Sotto gli occhiali da sole che celano gli occhi di Laura, si agita una donna che sposa i sentimenti che schiantano, le relazioni che consumano, i moti interiori che diventano sussulti corporei, trasformandosi in materia, seni, ventri, mani che cercano l’incontro folgorante. Agnes sceglie di abdicare agli sconvolgimenti dello spirito e della carne, getta in terra durante un litigio furioso con la sorella gli occhiali da sole di Laura, come se essi fossero manifestazione concreta del groviglio superficiale delle passioni umane, cerca infine rifugio nel grembo di una casa lontana dal cerchio magico di una routine avversata ma al tempo stesso amata, scontrandosi con un destino ineluttabile, emblema della pura casualità.

Laura invece, così prorompente, voluminosa, così attaccata al guscio vibrante del corpo, così strenuamente attenta alla sensorialità del mondo e a difenderla contro qualsiasi cosa. Laura che vive ogni evento con un’emozionalità su cui sembra agire un bisturi affilato. Laura che esige di lasciare sul suo fisico le tracce di ogni schiaffo della vita, per esibirle poi fiera come se la sua pelle fosse un racconto tormentato senza voce, ma autenticamente dolente. Certo, c’è della teatralità in questo comportamento portato alle estreme conseguenze, e forse anche un tasso di egocentrismo pronto a coccolare le proprie ferite come tante gemme nascoste da portare alla luce. Si può spiegare in questi termini il suo tentativo di suicidio portato avanti come una sorta di show attento ai picchi di audience. Ma è anche indubbio che v’è nel personaggio di Laura un vibrante amore per la vita che non può destare indifferenza e che suscita un forte accento di commozione.

Cosa resta di Agnes, che ne rimane della sua difficoltà a sentirsi coinvolta nelle umane vicende? Che cosa può far di lei qualcuno o qualcosa in grado di resistere agli sbalzi capricciosi della giostra , all’alternarsi inquieto delle stagioni? Rimane la forte aspirazione a lasciare le rotte battute dai venti umani, la volontà forte ma mai totalizzante di seguire sentieri solitari, la consapevolezza di scegliere e percorrere un’alternativa che proponga l’Essere come approdo definitivo, in luogo di una effimera e peregrina felicità mai raggiungibile. Quella stessa felicità che prova Paul, il marito di Agnes e ambiguo interlocutore di sua sorella Laura, nel sentire il rumore del mare durante la notte, il mormorio marino che egli accosta alle donne, e che al tempo stesso le seleziona e le isola dalla folla chiassosa, affinché possa essere solo una a rappresentare il suo oceano personale di serene correnti sottomarine.

E che dire del professor Avenarius, confidente del narratore, che si diletta a bucare le gomme delle macchine, seguendo una logica particolare in un’azione che di logico non ha nulla? Siamo di fronte a una boutade surrealista, a uno strano scherzo di gusto dadaista o uscito dalla penna eccentrica di uno Ionesco? Molto più semplicemente, Avenarius rivendica il diritto delle sue scelte, motivate o immotivate che esse possano sembrare. In un mondo dominato dalla cura morbosa dell’immagine, da una sequenza asfissiante causa-effetto che imbriglia le esistenze umane in una tela vischiosa di relazioni sociali inconsapevolmente manovrate come dei burattini, l’unica via d’uscita verso uno spiraglio di aria pura è lo sberleffo assecondato alle estreme conseguenze, lo scherzo che si erge ad abitudine sistematica, il corteggiamento prolungato e costante di quella che poi diventerà, posteriormente, la festa dell’insignificanza.

Rubens infine, protagonista del capitolo “Il quadrante”, un uomo per cui la vita si configura come il rapporto con le donne, fino al punto da sovrapporsi ad esse. Kundera, con il solito tocco di malinconia e poesia, ci regala il ritratto indimenticabile e al tempo stesso amaro di un giovane con la passione della pittura, alla quale però preferisce la relazione con l’altro sesso. Attraverso varie fasi in cui il desiderio erotico passa per vari stadi e si evolve a seconda delle circostanze della vita, Rubens cerca di appropriarsi di qualcosa che però viene sempre meno, slittando in maniera irrefrenabile verso altre donne, senza mai appuntarsi su nessuna di essa, nonostante un forte desiderio di congiungimento e di stabilità. Sospeso sempre tra il sogno di un focolare e la tentazione di provare a se stesso che è in grado di sedurre e di imporre il proprio fascino all’infinito, Rubens finirà per consumarsi nello stesso fuoco attorno al quale per tanti anni aveva danzato, attratto dallo spettacolo affascinante ma temporaneo del proprio ascendente sull’umanità femminile.

Ad intermittenza, mentre vediamo dispiegarsi nei sette capitoli del libro le vicende alternate di questi indimenticabili personaggi, vi è spazio anche per un salto temporale di più di due secoli, nella Germania di Goethe e di Weimar. Attraverso il ritratto di Bettina, giovane donna che ha lasciato nelle sue memorie la testimonianza di un rapporto esclusivo con il più grande poeta tedesco, assistiamo alla costruzione di un mito autobiografico che trasporta la donna nel mondo della posterità, sottraendola all’oblio divoratore del tempo. Bettina crede di amare lo scrittore tedesco, e forse v’è in questa ingenua consapevolezza una qualche nota di verità, ma ben presto si scopre che la donna utilizza questa passione per lasciare una traccia indelebile nella storia delle arti. Per sopravvivere al transeunte, alla precarietà della vita per soddisfare l’insopprimibile bisogno di esistere al di fuori della propria cerchia del tempo, Bettina sa che deve legarsi a Goethe, vivere nella sua ombra, in essa e grazie ad essa vivificarsi, anche a costo di mistificazioni, fraintendimenti, poderose elucubrazioni, e infine illusioni non confessabili.

Ma nemmeno i morti possono stare tranquilli. Anche in un non imprecisato aldilà, come sentiamo affiorare dalle conversazioni di Hemingway e Goethe quasi a braccetto, coloro che sono morti vengono anatomizzati di nuovo, esposti a critiche e revisioni continue. E si sa, i morti non possono parlare, non c’è difesa alcuna o requisitoria di fronte a quello che pronunciano i vivi. Ancora una volta, in un un luogo dove il tempo sembrerebbe non avere sovranità alcuna, i vivi inchiodano i morti al tempo terreno, li reintegrano a pieno titolo nei ritmi biologici della vita.

Si è detto, a proposito di questo libro, della particolare difficoltà di collocazione in un determinato genere letterario. Non è un romanzo come lo si potrebbe intendere nel senso classico della parola, poiché le categorie spazio-temporali sono rovesciate e utilizzate in maniera spiazzante da Kundera. Non è nemmeno un saggio, sebbene alcune pagine ne abbiano l’arguzia, la lucidità e il tono adatti. L’Immortalità è un’opera complessa, che al suo interno accoglie tutti questi elementi e li rielabora a proprio piacimento, conferendo loro una luce e un colore unici, inconfondibili. Nulla è mai fuori luogo, le immagini sono nitide e vagheggiate al tempo stesso, concrete e leggere insieme, sospese in un difficile equilibrio pervaso dalla malinconia e dal sorriso pacato e un po’ amaro dell’ironia. Lo sguardo di chi, come Kundera, conosce bene il mondo e chi lo abita, senza per questo però giudicare, classificare, selezionare, schierarsi da una parte piuttosto che un’altra. Si è detto anche, utilizzando una terminologia ripresa dalla musica, ambito artistico tanto caro allo scrittore boemo, che l’opera è una sinfonia, e che al suo interno ogni singolo paragrafo è un blocco polifonico, che va a concatenarsi insieme agli altri fino ad arrivare ad un’armonia musicale in cui tutto miracolosamente si tiene. Ecco, tutto si tiene. Un barlume di intermittenza, di luce che si intravede. La possibilità di quello che si può esplorare nel mondo. Forse Kundera farebbe suoi i versi di Pindaro, che anche uno scrittore come Camus pone all’inizio del suo “Il mito di Sisifo”:

O anima mia, non aspirare alla vita immortale,

ma esaurisci il campo del possibile.”

A teatro con Bertolt Brecht

di Francesca Girardi

 

La rappresentazione teatrale diventa il luogo in cui si impara a conoscere meglio se stessi. Non è solo partecipazione passiva, ma coinvolgimento totale che raduna domande, riflessioni, stimoli...

 

Nella vita talvolta condividiamo le idee di singoli ai margini della collettività e talvolta siamo partecipi di una collettività che trascura i punti di vista dei singoli.

Imparare a essere d’accordo”: quanto possono far pensare queste parole pronunciate dal Grande coro, ovvero tre omini di carta apparsi per brevi istanti in una rappresentazione teatrale…

 

brechtUna sera, tramite un passaparola, mi è capitato di incontrare Bertolt Brecht o per meglio dire: il teatro di Brecht.

Avete mai sentito parlare di dramma didattico? È una rappresentazione teatrale che, contrariamente a quanto il termine didattico possa far pensare, non è solo inteso come insegnamento, è molto di più.

Tra il 1929 e il 1931, anni in cui sull’Europa soffiava un’aria di crisi che investiva non solo la politica, ma anche le diverse realtà sociali, Brecht si occupò attivamente a questa forma teatrale trasformando le rappresentazioni in uno strumento utile per avvicinare lo spettatore all’attore, rivolgendosi così sia al singolo sia alla collettività.

I drammi messi in scena sono volti a far partecipare attivamente gli spettatori alla ricerca di finali diversi ma che rispondano a un’importante esigenza: trovare il giusto agire nel bene di entrambi, ovvero il singolo e la società.

Se anziché dire “sì” pronunciamo “no”, cosa può accadere? Talvolta si è d’accordo con una decisione perché la si condivide veramente, oppure solo perché è conforme all’espressione “in questa situazione si prevede che ci si comporti così “?

Attorno a queste domande, o meglio riflessioni, ha ruotato l’interessante e originale serata che mi ha visto spettatrice della messa in scena del dramma didattico “IL CONSENZIENTE E IL DISSENZIENTE”.

Ve la descrivo in tutto il suo svolgimento.

La rappresentazione ha inizio: le gentili note di un trombone regalano una rivisitazione blues dell’aria del PROMETEO di Beethoven e accompagnano in scena l’attrice, che inizia a presentare al pubblico i diversi personaggi del dramma. Recita parti di dialogo con diverse tonalità di voci e poi passa all’azione. Un semplice tavolo assume le sembianze di un palcoscenico dove omini bianchi di carta, ovvero i protagonisti del dramma, prendono vita dando inizio a “IL CONSENZIENTE”.

Rapidamente e con leggiadria si svolge la trama: dietro a una casa di carta, si trova un figlio e sua madre, colpita da un’epidemia che ha coinvolto il paese. Bussa alla loro porta il maestro, venuto non solo per accertarsi delle condizioni di salute della donna, ma per comunicare che andrà alla ricerca di medicine per guarire la malattia. Ecco quindi che il bambino intraprendente rincorre il maestro e, incurante del difficile viaggio, chiede di aggregarsi alla spedizione pur di trovare le medicine necessarie a guarire la madre.

Il viaggio ha inizio su uno sfondo rigorosamente di carta che ripropone montagne dai tenui colori pastello. A un tratto, gli omini di carta bianca si fermano concitati e si interrogano sul comportamento più adatto al problema che improvvisamente devono affrontare: il bambino è stremato e non riesce più a proseguire. Subito appaiono sulla scena tre omini di cartoncino, Il grande coro, ed esordiscono così: “Imparare a essere d’accordo, molti dicono di sì e tuttavia non esiste accordo. A molti non è chiesto nulla, altri sono d’accordo nell’errore… Perciò prima di tutto bisogna imparare a essere d’accordo…”.

È una sorta di voce fuori campo che distoglie per brevi secondi l’attenzione da quanto sta per essere rappresentato. La loro presenza viene poi subito inclusa nella scena sostenendo la necessità di comportarsi “nel modo in cui ci si aspetta che ci si debba comportare in questa situazione”. Così, gli studenti che partecipano alla spedizione, incalzano il maestro affinché espliciti al ragazzo la decisione da seguire: abbandonarlo e procedere nel viaggio.

È meglio sacrificare il singolo per proseguire nella ricerca della cura utile alla società. Il maestro di carta bianca si avvicina al bambino e lo informa di come la situazione dovrebbe essere risolta. Il bambino dice “” e gli omini di carta procedono il loro cammino abbandonando il bambino al suo destino.

Subito dopo ha inizio il “IL DISSENZIENTE”.

La stessa mano muove quelli che sembrano gli stessi omini di carta con quella che apparentemente sembra la stessa trama finché, nel momento di difficoltà, quando il maestro propone l’atteggiamento adeguato alla situazione, il bambino dice “No” e, dopo attimi di esitazione, tutti tornano al villaggio senza medicine, ma con il bambino. Proprio in questo attimo finale la mia mente si ricollega a quanto esplicitato dal Grande coro: imparare a essere d’accordo. E rifletto. Certo, il concetto non è poi così difficile e impossibile da seguire, l’espressione essere d’accordo si legge facilmente e si metabolizza subito. Tuttavia, sono le sfumature coinvolte nel pronunciare queste parole a non essere di immediata recezione.

Cosa vuol dire essere d’accordo? Significa rispettare una decisione, magari sostenuta dalla maggioranza anche se non la si condivide pienamente? Essere d’accordo significa condividere un punto di vista, ben illustrato nei dettagli, con tutti i pro e i contro, e quindi essere d’accordo anche se inizialmente, e forse anche dopo, nel profondo, non ci convince veramente …

Si è d’accordo perché si ritiene di doverlo essere oppure di poterlo essere? E mi chiedo ancora: si può o si deve talvolta essere d’accordo? È una possibilità o un dovere?

Con le mie riflessioni, che a inizio rappresentazione non erano presenti nemmeno nel più nascosto angolo della mente, mi accorgo di essere partecipe della rappresentazione e di aver superato quel limite invisibile tra spettatore e attore.

Nel frattempo il dramma didattico è terminato e l’attrice riporta alla memoria vicende reali e contemporanee, nelle quali c’è stato il sacrificio di una vita per salvarne altre, attualizzando così quello che poco prima era solo una rappresentazione teatrale del XIX secolo, che metteva in scena l’angoscioso rapporto tra individuo e collettività.

Dopo i meritati applausi e su invito dell’attrice, il pubblico diviene protagonista e ha inizio il dibattito tra gli spettatori. Questa è stata la parte più originale: persone sconosciute, singoli, hanno iniziato a discutere su quanto Brecht fosse lungimirante nel proporre questo dramma didattico e hanno così regalato le loro riflessioni alla collettività.

Molteplici sono stati i punti di vista espressi, le ipotesi su quanti finali diversi il dramma avrebbe potuto avere e soprattutto: pesa di più la responsabilità del singolo sulla collettività, oppure quella della collettività sul singolo?

Riflessioni che non hanno una risposta certa e sicura perché tutte sono possibili e condivisibili.

Quanto il grande coro, lì raffigurato da tre cartoncini bianchi, è presente nella vita di tutti giorni? E quanto siamo disposti a discostarci da esso per seguire una strada totalmente diversa?

Quanto ci sentiamo studenti che abbandonano un loro compagno per andare a salvare la collettività e quanto ci sentiamo l’omino di carta stanco che decide di sacrificarsi per lasciare il posto agli altri? Oppure la collettività ci prende sulle sue spalle e ci riaccompagna a casa.

Il bello è che, queste riflessioni e il dramma didattico di Brecht, possono essere l’inizio di confronti e discussioni tanto nell’affrontare temi sociali importanti, quanto nell’affrontare una semplice quotidianità un po’ complicata …

 

(IL CONSENZIENTE E IL DISSENZIENTE di Bertolt Brecht.

Attore, regia e animazione dei personaggi: Annamaria Soldo)

 

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