Scrivere

Quattro sassi

di Ester Maria Schmitt

 

quattro_sassiHo tre sorelle. La più grande di noi ci ha insegnato a essere forti come rocce un’estate in cui il caldo avrebbe liquefatto qualsiasi altro materiale, un agosto feroce e tagliente come il più gelido degli inverni. Da allora ci piace pensare a noi come a quattro sassi, e credo che in parte lo siamo diventate davvero.

Quell’estate morì la mamma. Il dolore era troppo grande perché potessimo trovare conforto l’una nell’altra, ci sono cose che richiedono solitudine. Restammo unite ma affrontammo la perdita da sole, ognuna per conto proprio, dovevamo fare i conti con qualcosa di sepolto così a fondo dentro di noi che era impossibile da portare in superficie, impossibile da condividere. Per quanto, non ne dubito, provassimo tutte e quattro le stesse identiche emozioni, un’arroganza mi faceva credere di essere più triste di loro, che per me fosse più dura, più difficile, più pesante: che per me fosse diverso. Un po’ come accade agli innamorati, che sono convinti che il loro amore sia qualcosa di unico, che mai nessun altro ha provato né proverà mai.

Non so se anche le mie sorelle si sentissero come me, dovrei chiederglielo.

Non credo lo farò.


Accadde verso l’una. Tornate a casa dall’ospedale ci preparammo una cioccolata calda, nonostante le temperature roventi avevamo bisogno di scaldarci il cuore, bisogno di mettere dentro qualcosa che andasse a riempire il vuoto. La bevemmo in silenzio, cosa c’era da dire? La mia testa era piena di pensieri eppure non riuscivo a mettere a fuoco nulla, ascoltavo un rumore bianco simile a quello che mi accompagnava da piccola mentre facevo il bagno nella vasca, quando mettevo la testa sott’acqua e riuscivo a sentire, ovattata e confusa, la tivù dei vicini di sotto. Ero avvolta da una nebbia di sensazioni strane, che dovevano essermi sconosciute eppure in qualche modo mi suonavano familiari; sensazioni che ho poi ricercato più volte, nel corso degli anni, riuscendo a farle riaffiorare senza difficoltà. È sempre stato così con i ricordi, siano essi profumi o colori; sia la memoria una voce che mi rimprovera, l’acqua fredda sulla pelle durante il primo bagno al mare o i sassolini sul ginocchio sbucciato dopo una caduta in bici: pesco il ricordo e lo rivivo, annullo in un secondo più di vent’anni e piango, di gioia e di dolore, per quell’infanzia che non riavrò più.

Rimanemmo sedute così per un tempo che non saprei definire, forse passarono pochi minuti, forse un’ora; a un certo punto ci alzammo, semplicemente era la cosa giusta da fare, alzarsi e affrontare la vita.


Siamo quattro sassi, sassi di fiume levigati, con striature di colori leggeri. La vita ci ha trascinato per chilometri e chilometri, ci ha fatto sbattere contro sassi più grossi, cadere da cascate vertiginose e sprofondare nel fango, prendere da mani sconosciute che ci hanno poi abbandonato nel buio di un cassetto. Altre mani ci hanno trovato e dopo anni ci hanno ridato la luce, mani di ragazzi gentili, mani di bambina, zampe di cani fedeli. Mi chiedo se essere roccia ci abbia indurito anche il cuore, ma non so rispondermi: non ricordo più come ero prima, e faccio fatica a immaginare come sarei diventata se il mio passato fosse stato diverso. So però bene come sono adesso e so che spesso me ne pento, perché esser sasso protegge ma purtroppo anche ferisce. C’è sempre un prezzo da pagare, ma ne sono felice: dà consapevolezza a questa mia nuova natura, la riveste di importanza e responsabilità. Non posso che essere grata alla mia scorza dura, è lei che mi ha salvato.

Ma anche la pietra può essere scalfita, e questo credo di averlo sempre saputo. Da bambina i sassolini li nascondevo, cercavo luoghi nascosti dove potessero riposare protetti, al sicuro, raccoglievo sassetti ovunque andassi per poi svuotare quelle tasche piene e pesanti accanto al tronco di un albero o alla base di un cespuglio, in una buca che rivestito di foglie. Guardavo la dimensione e non il materiale, rimanevo senza fiato di fronte a una parete rocciosa in montagna, provavo una sorta di reverenza; ma per ogni sassolino, per i ciottoli, per la ghiaia io ero in pena, temevo i tombini, le intemperie, le scarpe di persone disattente. Raccoglievo queste pietruzze e le mettevo tutte assieme così che potessero farsi forza, così che ognuna vigilasse sulle compagne: esprimevo con i sassi il concetto di gruppo, di unione, una nozione che evidentemente sapevo importante ma che non riuscivo a mettere in pratica con me stessa – io cercavo la solitudine, sempre.

Non sono cambiata. Ancora oggi il più delle volte rinuncio a chiedere aiuto o consiglio e affronto da sola le prove che mi si presentano davanti. Sbaglio, perché un sassolino, se lasciato solo, viene trascinato dalla corrente e finisce a valle, sperduto, tanti sassi insieme invece possono tener su una montagna e formare una diga, possono affrontare, e vincere, le sfide più dure. Ma noi sassi siamo testardi, caparbi, siamo pietra dura cocciuta e ostinata. Ci avviciniamo, in certe occasioni, ma poi per qualche motivo torniamo sui nostri passi. Preferiamo stare sole, soffrire di più e fare più fatica; preferiamo questo, oppure qualcosa, nella condivisione e nell’unione, ci spaventa.

A volte penso che con la mamma se ne sia andato anche il legante, il filo che ci univa era lei. Ci siamo fatte sassi, ci siamo fatte donne adulte ma abbiamo scordato le parole della mamma. Hai tre sorelle, mi diceva, non dimenticarlo mai.

Chissà chi di noi tre farà il primo vero passo, vorrei essere io. Vorrei tornare la bambina premurosa che ero un tempo, prendere noi sassolini nella manina, andare in cerca di un riparo ai piedi di un albero, scavare una piccola buca e lì posarci, tutte e quattro, l’una accanto alle altre. Farei tornare il collante, farei rivivere la mamma e le farei sapere che alle sue parole io penso sempre e che continuerò ogni giorno a ripetermi nella mente la sua raccomandazione, fino a farla mia.

Ho tre sorelle.

 

Buoni lettori e buoni scrittori

di Francesca Pacini

Estratto da: Vladimir Nabokov, Lezioni di Letteratura, Garzanti 1992.

 

buoni lettori«Come essere un buon lettore» oppure «Gentilezza verso gli autori» – qualcosa del genere potrebbe fungere da sottotitolo a queste riflessioni su vari autori, dato che mi propongo di occuparmi con amore, indugiando amorevolmente sui particolari, di alcuni capolavori della letteratura europea. Cento anni fa, in una lettera all'amante, Flaubert scriveva: Comme l'on serait savant si l'on connaissait bien seulement cinq ou sìx livres («Come saremmo colti se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri»).
Quando si legge, bisogna cogliere e accarezzare i particolari. Non c'è niente di male nel chiarore lunare della generalizzazione, se viene dopo che si sono amorevolmente colte le solari inezie del libro. Se si parte invece da una generalizzazione preconfezionata, si comincia dalla parte sbagliata e ci si allontana dal libro prima ancora di aver cominciato a capirlo. Non c'è niente di più noioso e di più ingiusto verso l'autore che mettersi a leggere, per esempio, Madame Bovary, con l'idea preconcetta che sia una denuncia della borghesia. Non dimentichiamo che l'opera d'arte è sempre la creazione di un mondo nuovo; per prima cosa, dovremmo quindi studiare questo mondo nuovo il più meticolosamente possibile, come se fosse qualcosa che avviciniamo per la prima volta e che non ha alcun rapporto immediato con i mondi che già conosciamo. Una volta studiato attentamente questo mondo nuovo, allora soltanto possiamo analizzarne i legami con altri mondi, con altri settori della conoscenza.
È lecito aspettarsi, da un romanzo, informazioni su determinali luoghi e epoche? Si può essere così ingenui da credere di imparare qualcosa sul passato da quei voluminosi best-sellers che i vari club del libro spacciano per romanzi storici? E che dire poi dei capolavori? Possiamo fidarci dell'Inghilterra dei proprietari terrieri raffigurata da Jane Austen con i suoi baronetti e le sue architetture di giardini, quando la sola cosa che lei conosceva era il salottino di un ecclesiastico? E Casa desolata, questa storia fantastica in una Londra fantastica, possiamo definirla uno studio della Londra di cento anni fa? No di certo. E lo stesso vale per gli altri romanzi di cui ci occuperemo. La verità è che i grandi romanzi sono grandi fiabe – e i romanzi di questo corso sono fiabe eccelse.
Il tempo e lo spazio, i colori delle stagioni, il movimento dei muscoli e delle menti, sono per gli scrittori di genio (per quanto possiamo intuire, e io confido che la nostra intuizione sia giusta) non concetti tradizionali che si possono prendere a prestito dalla biblioteca circolante delle verità correnti, bensì un susseguirsi di sorprese uniche che i massimi artisti hanno imparato a esprimere nella loro unica maniera. Il compito di adornare il luogo comune è lasciato agli autori minori: essi non si preoccupano di reinventare il mondo; si limitano a tirar fuori il meglio da un determinato ordine delle cose, secondo i modelli tradizionali della narrativa. Le varie combinazioni che questi autori minori riescono a creare entro questi limiti prestabiliti possono avere una loro effimera attrattiva, perché i lettori «minori» amano riconoscere le proprie idee gradevolmente camuffate. Ma lo scrittore vero, quello che fa ruotare i pianeti e plasma un uomo dormiente e armeggia impaziente con la sua costola, lo scrittore di questo tipo non ha valori prestabiliti a disposizione: deve crearli lui. L'arte dello scrivere è un'attività assai futile se non comporta anzitutto l'arte di vedere il mondo come potenzialità narrativa. La sostanza di questo mondo può essere abbastanza reale, ma non esiste affatto nella sua totalità: è caos, e a questo caos l'autore dice «Via!» permettendo al mondo di guizzare e di fondersi. Viene allora ricombinato nei suoi stessi atomi, e non solo nelle sue parti visibili e superficiali. Lo scrittore è il primo che ne traccia la mappa e che dà un nome agli oggetti naturali che esso contiene. Quelle bacche sono commestibili. Quella creatura screziata che ha attraversato di corsa il mio cammino può essere domata. Questo lago tra questi alberi lo chiameremo Lago Opale o, più artisticamente, Lago Rigovernatura di piatti. Quella caligine è una montagna… e quella montagna deve essere conquistata. Su un ripido sentiero impervio s'arrampica il grande artista; e in cima, sulla cresta ventosa, chi credete che incontri? L'ansante e felice lettore, e lì i due spontaneamente s'abbracciano e restano uniti per sempre se il libro dura per sempre.
Una sera, in un remoto college di provincia, dov'ero capitato in occasione di un giro di conferenze che si era prolungato oltre il previsto, proposi un piccolo quiz; su dieci definizioni del lettore, invitai gli studenti a scegliere quattro risposte che, messe assieme, indicassero i requisiti del buon lettore. Ho smarrito quell'elenco, ma, per quanto ricordo, le definizioni erano più o meno queste. Un buon lettore dovrebbe:
1. appartenere a un club del libro;
2. identificarsi con l'eroe o con l'eroina;
3. concentrarsi sull'aspetto socioeconomico;
4. preferire una storia con azioni e dialoghi a una che non ne ha;
5. aver visto il film tratto dal libro;
6. essere un autore in erba;
7. avere immaginazione;
8. avere memoria;
9. avere un dizionario;
10. avere un certo senso artistico.


Gli studenti si mostrarono in massima parte favorevoli all'identificazione emotiva, all'azione e all'aspetto socioeconomico o storico. Ma, naturalmente, come voi avete intuito, il buon lettore è chi ha immaginazione, memoria, un dizionario e un certo senso artistico, quel senso che mi propongo di sviluppare in me e negli altri ogni volta che mi si presenta l'occasione.
Tra parentesi, io uso il termine lettore in un'accezione molto libera. Strano a dirsi, non è possibile leggere un libro, si può soltanto rileggerlo. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un «rilettore». E vi dirò perché. Quando leggiamo un libro per la prima volta, il processo stesso di spostare faticosamente gli occhi da sinistra a destra, riga dopo riga, pagina dopo pagina, questo complicato lavoro fisico sul libro, il processo stesso di imparare in termini di spazio e di tempo di che cosa si tratti, si frappone tra noi e la valutazione artistica. Quando guardiamo un quadro, non dobbiamo spostare gli occhi in una maniera particolare, anche se il quadro, come un libro, contiene elementi da approfondire e sviluppare. L'elemento tempo non ha molto peso in un primo contatto con un quadro. Nel leggere un libro, dobbiamo invece avere il tempo di farne la conoscenza. Non abbiamo un organo fisico (come è l'occhio per il quadro) che recepisca il tutto e possa poi goderne i particolari. Ma a una seconda o a una terza o a una quarta lettura, ci comportiamo, in un certo senso, di fronte a un libro come di fronte a un quadro. Non confondiamo però l'occhio fisico, quel capolavoro mostruoso dell'evoluzione, con la mente, un prodotto ancor più mostruoso. Un libro, qualunque esso sia – un'opera d'invenzione o un'opera di scienza (il confine tra le due non è netto come generalmente si crede) – un libro di narrativa fa anzitutto appello alla mente. La mente, il cervello, il sommo della vibratile spina dorsale è, o dovrebbe essere, il solo strumento da usare su un libro.
Stando così le cose, vediamo ora come lavora la mente quando l'accigliato lettore ha di fronte il libro solare. Prima di tutto, la tetraggine si dissolve e, bene o male, il lettore entra nello spirito del gioco. Lo sforzo di cominciare un libro, specie se esaltato da persone che il giovane lettore considera in cuor suo troppo parruccone o troppo serie, è spesso difficile da compiere; ma una volta che lo si è compiuto, le ricompense sono numerose e abbondanti. Poiché il grande artista si è servito dell'immaginazione per creare il libro, è giusto e naturale che anche l'utente del libro debba servirsi della propria.
Nel caso del lettore ci sono, tuttavia, almeno due specie di immaginazione. Vediamo dunque quale delle due è corretto usare nel leggere un libro. C'è anzitutto quella di tipo relativamente basso che cerca sostegno nelle semplici emozioni e ha carattere decisamente personale. (Ci sono diverse sottospecie, in questa prima sezione della lettura emotiva.) Sentiamo intensamente una situazione presentata in un libro perché ci ricorda qualcosa che è accaduto a noi o a una persona che conosciamo o che abbiamo conosciuto. Oppure un lettore ha caro un libro soprattutto perché evoca una terra, un paesaggio, un modo di vivere che egli nostalgicamente ricorda come parte del proprio passato. O anche, ed è la cosa peggiore che un lettore possa fare, si identifica con un personaggio del libro. Non è questo il tipo d'immaginazione che vorrei veder usare dai lettori.
Qual è allora lo strumento autentico di cui il lettore deve servirsi? È l'immaginazione impersonale e il piacere artistico. Si dovrebbe tendere, penso, a un equilibrio armonioso tra la mente del lettore e quella dell'autore. Dovremmo rimanere un po' distaccati e trarre piacere da questo distacco, e contemporaneamente godere a fondo – godere appassionatamente, godere con lacrime e brividi – il tessuto interiore di un determinato capolavoro. In questi casi essere del tutto obiettivi è ovviamente impossibile. Tutto ciò che è degno di nota è in certo senso soggettivo. Per esempio, il fatto che voi siate seduti lì può essere soltanto un mio sogno, e io il vostro incubo. Ma il lettore deve sapere quando e dove frenare la propria immaginazione, per cercare di aver chiaro il mondo specifico che lo scrittore mette a sua disposizione. Dobbiamo vedere cose e udire cose, dobbiamo vedere le stanze e gli abiti e le abitudini di coloro che le popolano. Il colore degli occhi di Fanny Price in Mansfield Park e l'arredamento della sua fredda cameretta sono importanti.
Noi tutti abbiamo temperamenti differenti e io posso dirvi sin d'ora che il migliore che possa avere, o sviluppare, un lettore è una combinazione tra il temperamento artistico e quello scientifico. L'artista entusiasta rischia di essere troppo soggettivo nel proprio atteggiamento di fronte a un libro; nello stesso modo, la freddezza scientifica del giudizio attenua il calore dell'intuizione. Se però un aspirante lettore è del tutto privo di passione e di pazienza – della passione di un artista e della pazienza di uno scienziato – è difficile che possa godere della grande letteratura.
La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzo, gridando al lupo al lupo, uscì di corsa dalla valle di Neanderthal con un gran lupo grigio alle calcagna: è nata il giorno in cui un ragazzo arrivò gridando al lupo al lupo, e non c'erano lupi dietro di lui. Non ha molta importanza che il poverino, per aver mentito troppo spesso, sia stato alla fine divorato da un lupo. L'importante è che tra il lupo del grande prato e il lupo della grande frottola c'è un magico intermediario: questo intermediario, questo prisma, è l'arte della letteratura.
La letteratura è invenzione. La finzione è finzione. Definire una storia una storia vera è un insulto all'arte e alla verità. Ogni grande scrittore è un grande imbroglione, ma lo è anche quella superimbrogliona che è la Natura. La Natura imbroglia sempre. Dal semplice imbroglio della propagazione all'illusione prodigiosamente raffinata della colorazione protettiva delle farfalle e degli uccelli, c'è nella natura un meraviglioso sistema di magie e di trucchi. Lo scrittore di storie inventate non fa che seguire la guida della Natura.
Tornando un attimo al nostro ragazzino dei boschi che gridava al lupo, possiamo metterla in questo modo: la magia dell'arte era nell'ombra del lupo da lui deliberatamente inventato, nel suo sogno del lupo. Quando poi è morto, la storia che si raccontava su di lui acquistò un valore didascalico nel buio intorno al fuoco. Ma era lui il piccolo mago. Era lui l'inventore.
Sono tre i punti di vista dai quali si può considerare uno scrittore: lo si può considerare un affabulatore, un insegnante o un incantatore. Un grande scrittore associa in sé queste tre qualità: affabulatore, insegnante e incantatore; ma è l’incantatore che predomina in lui e ne fa un grande scrittore.
All’affabulatore ci rivolgiamo per trarne divertimento, eccitazione intellettuale del tipo più semplice, partecipazione emotiva o il piacere di viaggiare in qualche remota regione dello spazio
o del tempo. Una mentalità leggermente differente cerca nello scrittore l'insegnante. Propagandista, moralista, profeta, tale è la sequenza ascendente. Possiamo rivolgerci all'insegnante non soltanto per riceverne un ammaestramento morale, ma anche per avere una conoscenza diretta, per ottenere semplici dati di fatto. Ho purtroppo conosciuto persone il cui scopo nel leggere i romanzieri francesi o russi era d'imparare qualcosa sulla vita nell'allegra Parigi o nella triste Russia. Infine, e soprattutto, un grande scrittore è sempre un grande incantatore, ed è qui che arriviamo alla parte veramente stimolante, quando cerchiamo di cogliere la particolare magia del suo genio e di studiare lo stile, le immagini, la struttura dei suoi romanzi o delle sue poesie.
I tre aspetti del grande scrittore – magia, narrazione, lezione – tendono a fondersi in un'unica fulgida immagine, perché la magia dell'arte può essere presente nell'ossatura stessa della storia narrata, nel midollo stesso del pensiero. Ci sono capolavori caratterizzati da un pensiero asciutto e limpido, che provocano in noi un fremito artistico né più né meno che un romanzo come Mansfield Park o qualunque dovizioso flusso di sensuali immagini dickensiane. Una buona formula per misurare la qualità di un romanzo sia, alla lunga, una fusione tra la precisione della poesia e l'intuizione della scienza. Per godere di quella magia un lettore accorto legge il libro di un genio non con il cuore, e neanche tanto con il cervello, ma con la spina dorsale, È lì che si manifesta quel formicolio rivelatore, anche se leggendo dobbiamo rimanere un po' distanti, un po' distaccati. Allora, con un piacere insieme sensuale e intellettuale, guarderemo l'artista costruire il suo castello di carte e il castello di carte diventare un bel castello d'acciaio e di vetro.

Tra le righe del successo

di Alessandra Giannitelli

 

Come cambia la scrittura, oggi?Come si misura la qualità? Lo scrittore non è più quello di un tempo…

 

 

08-07C'era un tempo in cui scrivere significava mettere in gioco le proprie esperienze di vita e il tormento interiore di chi – tra le righe – aveva dentro di sé l'urgenza di trasmettere qualcosa.

Scrittura significava in primis fare i conti con sé stessi e con quanto ruotava intorno alla propria esistenza, ai sentimenti e alle emozioni di vite spesso strampalate e fuori dal conforme.

Quel tempo sembra ormai destinato ai vecchi manuali di letteratura, perché il presente ci restituisce immagini distorte e sostanzialmente indefinite della scrittura e di tutto ciò che vi ruota attorno.

In un'epoca di protagonismi e smanie d'apparire a tutti i costi, che vede come primi attori persone comuni in grado di sfoderare talenti nascosti – o spesso di crearli dal nulla – e che fa dello spettacolo la base della sua struttura pseudo-culturale, non si salva nemmeno la meno artificiosa delle arti, quella che sicuramente dovrebbe scaturire da processi interiori e non da fattori troppo amici della razionalità.

Fare letteratura sembra ormai un gioco da ragazzini “aspiranti qualcuno”, il ruolo dello scrittore assomiglia sempre più alla figura di un essere che supera la realtà ma che contemporaneamente – e paradossalmente – la eclissa con la sua stessa ombra, omologandosi al contesto.

Sembra quasi che l'artista non sia più un'entità il cui sguardo superi la quotidianità e la normalità, bensì un personaggio in cerca di riflettori. Niente più anime in pena dietro una scrivania con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra, la scrittura sembra essere sempre più sulla via della spettacolarizzazione che porta alla notorietà, come canto e ballo lo sono già da anni.

Fulcro di tanto disfacimento è non solo il format del reality, che ormai spopola in tutte le direzioni, ma la percezione in sé che si ha dei libri, della letteratura e di chi la produce.

Già, “produce”, perché anche le scelte di scrittura e di pubblicazione seguono sempre più fedelmente gli ardui dettami del marketing. Non solo Masterpiece, dunque, non soltanto i talent in quanto vetrine tanto ricche quanto fatue e inconsistenti, ma la concezione di producibilità e di vendibilità del prodotto. Il processo creativo che si vuole porre sotto i riflettori non è tanto l'atto creativo di aspiranti scrittori, bensì un perverso narcisismo volto alla promozione di un prodotto che, nella sua alta risonanza rischia di distruggere ogni traccia di peculiarità e di quel processo intimistico che costituiscono la base portante dell'atto di scrivere.

E la qualità? A qualcuno interessa ancora? Viene da domandarsi quale futuro possa avere la letteratura se i margini del suo percorso sono l'autopubblicazione e la mitizzazione.

 

Punto e virgola

di Francesca Pacini

scrivereC'era una volta un punto
e c'era anche una virgola
erano tanto amici,
si sposarono e furono felici.
Di notte e di giorno
andavano intorno
sempre a braccetto.
Che coppia modello -
la gente diceva -
che vera meraviglia
la famiglia Punto e Virgola.
Al loro passaggio
in segno di omaggio
persino le maiuscole
diventavano minuscole
e se qualcuna, poi,
a inchinarsi non è lesta
la matita del maestro
le taglia la testa

(Gianni Rodari)

C'era una volta. Oggi non più.
Forse a causa della crescita vertiginosa dei divorzi, il matrimonio tra il punto e la virgola è in crisi, tanto che i due stanno tornando a ingrossare le fila dei single.
E non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
Sarà, ma io continuo ad apprezzare - pur non usandola molto - questa vecchia coppia che ha superato le nozze d'oro e d'argento.

La lingua è qualcosa di mobile, dinamico, che può ospitare stili diversi senza per questo schierare in campo odiate fazioni.
Di sicuro Kurt Vonnegut non adora il punto e virgola. Di lui dice, con fare tagliente: "Se vuoi davvero infastidire i tuoi genitori e non sei tanto audace da essere omosessuale, il minimo che puoi fare è darti all'arte. Ricordati di non usare mai i punti e virgola, però: sono ermafroditi travestiti, che non stanno a significare nulla. Tutto ciò che fanno è mostrare che sei stato all'università".
E Getrude Stein, con la sua consueta anemia di virgole:"Essi (i punti e virgola, ndr) sono più potenti più imponenti più pretenziosi di una virgola ma essi sono una virgola lo stesso. Hanno davvero in sè profondamente in sè fondamentalmnete in sè la natura di una virgola".

Su Repubblica di sabato 5 aprile Stefano Bartezzaghi dedica un lungo, interessante articolo a questa crisi interpuntiva facendone una diagnosi poco promettente per il futuro.
Del resto, la società cambia, oggi corriamo tutti e in questa corsa lasciamo andare ciò che ci sembra una zavorra. Pesano, le frasi lunghe con le subordinate, pesano gli aggettivi abbondanti, e pesa il punto e virgola (la sola virgola è più light, più leggera, in linea con il fare dietetico che contraddistingue la nostra tentazione moderna in reazione alla bulimia che ci perseguita).
Ma togliere "il grasso" alla lingua italiana non vuol dire per forza far bene. Se il vitello è cibo apprezzabile, anche la trippa ha una sua funzione.
E di questo a mio avviso si tratta, al di là della metafora alimentare.
Il punto e virgola non è inutile. E allo stesso tempo non è obbligatorio. Chissà, forse sta qui il suo dilemma.
Come dice lo Zingarelli, si tratta di un segno grafico che "introduce un membro del periodo in posizione autonoma rispetto all'antecedente". Dunque ha "un suo perché", come dicono oggi i giovani parlando fra loro.

Il vero punto (punto, non punto e virgola) sta nel fatto che tendiamo a perdere la sensibilità linguistica verso le raffinatezze della nostra prosa. Tendiamo all'omologazione, a un generico fare che perde per strada il gusto per i dettagli, per le particolarità.
Con questo non intendo incriminare chi ha chiuso in soffitta il punto e virgola. Niente affatto. Dico solo che, ancora una volta, come sempre, dovremmo guardare le infinite varianti e le infinite possibilità di un linguaggio che, vivaddio, può offrire molteplici emanazioni.

E poi mi viene un dubbio mefistofelico: se in tanta voglia di abbatterlo ci fosse l'incapacità di usarlo in modo efficace? Il posizionamento all'interno di una frase, proprio per il "colore" particolare, un po' indefinito, di questo segno che va certamente dosato, è più complesso di quello dei suoi compagni, i due punti e la virgola (ahi, qui tocchiamo un altro luogo dolente, specie per noi italiani: ci torneremo un'altra volta).
Personalmente non lo uso spesso (finora, qui, non ne ho inserito nemmeno uno) ma dipende anche dal tipo di linguaggio che uso. Se scrivessi un romanzo di un certo tipo forse lo corteggerei, forse lo inviterei nelle mie frasi.
Ma se scrivo su un blog, con un taglio meno letterario e più veloce, ricorro invece volentieri alla virgola e al punto. Rapidi, agili, dal taglio certo. A questo proposito è interessante osservare come i segni abbiano un peso diverso nel ritmo che danno alle frasi. La virgola somiglia a un taglio, a una ferita che impone una pausa, un arresto.
Il punto, il meraviglioso punto è minuscolo eppure affilato, affilatissimo (Niente trafigge più d un punto, diceva Carver a proposito del suo utilizzo in una farse, paragonato a quello dell'insopportabile punto esclamativo).

Tornando a questo dilemma, dovremmo pensare che ognuno ha il suo stile.
Non me la sento, però, di abolire definitivamente, senza appello, il punto e virgola mandandolo in soffitta insieme alle cose osbolete. Alcune case editrici lo fanno. Capisco, hanno le loro norme redazionali. Ma si può inserire una norma in un romanzo? Che è invece stile libero, flusso personale e uso individuale di un linguaggio che facciamo nostro. Vecchia faccenda, quella dello stile e dei suoi confini con la sintassi e la grammatica. Anche su questo torneremo un'altra volta.

Io continuo a difendere l'eclettismo della lingua, che può asciugarsi deliziandoci in prose dal respiro breve, come in quelle di Borges o di Calvino (ma loro che rapporto avevano con il punto e virgola? andate un po' a controllare, per curiosità...), oppure farsi trascinare dalla corrente generosa di un Proust, con le sue frasi che scendono a valle in mille rivoli.
E oggi, nella letteratura contemporanea? Oggi, di certo, il punto e virgola è in declino. Sto leggendo La solitudine dei numeri primi, mi aspettano, sul tavolino accanto al divano, Kafka sulla spiaggia e Gli imperdonabili.
Non credo ne incontrerò molti, di punti e virgola. Rischiano di finire come la famosa particella d'acqua Lete, questo è certo.

Ma se qualcuno, oggi, volesse usarli ancora, se qualcuno avesse il coraggio e la bravura di un Proust e dipingesse una cattedrale narrativa che invocasse il loro uso, e se lì fossero bene utilizzati senza far inciampare il lettore, non agiterei la matita rossa gridando all'errore nè sventolerei dichiarazioni di illegittimità e disuso .

Insomma, questo divorzio non s'ha da fare?
Risponderei che, democraticamente, dipende dalla convivenza dei due sposi (del punto e della virgola, intendo) nella penna - o nel mouse - di chi rende vitale questo matrimonio, oppure decide di celebrarne il funerale.
Se la tendenza è quella all'oblio, mi piacerebbe qualche volta essere sorpresa da qualche felice, geniale recupero.
Misteri e stupori del nostro linguaggio.

Scrivere

di Francesca Pacini

voltaire“Gentile Signora, se avessi più tempo le scriverei
una lettera più breve”
(Voltaire)

Buoni lettori, buoni scrittori (da Lezioni di letteratura, Nabokov, Garzanti)

«Come essere un buon lettore» oppure «Gentilezza verso gli autori» – qualcosa del genere potrebbe fungere da sottotitolo a queste riflessioni su vari autori, dato che mi propongo di occuparmi con amore, indugiando amorevolmente sui particolari, di alcuni capolavori della letteratura europea. Cento anni fa, in una lettera all'amante, Flaubert scriveva: Comme l'on serait savant si l'on connaissait bien seulement cinq ou sìx livres («Come saremmo colti se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri»).
Quando si legge, bisogna cogliere e accarezzare i particolari. Non c'è niente di male nel chiarore lunare della generalizzazione, se viene dopo che si sono amorevolmente colte le solari inezie del libro. Se si parte invece da una generalizzazione preconfezionata, si comincia dalla parte sbagliata e ci si allontana dal libro prima ancora di aver cominciato a capirlo. Non c'è niente di più noioso e di più ingiusto verso l'autore che mettersi a leggere, per esempio, Madame Bovary, con l'idea preconcetta che sia una denuncia della borghesia. Non dimentichiamo che l'opera d'arte è sempre la creazione di un mondo nuovo; per prima cosa, dovremmo quindi studiare questo mondo nuovo il più meticolosamente possibile, come se fosse qualcosa che avviciniamo per la prima volta e che non ha alcun rapporto immediato con i mondi che già conosciamo. Una volta studiato attentamente questo mondo nuovo, allora soltanto possiamo analizzarne i legami con altri mondi, con altri settori della conoscenza.
È lecito aspettarsi, da un romanzo, informazioni su determinali luoghi e epoche? Si può essere così ingenui da credere di imparare qualcosa sul passato da quei voluminosi best-sellers che i vari club del libro spacciano per romanzi storici? E che dire poi dei capolavori? Possiamo fidarci dell'Inghilterra dei proprietari terrieri raffigurata da Jane Austen con i suoi baronetti e le sue architetture di giardini, quando la sola cosa che lei conosceva era il salottino di un ecclesiastico? E Casa desolata, questa storia fantastica in una Londra fantastica, possiamo definirla uno studio della Londra di cento anni fa? No di certo. E lo stesso vale per gli altri romanzi di cui ci occuperemo. La verità è che i grandi romanzi sono grandi fiabe – e i romanzi di questo corso sono fiabe eccelse.
Il tempo e lo spazio, i colori delle stagioni, il movimento dei muscoli e delle menti, sono per gli scrittori di genio (per quanto possiamo intuire, e io confido che la nostra intuizione sia giusta) non concetti tradizionali che si possono prendere a prestito dalla biblioteca circolante delle verità correnti, bensì un susseguirsi di sorprese uniche che i massimi artisti hanno imparato a esprimere nella loro unica maniera. Il compito di adornare il luogo comune è lasciato agli autori minori: essi non si preoccupano di reinventare il mondo; si limitano a tirar fuori il meglio da un determinato ordine delle cose, secondo i modelli tradizionali della narrativa. Le varie combinazioni che questi autori minori riescono a creare entro questi limiti prestabiliti possono avere una loro effimera attrattiva, perché i lettori «minori» amano riconoscere le proprie idee gradevolmente camuffate. Ma lo scrittore vero, quello che fa ruotare i pianeti e plasma un uomo dormiente e armeggia impaziente con la sua costola, lo scrittore di questo tipo non ha valori prestabiliti a disposizione: deve crearli lui. L'arte dello scrivere è un'attività assai futile se non comporta anzitutto l'arte di vedere il mondo come potenzialità narrativa. La sostanza di questo mondo può essere abbastanza reale, ma non esiste affatto nella sua totalità: è caos, e a questo caos l'autore dice «Via!» permettendo al mondo di guizzare e di fondersi. Viene allora ricombinato nei suoi stessi atomi, e non solo nelle sue parti visibili e superficiali. Lo scrittore è il primo che ne traccia la mappa e che dà un nome agli oggetti naturali che esso contiene. Quelle bacche sono commestibili. Quella creatura screziata che ha attraversato di corsa il mio cammino può essere domata. Questo lago tra questi alberi lo chiameremo Lago Opale o, più artisticamente, Lago Rigovernatura di piatti. Quella caligine è una montagna… e quella montagna deve essere conquistata. Su un ripido sentiero impervio s'arrampica il grande artista; e in cima, sulla cresta ventosa, chi credete che incontri? L'ansante e felice lettore, e lì i due spontaneamente s'abbracciano e restano uniti per sempre se il libro dura per sempre.
Una sera, in un remoto college di provincia, dov'ero capitato in occasione di un giro di conferenze che si era prolungato oltre il previsto, proposi un piccolo quiz; su dieci definizioni del lettore, invitai gli studenti a scegliere quattro risposte che, messe assieme, indicassero i requisiti del buon lettore. Ho smarrito quell'elenco, ma, per quanto ricordo, le definizioni erano più o meno queste. Un buon lettore dovrebbe:


1. appartenere a un club del libro;
2. identificarsi con l'eroe o con l'eroina;
3. concentrarsi sull'aspetto socioeconomico;
4. preferire una storia con azioni e dialoghi a una che non ne ha;
5. aver visto il film tratto dal libro;
6. essere un autore in erba;
7. avere immaginazione;
8. avere memoria;
9. avere un dizionario;
10. avere un certo senso artistico.


nabokovGli studenti si mostrarono in massima parte favorevoli all'identificazione emotiva, all'azione e all'aspetto socioeconomico o storico. Ma, naturalmente, come voi avete intuito, il buon lettore è chi ha immaginazione, memoria, un dizionario e un certo senso artistico, quel senso che mi propongo di sviluppare in me e negli altri ogni volta che mi si presenta l'occasione.
Tra parentesi, io uso il termine lettore in un'accezione molto libera. Strano a dirsi, non è possibile leggere un libro, si può soltanto rileggerlo. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un «rilettore». E vi dirò perché. Quando leggiamo un libro per la prima volta, il processo stesso di spostare faticosamente gli occhi da sinistra a destra, riga dopo riga, pagina dopo pagina, questo complicato lavoro fisico sul libro, il processo stesso di imparare in termini di spazio e di tempo di che cosa si tratti, si frappone tra noi e la valutazione artistica. Quando guardiamo un quadro, non dobbiamo spostare gli occhi in una maniera particolare, anche se il quadro, come un libro, contiene elementi da approfondire e sviluppare. L'elemento tempo non ha molto peso in un primo contatto con un quadro. Nel leggere un libro, dobbiamo invece avere il tempo di farne la conoscenza. Non abbiamo un organo fisico (come è l'occhio per il quadro) che recepisca il tutto e possa poi goderne i particolari. Ma a una seconda o a una terza o a una quarta lettura, ci comportiamo, in un certo senso, di fronte a un libro come di fronte a un quadro. Non confondiamo però l'occhio fisico, quel capolavoro mostruoso dell'evoluzione, con la mente, un prodotto ancor più mostruoso. Un libro, qualunque esso sia – un'opera d'invenzione o un'opera di scienza (il confine tra le due non è netto come generalmente si crede) – un libro di narrativa fa anzitutto appello alla mente. La mente, il cervello, il sommo della vibratile spina dorsale è, o dovrebbe essere, il solo strumento da usare su un libro.

 

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