“Nessuno sa di noi” di Simona Sparaco, Giunti Editore 2013


nessuno sa di noi“Di una cosa sono convinto: un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi” (F. Kafka, Da una lettera a Oskar Pollack, novembre 1903)
Nel linguaggio del corpo, quello inconscio e quasi impercettibile all’occhio umano, certi movimenti, una determinata postura, una caratteristica andatura, rivelano di noi più di qualsiasi curriculum o spicciola biografia parentale. Un’abilità sociale, allora, dovrebbe risiedere, per tutti, nell’osservare i piccoli e grandi drammi personali altrui con la grazia e discrezione di una pacata danzatrice, in punta di piedi, esattamente perché, nel linguaggio non verbale, a questa andatura corrisponde una velata insicurezza. Nel libro di Simona Sparaco, “Nessuno sa di noi”, la sospensione di ogni giudizio si autocrea come un imperativo, trattandosi di un argomento strettamente intimo e personale, che implica la più dolorosa e innaturale delle decisioni: quella di non far nascere il proprio figlio, vale a dire porre, ancora una volta, “dopo la Maraini e la Fallaci, un’altra donna di fronte al dolore più grande” (A. Rota, La Repubblica).
Definire la disperazione di una coppia ricorrendo al lessico più puro e ricercato, anche a voler scomodare i grandi nomi letterari, è qualcosa di intimo e inenarrabile, così come rendere al meglio il suo opposto, per citare Lev Tolstoj il quale, nell’incipit di “Anna Karenina”, ci ha ricordato che “… ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
Potremmo forse dire che è sostanziata di vari fermo-immagine, o a volte solo uno. Luce è una donna che, come tante altre e come le fertili non sanno, ha pervicacemente cercato e voluto un figlio per cinque anni: “Ci sono desideri che nascono come piccole scintille […] se non vengono soddisfatti, però, rischiano di divampare in fiamme alte e pericolose” (ebook, pos.152), sottoponendo la sua vita di coppia a quella sorta di mesto rituale fatto di temperatura basale, di sesso a comando, di calcoli: “Eravamo prigionieri di uno stick” (ebook pos.115), con un fine che giustifica comunque i complicati mezzi messi in atto a conquistarlo, quello naturale di volere un figlio; “Ho giurato a me stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta […] è stato questo l’istante esatto – ora lo so – in cui ho concepito nostro figlio”. C’è tutta la labilità della gioia nell’esordio del libro dell’autrice; Luce e Pietro immortalati nell’ambulatorio per fare una delle ultime ecografie in vista del parto: “Chissà perché sono sempre così insignificanti i pensieri, un attimo prima dell’impensabile” (ebook pos.29). Quello che segue, offrirà il fianco debole di Luce, quello che la Duras collocava tra l’anca e le costole a coprire gli organi delicati, alla falange sociale irriducibile e tenace di coloro che credono che occorra accettare la vita ad ogni costo, anche quando quella vita è imperfetta, destinata a un futuro incerto e menomato. Il bambino che deve nascere è affetto da un’anomalia genetica grave che non gli permetterebbe una vita normale, qualora riuscisse a sopravvivere; oltre la vertigine c’è una scelta da fare, portare avanti la gravidanza e far nascere un bambino con tutte le gravissime conseguenze del caso o interromperla volontariamente, oltre i limiti massimi concessi dalla legge relativa alla bioetica, interruzione che in Italia è vietata dalla stessa oltre la 22ma settimana di gestazione, anche in casi estremi e supportata da referti medici: “Non abbiamo idea di dove stiamo andando. Non ci sono segnali a indicarci la direzione, nessuna orma sul terreno. Eppure, abbiamo il privilegio di poter scegliere quale sentiero ignoto intraprendere, quale via imboccare verso il nulla” (ibidem, pos.715). Una decisione va presa, nonostante l’attonito mutismo, la cecità incurante del reale, la sordità a un insostenibile dolore: “Stanno aspettando una mia risposta, ma non so se riesco a sopportare un peso del genere. Mio figlio troppo debole per vivere e troppo potente per morire” (ibidem, pos.978).

Partono dunque alla volta di Londra, per essere di colpo traghettati verso un passo irreversibile dove la disperazione, quella vera, non ha il repertorio retorico delle frasi di circostanza, ma neppure dell’autoconvinzione assoluta, ha solo l’aspetto di casotto abbandonato, di una pancia oramai vuota. L’edificio deserto non ha in sé né comodità né arredi, potrebbe averne, ma li rifiuta. L’apparente afasia emotiva di Luce si scontra inevitabilmente con il necessario ritorno alla normalità messo in atto da Pietro, che si ostina a non capire e a non voler accettare questa deriva, senza data di scadenza, della compagna. L’elaborazione del lutto passa necessariamente attraverso la trascuratezza di sé e degli altri, armati unicamente di un solidale dispiacere che non colma, né può attingere alcunché ad un “pozzo abbastanza profondo in cui gettare anche questo”, per citare Sereni. Lorenzo, il bambino mai nato, non può passare sotto il silenzio imbarazzato di chi considera la scelta di questi genitori un’onta, una vergogna da nascondere, un incidente di percorso sottaciuto. L’interiorità di una donna, che accoglieva in sé la vita di cui è stata depredata, è un campo minato che desidera saltare in aria del tutto, per non dover più soffrire, o essere abbandonato per sempre, ma pur sempre pronto a saltare.

In uno stile privo di pietismo, la Sparaco offre più pause riflessive ai lettori, non solo sulla questione fondamentale che tratta e in cui il pubblico si spaccherebbe inevitabilmente tra innocentisti e colpevolisti: quale tipo di supporto hanno o possono auspicare, in Italia, le coppie coinvolte in simili dinamiche e, ancor peggio, prive dei mezzi economici di cui beneficiano i protagonisti? Perché l’impossibilità di avere un figlio deve rappresentare, in società, una colpa spesso penalizzata dallo scarso supporto medico e dalle restrittive misure di cui si è dotato un paese tradizionalmente cattolico, rimasto indietro di un secolo anche nella riflessione filosofica? Per quale ragione dovremmo moralmente giustiziare una coppia che sceglie di non mettere al mondo un bambino per gravissimi motivi di salute? Dovremmo convincerci che il senso di civiltà comincia e si sviluppa soprattutto nella solidarietà umana, e non nella ghettizzazione di chi fa scelte diverse dalle nostre, perché in fondo, in un verso o nell’altro: “Siamo tutti costantemente alla ricerca di una cura, una cura che ci stravolga, che ci cancelli persino, purché ci salvi. Che ci faccia tornare indietro o che ci spinga in avanti. Anche dopo aver sconfitto l’incurabile, torniamo tutti, prima o poi, alla ricerca di una cura” (ibidem, pos. 84). L’argomento è vasto, e talmente delicato che nessuno, prima della Sparaco, aveva scelto di trattarlo tra le pagine di un libro. Visto il suo successo e le numerose sue recensioni, è auspicabile che in esso si siano riflesse tante donne unite dal medesimo destino di Luce, quello della via smarrita e che molti altri lettori abbiano finalmente interiorizzato il proverbio indiano che dice: “Ogni volta che vuoi giudicare qualcuno, cammina per tre lune sui suoi mocassini”. Finalmente, dalle numerose crepe Luce, di nome e di fatto, lascia filtrare un po’ di sé, come direbbe Cohen, rendendosi consapevole del dolore sotterraneo del compagno.

Come sarebbe facile la vita se si potesse vivere solo un eterno presente, senza percezione della fine, quello stato che Borges definiva “immortalità”, la condizione di un cane, per esempio, che si accontenta delle briciole di affetto e si appiattisce sui ritmi di chi gli colma la ciotola. Abbiamo preteso l’evoluzione, una testa pensante, un cuore battente e questo implica una dose di dolore spesso insopportabile, a cavallo tra l’infanzia e l’età senile, che sono indubitabilmente “i due stati più profondi in cui ci è dato vivere. In essi si rivela la vera essenza di un individuo, prima o dopo gli sforzi, le aspirazioni, le ambizioni della vita […] Gli occhi del fanciullo e quelli del vecchio guardano con il tranquillo candore di chi non è ancora entrato nel ballo mascherato oppure ne è già uscito. E tutto l’intervallo sembra un vano tumulto, un’agitazione a vuoto, un inutile caos per il quale ci si chiede perché si è dovuto passare” (M. Yourcenar, Archivi del Nord, Einaudi). L’infanzia, anche nella vita di Luce, è un indelebile timbro di lacca rossa, il passato batte dentro come un secondo cuore, diceva Banville ne “Il mare” e non è più quello minuscolo di Lorenzo; i suoi ricordi di figlia latitano e, se vi sono, mischiano momenti in cui la madre si prende cura di lei a quelli in cui la stessa le chiede sempre qualcosa in cambio: “Murata in una solitudine diversa da quella degli altri bambini, mentre cova rancore e insoddisfazione nel tentativo di imitare l’unico modello disponibile” (ibidem, pos. 2289). Senza mai volerlo, le frustrazioni dei nostri genitori si infiltrano in noi, stillano il percolato con cui da adulti faremo i conti, armati dei soli denti di iena dei ricordi, un retaggio mitologico di problematiche venefiche.
Lorenzo, il bambino non nato, ha reso Luce madre per sempre. Da questo lei può ripartire, oltre il labirinto cupo, un passo alla volta, e tornare a respirare.


Recensione di “Nessuno sa di noi” di Simona Sparaco, Giunti Editore 2013


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Nata a Palermo, dove consegue la laurea in filosofia di primo livello, completa i propri studi presso...Read more >>
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