Se una notte d'inverno

Sul tetto del mondo

di Irene Trevisan

 

ariasottileFino a che punto è disposto a spingersi un uomo assetato di avventura, adrenalina, desiderio di superare i propri limiti? Aria sottile è un magnifico e abbagliante dipinto del sottile equilibrio che esiste tra desiderio sfrenato di conquista e attaccamento viscerale alla vita; un invito a riflettere su come ogni minima decisione, valutazione, imprudenza possano far pendere l’ago della bilancia dalla parte della vita o della morte. “Mentre salivo lungo il filo della cresta sommitale aspirando ossigeno nei polmoni malconci, assaporavo uno strano e ingiustificato senso di calma. Il mondo oltre la maschera di gomma era stupendamente vivido, ma non sembrava del tutto reale, come se mi proiettassero davanti agli occhiali un film a rallentatore. Mi sentivo stordito, distaccato, del tutto isolato dagli stimoli esterni. Dovevo rammentare di continuo a me stesso che ai lati c’erano oltre duemila e cento metri di vuoto, che lì tutto era a rischio, che ogni passo falso lo avrei pagato con la vita.” Una visione tanto ansiogena quanto obiettiva, determinata da un’attenta e puntigliosa analisi dei fatti avvenuti sul Monte Everest nel maggio del 1996.


“Jon, ti andrebbe di andare sull’Everest?”

Questo fu l’inizio di una straordinaria e terrificante avventura vissuta dal giornalista e alpinista americano Jon Krakauer. La rivista Outside, per la quale lavorava, gli stava chiedendo di prendere parte ad una spedizione organizzata per scrivere un reportage sulla commercializzazione delle scalate dell’Everest e sul deturpamento del paesaggio ad alta quota.

Elettrizzato e allo stesso tempo spaventato dalla possibilità di realizzare questo sogno nel cassetto, potenzialmente letale ma inspiegabilmente magnetico, che lo avrebbe trasformato profondamente, alla fine Jon prese la sua decisione e in men che non si dica si ritrovò su un volo diretto in Nepal, dove fece la conoscenza del variopinto gruppo accompagnato dalle guide dell’agenzia neozelandese Adventure Consultants e da numerosi sherpa.

Caos, risciò, prostitute, odori pungenti delle strade di Kathmandu, poi la pace delle verdeggianti alture coltivate, recinti di yak, gelidi corsi d’acqua e affascinanti monumenti religiosi costruiti con pietre lungo il sentiero che si inerpicava verso l’ambita meta. Arrivo al campo base, un agglomerato di tende adagiate su un tratto pianeggiante e sassoso. Il lungo acclimatamento e le escursioni fino al Campo Uno e poi al Campo Due, con un assaggio del ghiaccio, degli ostacoli e dell’aria sempre più rarefatta che avrebbero dovuto affrontare per raggiungere la meta. “Lassù l’altitudine si manifestò come una forza maligna, che mi infliggeva un malessere simile ai postumi di una violenta sbornia di vino rosso.”

“Il vento sollevava enormi onde turbinanti di neve farinosa che scorrevano giù per la montagna come frangenti, incollando ai miei abiti uno strato di brina. Sugli occhiali si formò un guscio di ghiaccio che mi appannava la vista. Cominciavo a perdere la sensibilità nei piedi e mi sentivo le dita delle mani legnose.”

“Il crinale era spazzato da un vento alla velocità di venti nodi, che sollevava un turbine di nevischio in alto sopra la parete Kangshung, ma, sopra, il cielo era di un azzurro così intenso da ferire gli occhi.”

“Il ritrovamento del primo cadavere mi aveva lasciato fortemente scosso per alcune ore, mentre lo shock dell’impatto col secondo svanì quasi subito. Pochi degli scalatori che salivano faticosamente avevano dedicato a entrambi più di uno sguardo casuale. Era come se sulla montagna regnasse il tacito accordo di far finta che quei resti essiccati non fossero reali; come se nessuno di noi osasse riconoscere qual era la vera posta in gioco, lassù.”

Freddo, caldo, fame, nausea, stanchezza, energia, stupore, disgusto, dolore, noia, eccitazione, nostalgia di casa, trepidazione, fratellanza, confronto e prevaricazione: un’altalena incessante di sensazioni ed emozioni contrastanti accompagna questo percorso, un percorso di formazione e di crescita personale, un po’ alla Siddharta, carico di riflessioni sulla vera essenza della realtà, un cammino lento e faticoso, passo dopo passo, uno scarpone davanti all’altro per infinite volte. Una sorta di pellegrinaggio sul cammino di Santiago di Compostela. Campo Tre, Campo Quattro: ci siamo quasi. Uno sguardo alle spalle: quanta strada percorsa, quanto ghiaccio calpestato, quanta bellezza nel cuore, “… una bellezza gelida ed eterea che si accentuò man mano che salivamo”. E adesso l’ultimo tratto, il più faticoso, il più pericoloso, quello decisivo che determinerà il successo o il fallimento, la fama o l’ignominia, la reputazione e l’idea che gli altri hanno di noi e che noi abbiamo di noi stessi. Sì, noi, perché noi siamo lì con Jon, siamo Jon, gli occhi investiti dall’incomparabile riflesso del sole sulla neve, nelle orecchie lo scricchiolare delle suole sul ghiaccio e le poche e stentate parole dei compagni di scalata, il male lancinante ai piedi, ai polmoni, ovunque. Un solo obiettivo nella mente: raggiungere la vetta. Ed ecco che la straordinaria determinazione ci spinge sempre più su e piano piano spegne tutte le sensazioni corporee e, ahimè, anche la razionalità. Alcuni, i più fortunati e abili, tra cui Jon, raggiunsero la meta. Tutto si svolse in rapida successione: solo pochi minuti si concedettero per ammirare lo spettacolo che avevano davanti, “a cavalcioni del tetto del mondo”, con la mente talmente offuscata da non poter goderne appieno, come si erano immaginati. “Si ritiene che la conquista della vetta dell’Everest dovrebbe far scattare un’ondata di intensa esultanza; dopo tutto, ero appena riuscito a raggiungere, contro ogni speranza, un obiettivo che sognavo fin da bambino. Ma la vetta, in realtà, era solo il punto centrale del viaggio: ogni tentazione di congratularmi con me stesso fu spenta dalla crescente apprensione per la lunga e rischiosa discesa che mi attendeva.” Sopraggiunse una tempesta: i “vincitori”, arrivati in cima, intrapresero la via del ritorno, altri saggi pagarono il prezzo della delusione e iniziarono la discesa senza aver coronato il loro sogno, mentre alcuni audaci accecati dall’ossessione della conquista proseguirono la scalata e perirono.

Chi sono i veri vincitori? Qual è il vero obiettivo? viene da chiedersi. Proseguire imperterriti verso l’alto a qualsiasi costo, rischiando di fare la fine di Icaro, sfidare la natura come fece il capitano Achab con Moby Dick, oppure fermarsi a riflettere su cosa conta davvero per noi e accettarne le conseguenze? E ancora, riusciamo a comprendere le ragioni di chi decise di rischiare e per questo morì, riusciamo a immedesimarci nei loro pensieri e a scrutare nella loro mente o condanniamo senza appello una simile condotta? Krakauer spiega chiaramente la sua motivazione: “Avevo sempre saputo che l’alpinismo era una sfida ad alto rischio. Accettavo il fatto che il pericolo fosse una componente essenziale del gioco: senza di esso, arrampicare sarebbe stato ben poco diverso da cento altri modi di passare il tempo. Quello che mi titillava era proprio sfiorare di proposito l’enigma della mortalità, lanciare un’occhiata oltre la frontiera proibita. Arrampicare era un’attività meravigliosa, ne ero fermamente convinto, non a dispetto dei rischi impliciti, ma proprio per quelli.” Vorrei riportare una testimonianza della controparte, di chi non osa o non vuole intraprendere un’avventura simile, ma le persone prudenti in genere non sono famose, non passano alla storia, quindi credo che ognuno di noi (sempre che non abbiate scalato l’Everest…!) possa guardarsi dentro e riflettere sul proprio modo di vivere e sui propri principi. Siamo felici di come stiamo vivendo i nostri anni? Li stiamo vivendo, o solo trascorrendo? In altre parole, ci sentiamo vivi, anche senza compiere gesti estremi? Cos’è che ci fa sentire davvero vivi? Trovare una risposta a queste domande non è semplicissimo, ma credo che dovremmo almeno provarci, per non sprecare il tempo che ci viene concesso e fare tesoro di questo splendido dono che ci è stato offerto: la vita.

In De brevitate vitae, Seneca scrive: “Ci è stata data un vita abbastanza lunga e per il compimento di cose grandissime, se venisse spesa tutta bene; ma quando si perde tra il lusso e la trascuratezza, quando non la si spende per nessuna cosa utile, quando infine ci costringe la necessità suprema, ci accorgiamo che è già passata essa che non capivano che stesse passando.” Questa non vuole essere una paternale, ma un invito a ragionare su queste “cose grandissime”: non a caso Seneca sceglie di declinare la parola res, una parola che abbraccia un’ineguagliabile vastità di significati, dai più astratti ai più concreti, estremamente variabile a seconda del contesto. Sta a noi quindi interpretare questa parola e attribuirle il significato che riteniamo giusto per noi.

 

La felicità delle piccole cose

di Eleonora Mammana

Caroline Vermalle

Universale Economica Feltrinelli, 2015



“"Le persone non credono più alla loro buona stella, ed è un peccato. Si sbagliano, non c’è dubbio: lei c’è per tutti, bisogna solo prendersi la briga di cercarla. A volte brilla dentro alle piccole cose, cose minuscole. In una presenza, per esempio. Al mondo siamo in sette miliardi, eppure, per una sorta di miracolo, basta una voce, un cuore, un certo modo di vedere le cose per illuminare tutto di colpo."” (cap. 50 pag. 183)


gazzaVi siete mai chiesti che cosa vi rende felici? Non che cosa pensate che dovrebbe rendervi felici, ma ciò che realmente lo fa. Ebbene, se non l'avete ancora fatto, se non avete mai scavato davvero in profondità, prendete un foglio e incollatevi sopra delle foto o dei ritagli di giornale che raffigurino tutto quello che ritenete che davvero vi riempia la vita oppure disegnatelo. Ecco ciò che ho imparato da questo tanto lieve quanto intenso romanzo, ho imparato a comporre la mia personale “mappa della felicità”. Ed è un po' quello che sembra aver appreso, anche se a fatica, il protagonista di questa storia.


Frédéric Solis, avvocato di grido e collezionista d'arte, apparentemente sembra avere tutto ciò che un uomo potrebbe desiderare, ma la strana eredità che riceve da uno sconosciuto stravolgerà completamente la sua esistenza ribaltando tutte le sue convinzioni. Un biglietto del treno, uno per una gita in barca, un ingresso ai giardini di Giverny e uno per il Musée d'Orsay insieme a una sorta di mappa lo guideranno in un viaggio fra i luoghi dei suoi amati Impressionisti, alla fine del quale troverà un tesoro ben diverso da quanto si aspettava ma tanto più prezioso.


Caroline Vermalle affronta con delicatezza i temi dell'emarginazione, della discriminazione e dell'abbandono senza diventare melodrammatica. I personaggi che ruotano attorno al protagonista, infatti, nonostante siano stati segnati da vicende difficili e dolorose, sono ancora convinti che la felicità esista e che si debba tentare tutto per trovarla. Ecco perché uno di loro tiene il corso “La caccia al tesoro”, in cui insegna ai degenti di un ospedale a comporre la propria “mappa della felicità”, un collage in cui rappresentare la vita che si vorrebbe realmente vivere. Ed è proprio per questa fiducia smisurata nel diritto di ciascuno di perseguire il proprio bene che decidono di dare un'occasione a Frédéric per cambiare la sua esistenza e capire cosa conti davvero per lui.


Inutile dire, allora, che ciò che emerge da questo romanzo è proprio l'importanza di prestare attenzione alle piccole cose e conseguentemente di saper cogliere l'attimo, di riuscire ad “apprezzare le cose belle prima che svaniscano”. Non a caso il pittore più amato dal protagonista è Claude Monet, che amava cogliere, appunto, l'istante in cui la luce poteva modificare l'impressione visiva di uno stesso paesaggio a seconda dell'ora del giorno, della stagione e delle condizioni climatiche.


Ma credo che alla fine l'autrice abbia voluto porre l'accento su un tema al di sopra di tutti, l'amore. È questo sentimento, in fondo, che riempie le mappe di ciascuno di noi, pur sotto forme e volti diversi. L'amore di un padre o di una madre verso i propri figli, l'amore per il proprio compagno o la propria compagna, l'amore nei confronti delle persone care; ma anche l'amore per le proprie passioni, qualsiasi esse siano, e poi, forse al primo posto, l'amore per la vita. Una vita che, l'autrice sembra suggerire, va vissuta senza rimpianti, appieno, e di cui va colta ogni sfumatura.


“"È come se il pittore ti dicesse: Presto, presto, guarda i colori che ci regala il cielo. Presto, presto,

cogli la bellezza e portala nel tuo cuore. Presto, presto, ama questo giorno che finirà. Presto, presto, prima che la gazza voli via.”" (cap. 59, pag. 202)

“Ma quale amore” di Valeria Parrella

di Eleonora Mammana

Einaudi 2014

 

ma_quale_amoreDevo sbrigarmi a scrivere questo libro: ho poche ore di autonomia. Questo è un libro di viaggio del quale mi devo sbarazzare. Sono innamorata di un uomo e gli ho chiesto di accompagnarmi. Ho inventato il modo di fare un viaggio solo per stare con lui dall’altra parte dell’oceano e del mondo. Vedere l’acqua che gira nel lavandino dopo che lui si è fatto la barba, ma che gira al contrario di quando siamo a casa, ognuno nella sua casa, malati di tossico indipendenza, senza forza alcuna di mettere le nostre vite insieme.

E’ stato un errore, una pazzia, scegliere di scrivere un libro per amore, e adesso mi tocca mettercelo tutto questo amore dentro. Così quello che state per leggere, miei veri compagni di avventura, è un libro di viaggio e di amore. E perdonatemi se sembrano la stessa cosa.

 

Così inizia il primo capitolo di “Ma quale amore” di Valeria Parrella: un incipit che proietta subito il lettore all'interno di una storia interamente giocata sul sottile confine tra realtà e finzione. La trama è chiara già da queste prime righe: la scrittrice ha convinto il suo editore a finanziarle un viaggio in Argentina per scrivere una sorta di guida di Buenos Aires. In realtà il libro non è che una scusa per portare con sé Michele, con il quale ha una storia ormai alla deriva, nel tentativo di salvare il salvabile, o di chiudere per sempre.

 

Ma il romanzo non è solo questo, non è solo un racconto di viaggio sulle tracce di Borges e del tango, non è solo una storia d'amore, è il racconto di uno spaesamento. La scrittrice sa che la sua storia è al capolinea ma non riesce ad accettarlo, perciò ripercorre le tappe della sua relazione nel tentativo di trovare un perché: “Non ricordo quando è accaduto che abbia iniziato a stancarsi, a poter fare a meno, a girare il volto per darmi la guancia invece delle labbra se mi tendevo in avanti per baciarlo.” Ciò che prova è allora rabbia, delusione, alienazione. Ma questo senso di estraneità non è dovuto alla lontananza da casa, dalla sua amata Napoli, che, anzi, spesso Buenos Aires le ricorda (nella somiglianza con una trattoria, nella figura di Maradona, perfino in Borges che le fa venire in mente le liti fra suo padre, che tanto lo amava, e sua madre, che invece lo detestava). Lo straniamento è dovuto al distacco di Michele, al vuoto che ormai inesorabilmente lo separa dalla scrittrice: “Lo spaesamento è quando risali il quartiere della Pignasecca alle 13 e ti viene fame sotto il sole di Napoli e la salita, e lo chiami sul cellulare per chiedergli se vuol pranzare qualcosa con te, e lui ti risponde che non è in zona, e pure se lo fosse non sarebbe certo pronto a correre, e se pure fosse a casa non scenderebbe mica.”.

 

Il viaggio e il libro, allora, diventano una progressiva presa di coscienza da parte di una donna intrappolata nel disamore che sente finalmente urgente la necessità di porre fine a una storia ormai da tempo conclusa: “C'è poco tempo per scrivere, devo sbrigarmi a bruciare queste fotografie, che mi riportano solo a un tempo disperato e mio.

 

Con una scrittura immediata e un linguaggio scarno ed essenziale, la Parrella ci regala pertanto un'analisi lucida, pervasa da una vena ironica che impedisce al testo di cadere nel patetico.

 

E mentre decido cosa mettermi per andare a casa sua e lasciarlo, mi arriva un sms:

«mi prendo la responsabilità definitiva di mettere fine alla nostra storia»

«per sms »

«sì x nn ricadere nella trappola di questo amore»

«hai detto amore»

 

Ma quale amore”

 

Perché non è sempre e solo “Colpa delle stelle”!

di Anna Buono

anna buono

Hazel ha sedici anni, ma ha già alle spalle un vero miracolo: grazie a un farmaco sperimentale, la malattia che anni prima le hanno diagnosticato è ora in regressione. Un giorno però il destino le fa incontrare Augustus, affascinante compagno di sventure che la travolge con la sua fame di vita, di passioni, di risate, e le dimostra che il mondo non si è fermato, insieme possono riacciuffarlo. Ma come un peccato originale, come una colpa scritta nelle stelle avverse sotto cui Hazel e Augustus sono nati, il tempo che hanno a disposizione è un miracolo, e in quanto tale andrà pagato.

 

Hazel e Augustus sono giovani, giovanissimi eppure la loro storia d’amore non li vedrà invecchiare insieme, la loro è una storia tra adolescenti in cui la tenerezza e il romanticismo hanno qualcosa di nuovo, di diverso che conquista e commuove. Hazel ed Augustus, infatti, non hanno la loro canzone, ma il loro libro, “Un’imperiale afflizione”; non fantasticano sul loro futuro ma, seduti al tavolo di un ristorante in un’incantevole Amsterdam, si ritrovano ad interrogarsi sull’esistenza di un mondo dopo la morte; come i loro coetanei, anch’essi litigano con i genitori per difendere il loro diritto a decidere della propria vita, ma non sfidano la comune ansia di un genitore preoccupato per l’avvenire di un figlio bensì l’afflizione e la paura che solo il genitore di un figlio malato di cancro può conoscere. Hazel ha sedici anni e un tumore alla tiroide con metastasi polmonari al quale sopravvive grazie al Phalanxifor, un farmaco sperimentale. Ma Hazel mangia poco, se ne sta spesso rinchiusa in camera sua, sul suo letto a rileggere sempre lo stesso libro e a pensare alla morte: tutti sintomi, per sua madre, di una chiara depressione da cui vuole che la figlia venga fuori. Ma ad Hazel i suoi sedici anni bastano per capire che “… la depressione non è un effetto collaterale del cancro. La depressione è un effetto collaterale del morire …” ma accetta ugualmente di frequentare un gruppo di supporto solo perché sa che “… C’è solo una cosa al mondo più merdosa di dover combattere contro il cancro quando hai sedici anni, ed è avere un figlio che combatte contro il cancro.”. Augustus, che incontra al gruppo di supporto, al cancro non si arrende, anche se l’osteosarcoma gli ha portato via una gamba, lui non vuole essere “… una di quelle persone che diventano la loro malattia. … Come se il cancro fosse la cosa che conta ...”. Augustus ha tanta voglia di vivere e conquista Hazel nonostante la sua iniziale volontà di allontanarlo per paura di farlo soffrire nel caso in cui a morire sia prima lei. Ma i suoi sforzi servono a ben poco, lui usa il suo desiderio, il suo Premio Cancro, per realizzare quello di Hazel: portarla ad Amsterdam per incontrare l’autore di “Un’imperiale afflizione” il cui insolito finale lascia molti interrogativi senza risposta. Ma Hazel vuole conoscere quelle risposte e sa che l’unico a potergliele dare è proprio Peter Van Houten, l’autore del libro. Amsterdam regala loro un deludente incontro con lo scrittore, ma anche il loro primo bacio e la loro prima volta insieme, ed anche, purtroppo, la consapevolezza che il loro amore è avversato dalle stelle: la malattia di Augustus è ritornata più prepotente di prima (sebbene sia risultato negativo per molti mesi a qualsiasi esame specifico). Augustus muore, ma non prima di aver organizzato il suo prefunerale per il quale ha chiesto al loro amico Isaac, a cui il cancro ha portato via il dono della vista, e alla stessa Hazel, di pronunciare dinanzi a lui un elogio funebre. Al funerale, quello vero, di Augustus, Hazel non vorrebbe andarci, perché i funerali sono per i vivi, e lei non vuole “ gettare una manciata di terra dentro la sua tomba … “, non vuole che i suoi “… genitori dovessero stare lì in piedi sotto il cielo blu terso con quella certa luce del pomeriggio a pensare al loro giorno …”.

E leggendo c’è anche chi, tra queste pagine, ritrova un po’ di sé: lì nella cannula senza la quale Hazel non muove un passo, nella sua voglia di isolarsi e nella sua paura di amare e lasciarsi amare, o nell’andatura innaturale di Augustus, nella cecità di Isaac, nelle corse in ospedale nel cuore della notte, nella fragilità del padre di Hazel, nella maggiore determinazione e forza mostrata, nell’assieme, da sua madre, nel comportamento egoistico, forse troppo insensibile di Monica, la ex di Isaac. Piace Augustus, la sua determinazione nel voler cogliere tutto quanto la vita gli può ancora offrire, piacciono i suoi momenti di umana fragilità. E anche se è difficile trovare nella realtà un ragazzo malato capace di una simile forza, mi piace crederlo non del tutto impossibile; tuttavia non riesco ad immaginarmi, nel mondo vero degli adolescenti malati di cancro, un Augustus Waters che, costretto ad una sedia a rotelle, organizza il suo prefunerale chiedendo all’amico e alla sua fidanzata di leggere l’elogio funebre scritto per lui. E poi c’è lui, il carcinoma differenziato alla tiroide al 4° stadio con metastasi polmonare che ha colpito Hazel, eppure è su di lei che fa presa il Phalanxifor, regalandole dei giorni in più che ad altri sono preclusi. Un farmaco che, per quanto piacerebbe all’autore (per quanto mi piacerebbe!) purtroppo non esiste. Del resto, per stessa ammissione di John Green se si desidera leggere una vera storia sul cancro bisogna leggere altro, perché lui ha trattato la malattia e la sua cura in modo fittizio.

 

E allora leggiamo altro. Ci sono storie vere che si vivono in ogni angolo di mondo, ma che in qualcuno sembrano “essere di casa”.

Angelo, Ludovica, Agostino, Paola, Carlo, come Hazel, Isaac e Augustus, sono sì altrettanti nomi di fantasia usati però solo per tutelare quello che ancora rimane della loro dignità: le loro sono storie vere che non meritano di essere trattate in modo fittizio. Dall’altezza dei suoi 8 anni, Angelo è stato sicuramente troppo piccolo per capire bene e spiegarsi la sofferenza negli occhi dei suoi genitori, un pensiero forse vagamente simile lo avrà fatto Ludovica che a 14 anni si è portata via con sé i sorrisi e l’allegria del suo papà e della sua mamma. Chissà se Agostino, invece, prima di compiere a 20 anni lo stesso viaggio di Augustus, è riuscito a travolgere anche lui qualche ragazza con la sua stessa voglia di vivere. Chissà se Paola e Carlo, a 45 e 37 anni, hanno davvero già dato tutto nel loro ruolo di genitore, di figlio, di consorte.

Si sono ammalati, loro, ed altri tra loro continuano ad ammalarsi, senza sosta, senza alcuna finzione, senza alcun “stile di vita sbagliato”, di carcinomi, leucemie, mielomi e linfomi, nelle zone della “Terra dei Fuochi”, del Parco Nazionale del Vesuvio e dei suoi prodotti rinomati, delle ville romane sotterrate dalla munnezza (Terzigno).

Non è stata coniata ieri la definizione di quella che è tristemente nota come “Terra dei Fuochi”: si tratta di un’area molto vasta che comprende svariati comuni del Napoletano e del Casertano, in cui dagli anni ’80 avviene il sistematico smaltimento di rifiuti tossici, spesso dati alle fiamme devastando le coltivazioni e non solo. Ė da ricordare che è stato accertato che “… solo nel gennaio 2007 in aree agricole del Napoletano risultano bruciati 30mila chili di rifiuti. … Da anni secondo uno studio l'incidenza di patologie tumorali nell'area risulta altamente superiore alla media nazionale. Lo ha certificato l'Organizzazione Mondiale della Sanità in uno studio presentato ad aprile 2008, riferito a dati rilevati negli anni a cavallo del 2000. Ma già a metà anni '90 una relazione della commissione Parlamentare per l'Emergenza Rifiuti in Campania lanciava un allarme, avendo riscontrato un alto tasso di metalli pesanti (cadmio, piombo, nichel, ferro) in frutta e verdura coltivata in quella zona. …” .

Studi e analisi si sono succeduti negli anni: nel 2013 lo studio (inizialmente insabbiato) condotto dall’ARPAC (l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale in Campania) che ha messo in risalto il forte stato di inquinamento delle falde acquifere di Terzigno (come riportato in un articolo datato novembre 2013 del “Il Fatto Quotidiano”). A tale indagine si aggiunga lo studio Sentieri compiuto dal Ministero della Salute in cui si è evidenziato che sia nel Vesuviano sia nella “Terra dei Fuochi” l’esposizione a discariche e inceneritori ha determinato un incremento nei casi di tumori e malattie respiratorie che colpiscono in particolare i bambini. Conferme in tal senso giungono di recente anche dall’Istituto Superiore di Sanità (come si legge in un articolo sul “Il Mattino” dell’11/01/2016).

 

E c’è chi di veleni continua ancora a morire. Gli Angelo, Ludovica, Agostino, Paola, Carlo continuano ad accendersi, spesso, sempre più spesso, “… come un albero di Natale, … Lungo tutto il torace, l’anca sinistra, il fegato, dappertutto …”. Ma non hanno, loro, il tempo di brillare della stessa allegria di un albero di Natale. Sono figli giovani, giovanissimi i cui sogni si spengono ancora prima di vedere l’alba, sottratti all’amore che avrebbero avuto il DIRITTO di dare e di ricevere; sono madri che nascondono le lacrime nel cuore con la consapevolezza che non potranno accompagnare ancora a lungo i loro figli in questa vita, non avranno la gioia di piangere ed emozionarsi, come solo una madre può, il giorno del loro matrimonio o della loro laurea; sono padri, un tempo giovani e forti, che invecchiano in un colpo solo, e che sussurrano alle loro compagne, di risparmiare, di risparmiarsi, di non perseverare in una lotta impari contro un nemico che difficilmente li lascerà vincere, perché arriverà il momento in cui saranno chiamate ad essere madre e anche padre.

“… una granata …”, forse è proprio così che si sentono e non vogliono null’altro che “minimizzare le vittime …”.

 

Una granata … E se per qualcuno quei nomi ad un certo punto cominciano a perdersi per strada, a diventare numeri con cui si aggiornano statistiche, per qualcun altro quei nomi sono un punto di partenza, sono Vite che non devono essere dimenticate. Per questo i cittadini non si arrendono. Fieri, instancabilmente fieri, vanno avanti.

E così, sul finire del 2015, si concretizza la realizzazione del progetto “Perseo” a Terzigno (già balzata agli onori della cronaca per le rivolte antidiscarica del 2010).

Si tratta di “... un percorso a tappe, ognuna dipendente dalla precedente. La Prima tappa è stata realizzata con la redazione di un Report Sanitario - ambientale dal quale è emersa una situazione allarmante di un territorio martoriato.” Come è possibile leggere dal suddetto Report “La storia, dell’ultimo trentennio del territorio terzignese, è stata un ripetersi di uno scempio ambientale senza precedenti. In un area di soli 17 km2, ad alto interesse ambientale, data la presenza del Parco Nazionale del Vesuvio, troviamo ubicate tre discariche non autorizzate, una discarica autorizzata (Sari), un sito di stoccaggio di rifiuti provvisorio (Cava Ranieri), un sito di produzione di Biogas, due siti di stoccaggio di eco-balle, entrambi incendiati, più di una cinquantina di eco-reati accertati, roghi tossici, dovuti all’incendio perpetuo di cascami, amianto e pneumatici, che si protrae ancora oggi”.

A questa prima tappa ha fatto seguito una seconda designata come IO LO FACCIO: “Una fase basata sulla sensibilizzazione e su un imprescindibile censimento per un’analisi dei dati indispensabili ad una mappatura del territorio rintracciando quelle che potrebbero essere le linee di salvaguardia. Una campagna, quindi, di sensibilizzazione per l’analisi del rischio Tumore e delle malattie ambientali nel territorio...” . Il censimento, anonimo e volontario, dal 1 dicembre 2015 fino al 31 gennaio 2016, permetterà di ottenere i dati utili per una mappatura sanitaria - ambientale del territorio. (Per chi lo desiderasse potrà seguire gli sviluppi dell’iniziativa attraverso la pagina Facebook ad essa dedicata).

Un fiocco rosa è stato assunto quale simbolo di questa iniziativa perché il fiocco è “simbolo di nascita e la nascita è speranza”.

Io viaggio da sola, e non ho bisogno di un manuale...

di Eleonora Mammana

mammanaQualche mese fa, gironzolando a caccia di libri, mi sono imbattuta in un titolo molto promettente, “Io viaggio da sola” (Giulio Einaudi Editore, Torino 2102), di Maria Perosino, autrice fra l'altro precocemente scomparsa. Dal momento che amo particolarmente viaggiare da sola, devo ammettere che ho iniziato a leggere questo testo con grandi aspettative. Credevo, infatti, che vi avrei ritrovato tutti quegli aspetti che tanto mi fanno apprezzare questa esperienza. E li ho trovati, in parte, ma ritratti da un punto di vista totalmente diverso dal mio.

 

Fin dalle prime righe “Io viaggio da sola” si rivela essere una sorta di manuale di sopravvivenza. Già, un vademecum per donne che si trovano, loro malgrado, a viaggiare da sole. Con tanto di istruzioni su cosa mettere in valigia e su come trasportarsela appresso, sui criteri da adottare per scegliere l'albergo e il ristorante giusto, sui vantaggi e gli svantaggi di andare in giro accompagnate da amici/che, colleghi/e o amanti, sul modo in cui affrontare la malinconia, sempre alle porte, su come spostarsi in treno... Insomma dodici capitoli dedicati a offrire consigli, per lo più di ordine pratico, a chi, da sola, in realtà, non vorrebbe viaggiare mai.

 

L'impressione che si ha nel leggere questo libro, perciò, è che sia indispensabile prendere qualche precauzione prima di affrontare un viaggio in solitaria, al fine di evitare di essere sopraffatti dalla solitudine e dall'imbarazzo che essa suscita in chi si trova di fronte a chi solo non è, almeno apparentemente.

 

Per di più, nonostante nella conclusione del libro l'autrice dichiari di non aver mai pensato che esistano cose che in quanto donna non si possano o non si debbano fare, dedicando, di fatto, questo manualetto esclusivamente all'universo femminile, sembra proprio intendere il contrario: viaggiare da sole risulta essere un problema esclusivamente per le donne in quanto tali.

 

La prima obiezione che mi viene da muovere, pertanto, è: siamo sicuri che solo alla donna crei imbarazzo mostrarsi in pubblico, ad esempio in un ristorante o in una caffetteria, non accompagnata? Non credo proprio. Sono convinta che il disagio dettato dal timore di ciò che qualcuno può pensare di noi, soprattutto se facciamo qualcosa di insolito, possa colpire chiunque. La sensazione di essere soli, che è poi ciò che suscita quella paura di essere giudicati, e che è ciò che può far diventare un problema invece di un piacere il viaggiare da soli, a mio parere è comune sia agli uomini che alle donne.

 

Il secondo appunto è poi: cosa vuol dire viaggiare da soli? È questo che crea problemi, l'essere soli? O è forse il “sentirsi” soli a suscitare sensazioni spiacevoli e a impedire di gustarsi una vacanza? Ma allora se una persona sta bene con se stessa per quale motivo dovrebbe sentirsi a disagio nel trovarsi sola in mezzo a tanti sconosciuti? E, pertanto, che bisogno c'è di un manuale per imparare a spostarsi da soli senza sentirsi tali?

 

In fondo, in realtà, credo che il messaggio che la Perosino volesse trasmettere fosse proprio questo, solo che per farlo ha scritto una guida di cui nessuno dovrebbe aver bisogno...

 

Detto ciò, quali sono quei dettagli che fanno apprezzare tanto qualche giorno fuori porta senza la compagnia di fidanzati/e, amici/che, colleghi/e? In primo luogo, a mio parere, la possibilità di rispettare maggiormente i propri tempi, ascoltando soltanto le proprie esigenze, senza bisogno di rendere conto di niente a nessuno. Personalmente in vacanza amo molto leggere e ascoltare musica. Ebbene, sono due attività che tendono a isolare dalla realtà, perciò se si è in compagnia, in genere, si cerca di limitarle. Se ci si trova da soli, invece, si ha la libertà di trascorrere anche l'intera giornata immersi in un libro sotto l'ombrellone, magari sospendendo la lettura solo per fare un tuffo in mare all'ora di pranzo, quando la maggior parte dei turisti, e degli accompagnatori, solitamente si reca a mangiare.

 

In secondo luogo penso che quando si è da soli si tende ad amplificare i propri sensi: quando ci si gusta un buon pasto, lo si gusta appieno, perché non si hanno altre distrazioni; oppure si può scegliere consapevolmente, per diletto, di origliare la conversazione dei vicini... Per non parlare poi delle sensazioni che si assaporano quando ci si dedica esclusivamente alla cura del proprio corpo: pensate a un soggiorno benessere, durante il quale preoccuparsi solo di godere di trattamenti e massaggi. E ancora, quanto è piacevole il silenzio! Trovo fantastico non dover per forza dire sempre qualcosa per non sembrare inopportuni con chi ci sta accanto. Nulla vieta, poi, peraltro, di fare nuove conoscenze.

 

Insomma, se non ci si sente soli, da soli si può fare davvero qualsiasi cosa, o quasi, compreso il godersi una bella cena in un ristorante senza provare il minimo disagio nei confronti della coppietta seduta al tavolo di fronte.

 

Per concludere se la nostra scrittrice sostiene che: “Viaggiare da sole non significa affatto essere sole. Significa che vi dovete arrangiare a portare la valigia”, io invece ritengo che: “Viaggiare da soli non significa affatto sentirsi soli, significa avere la prerogativa di fare per una volta solo ciò che si desidera fare”.

 

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