Se una notte d'inverno

Matt Haigh: Gli umani

di Francesca Girardi

Gli umaniUna copertina di colore blu, punteggiata da puntini bianchi che richiamano l’immagine di un cielo notturno e stellato. Un cane che sembra essere fermo in un prato e volgere lo sguardo in alto, verso quel ben delineato baffo di colore che ha l’aria di essere una stella cadente.

Mi ha colpito questa illustrazione e così, tra le interessanti copertine impilate ordinatamente l’una accanto all’altra, ho deciso di scegliere come lettura Gli Umani.

Non sapevo precisamente quale testo avessi tra le mani, poteva trattarsi di un romanzo o di un saggio relativo all’essere umano e il titolo mi spingeva verso la seconda ipotesi. Ho letto la retro copertina e ho pensato: “Qui l’unica cosa è iniziare a leggere”.

Una storia semplice e curiosa: un alieno giunge sulla Terra, assume le sembianze del professor Martin e la sua missione è di eliminare chiunque sia venuto a conoscenza delle sue scoperte.

Una narrazione scorrevole, piacevole e una lettura molto veloce. Poi, pagina dopo pagina, si schiude il segreto delle parole coordinate a scrivere un romanzo di fantasia, ma pronte a svelare anche sorprese che non sono immediate e scontate. Sono molto di più: il frutto dell’interpretazione che ogni lettore può dare.

Le disavventure e, al tempo stesso, avventure di questo professore alieno, sterile nei sentimenti, intimorito dal calore che avvolge la vita umana e concentrato sull’obiettivo della sua missione, ecco, pian piano diventano vive. Gli intervalli durante i quali dialoga con i mandanti della missione, perdono gradatamente incisività sino a divenire solo lontane parole: il professor Martin decide di restare sulla terra, rinunciare ai suoi poteri speciali e diventare umano, provare emozioni, siano queste positive o negative ma pur sempre vive e calde.

Pagina dopo pagina, i personaggi si uniscono l’uno all’altro attraverso un filo sottile che si chiama emozione: Isobel e Gulliver, rispettivamente moglie e figlio del professore, dapprima sono sullo sfondo della scena, puro centro del mirino delle azioni di Martin.

Poi, lo sfondo si avvicina ed ecco che interagiscono in maniera molto diretta, aperta e sono loro a fare centro nel cuore dell’alieno. Ad accompagnare tutta la narrazione c’è un personaggio che rimane fedele al suo comportamento: è Newton, il cagnolino del professore. È un protagonista passivo e lo definisco così perché è lì, fedele, anziano ma attento a osservare le vicende. Mi piace vederlo come personificazione della saggezza che, con il passare del tempo, influenza silenziosamente la vita e offre una nuova visione degli eventi. E quale interpretazione do al professore Martin alieno che poi diventa umano?

Credo sia l’atavico fascino della vita: provare delle emozioni, a volte belle, a volte un po’ sofferenti ma che hanno il grande potere di renderci semplicemente vivi, umani.

Buona lettura…

 

Il Cicerone che non ti aspetti

di Andrea Socrati

Cicerone[In questo discorso] Ho tirato fuori, come mai altre volte, periodi arrotondati, passaggi abili, pensieri acuti, artifizi retorici.

 

In una sua lettera inviata all’intimo amico Attico, Marco Tullio Cicerone, con parole di estrema sincerità, parla di se stesso e di un suo discorso tenuto in Senato e finalizzato a ben figurare in presenza di Pompeo, l’uomo più “in” della Roma degli anni 60 a.C., insieme al beneamato Giulio Cesare, che proprio allora cominciava la sua inarrestabile ascesa politica.

L’arte dell’oratoria (in latino oratio, cioè della “manifestazione del pensiero tramite la parola” e quindi “discorso”), in realtà, non è originaria della caput mundi. Già la civiltà greca assegna al discorso razionale, che si traduce e si articola in parole, una funzione essenziale per la vita nella società: l’uomo greco è profondamente convinto che chi sa parlare in modo logico e coerente possieda uno strumento potentissimo che permette di assicurarsi il consenso degli altri e sottometterli alle sue decisioni. Quasi un’arma da fuoco, quindi. E fu così che nel corso dei secoli, impiegando la retorica nei vari aspetti della vita quotidiana (la politica, i dibattiti giudiziari, ma anche la filosofia, ecc.), diviene una scienza a tutti gli effetti, grazie alla quale grandi nomi come Lisia, Isocrate o Demostene sono in grado di muovere intere masse da una parte (o da un partito) all’altra.

Con il progressivo sviluppo della civiltà romana, e con l’interessante diffondersi delle liti giudiziarie e di comportamenti politicamente scorretti (niente affatto sconosciuti a noi), anche a Roma la retorica e l’oratoria trovano terreno fertile. Oltretutto, ogni (benestante) giovane romano deve fare una “vacanza-studio” in Grecia, dove può entrare in contatto con i “big” in voga del settore e apprendere i segreti del mestiere. Cicerone, dopo il suo regolare tirocinio formativo a Roma, va felicemente ad Atene insieme al fratello e ne rimane estasiato: dirà, infatti, (De finibus V 5).

Emanuele Narducci, dopo aver dedicato a Cicerone un trentennio di studi, ha scritto un’opera (Cicerone. La parola e la politica), edita da Laterza, che va ben al di là della consueta rassegna accademica; lo studioso, infatti, non si limita a dare informazioni da manuale, in modo comunque quasi romanzesco e accessibile a tutti, ma ci racconta anche singolari aneddoti e peculiarità del celebre oratore, statista, politico e filosofo latino, tutte informazioni che difficilmente si leggono in un testo (spesso) universitario e avvicinando così sorprendentemente a noi uno scrittore vissuto più di 2000 anni fa: il quartiere di residenza prescelto, le più profonde inquietudini del personaggio, le varie teorie sulla sua morte, la gara quotidiana con il suo amico Roscio, le sue derive maschiliste e talvolta omofobe, i suoi continui cambi di bandiera, i suoi continui dolori di stomaco, ma anche informazioni sul modo (davvero singolare!) in cui si svolgevano le campagne elettorali nella Roma repubblicana, fornendoci anche un vero e proprio galateo del buon politico e del perfetto oratore; il tutto, arricchito di un’accuratissima scelta di passi tratti da opere sue o altrui.

Narducci ci regala, quindi, un Cicerone “diverso”, ma che probabilmente si sarebbe gloriato, da buon presuntuoso, se avesse saputo che qualcuno, a distanza di millenni, avrebbe scritto e parlato di lui, e avrebbe fieramente guardato l’obiettivo delle telecamere, se qualcuno l’avesse intervistato.

Cicerone, in quel discorso del 61 a.C. succitato, riuscì nel suo intento, poiché l’arte della seduzione (verbale!) certamente non gli mancava. Già, perché, se non era un playboy e con le donne non ci sapeva fare, ma anzi risultava goffo e piuttosto sgraziato (aveva sposato una donna molto particolare, che probabilmente non amava), tuttavia, grazie alla sua parola, era capace di far tacere i giudici, gli imputati e tutto il popolo di Roma.

Con la sua verve, l’oratore per antonomasia rendeva il tribunale un palcoscenico, imputati, giudici e testimoni il suo pubblico, e lui era considerato una star, spesso tanto attesa che addirittura – spiega Narducci – chiunque avesse sentito la sua voce in lontananza, abbandonava la propria attività per andare ad assistere allo “spettacolo” (tra l’altro gratuitamente).

Scrive Narducci:

[...] i romani erano consapevoli delle indubbie analogie tra lo ‘spettacolo’ del processo e la rappresentazione teatrale. Ma quanto avveniva nei tribunali non aveva, come sulla scena, il carattere della finzione; dopo che era stato emesso il verdetto, il pubblico non ritrovava, come al calare di un sipario, la stessa realtà che aveva lasciato per immergersi nella rappresentazione: per moltissima gente, niente restava come prima.

Il discorso ciceroniano è un vero e proprio elettroshock di emozioni (autentiche o artificiali): che si tratti di indignazione, letizia, tristezza o collera, l’oratore mette letteralmente in scena tutto ciò che possiede e conosce, mette tutto se stesso, senza improvvisare, al fine di portare a casa l’ennesima vittoria. E una sola volta, infatti, Cicerone viene sconfitto.

Un avvocato, insomma, che tutti oggigiorno vorremmo avere: interessato sì al denaro, ma anche sinceramente impegnato in politica (connubio assai raro nel nostro Parlamento), amante della famiglia e dell’amicizia, un uomo a cui davvero nulla mancava, se non un pizzico di umiltà.

C’è da chiedersi, quindi, dopo la lettura di questa trattazione un po’ “sui generis” (come all’oratore sarebbe piaciuto definirla), chi debba insegnare e chi debba imparare.

Il sentiero dei profumi

di Federica Colantoni

Cristina Caboni (Garzanti)

 

Il profumo era il sentiero, percorrerlo significava trovare la strada.

 

caboniElena Rossini ha un dono: sente i profumi, ne vede i colori, ne assapora il gusto, ne percepisce i sentimenti.

Elena è una ragazza semplice, che vive la vita come vogliono gli altri. Abbandonata dalla madre quando era una bambina, si distacca da tutto ciò che le fa provare emozioni. Per questo deve voltare le spalle alla vaniglia, alla rosa, all’iris… a tutto. Ma i profumi si riprendono lentamente il loro spazio nell’anima di Elena, e la conducono attraverso un sentiero alla fine del quale trova l’orgoglio, l’amore e il coraggio di vivere.

Cristina Caboni esordisce con questo romanzo che racconta di una ragazza come tante, di un uomo che fa sussultare e di una storia d’amore che chiunque vorrebbe vivere. Ma Il sentiero dei profumi non è solo una storia romantica. È, prima di tutto, una lezione di vita: attraverso Elena, Cristina Caboni ci insegna a prendere in mano il nostro destino, che mollare tutto e cambiare, quando non si ha più niente da perdere, è possibile ed è giusto. E lo fa con delicatezza.

Delicato, è l’aggettivo giusto per questo libro. A ogni pagina si percepiscono le sfumature della femminilità: sensibile, discreta, elegante, ma anche una femminilità forte, decisa e a tratti egoista.

La profumiera della Caboni ci ricorda un po’ la cioccolatiera della Harris: Elena, creando un profumo, rievoca i desideri sopiti e i sentimenti celati. Vianne, grazie a un profondo intuito e, magari, un pizzico di magia, in quelle pagine di Chocolat, era in grado di leggere i desideri peccaminosi dei timorati abitanti del villaggio di Lansquenet e di sprigionarli con una pralina.

«È per un’occasione importante?» gli chiese allora Elena. L’uomo afferrò la strisciolina di carta con la punta delle dita e la portò al naso. «Sì, molto importante», sussurrò. «Lo aspiri con calma e pensi a ciò che vorrebbe, a quello che le piacerebbe accadesse. Senta se le emozioni sono giuste, o se manca qualcosa.»

Elena Rossini è il perno della storia, ma è il profumo l’indiscusso protagonista. Attraverso Elena, il lettore è in grado di percepire, se possiede una certa sensibilità olfattiva, tutte le note che lo compongono e lo identificano. Le note di testa, di cuore e di fondo sono le sue impronte digitali.

Lo stesso vale per il romanzo.

Le note di testa sono l’inizio, un inizio timido in cui i personaggi cominciano a vivere e il lettore a prendere confidenza con loro e con la storia. È incerto, ma chi legge prosegue intrigato dal sentiero e desideroso di percorrerlo. Arriva alle note di cuore: il fulcro della vicenda coincide con un profondo cambiamento, o meglio con un risveglio di ciò che era sopito, nella natura della sua protagonista.

Eppure quel profumo non lo sentiva più suo. Lo aveva composto lei, certo, e ognuna di quelle essenze l’aveva scelta, testata e decisa personalmente, ma non era più la donna che lo aveva immaginato. Troppo morbido, troppo zuccheroso. Non c’era abbastanza carattere.

Qui la storia entra nel vivo, il lettore passeggia con Elena e Cail per le vie di Parigi e della Provenza alla ricerca di un segreto che è stato celato per molto tempo.

Sfoglia le pagine, una dopo l’altra, senza accorgersene. E scopre infine le note di fondo, un epilogo che unisce tutto ciò che è stato letto e sentito. In questa fine, la storia ha inizio: Elena è finalmente in armonia con i profumi e con se stessa, ha ritrovato la sua natura ed è pronta a vivere. È giunta in fondo al sentiero. Il profumo è completo.

 

Le recensioni di questo numero

di I recensori de La stanza di Virginia

“Il Signore delle Mosche” di William Golding – Mondadori 2014

 

signore

Sono uscite a maggio 2014, nella nuova collana “Classici Chrysalide” di Mondadori, le rinnovate edizioni de “Il Signore delle Mosche” di William Golding e de “La fattoria degli animali” di George Orwell, con “contenuti extra” come la biografia dell’autore, una riflessione sull’opera in oggetto e “intrecci di storie, segni e suoni” “per chi vuole saperne di più”.

Quanto alla prima opera, essa fu pubblicata col titolo “Il Signore delle Mosche” nel 1954: da allora furono successo e trionfo. E’ stata la prima opera di Golding e, benché l’autore, vincitore del Nobel per la letteratura nel 1983, avesse continuato a scrivere, “nessun’altra opera, però, riuscirà a bissare il trionfo” dell’opera in oggetto – come si apprende dalla presentazione.

Ebbene sì, l’opera è avvincente sin dall’inizio, quando “il ragazzo coi capelli biondi” si ritrova in un’isola di corallo dove incontra dapprima un ragazzo più piccolo di lui, con grossi occhiali e molto grasso. I due cercano di raccapezzarsi: si rendono conto di essere su un’isola appunto dopo essere precipitati insieme a “tutti quegli altri bambini” in seguito ad un attacco aereo. Si capisce che c’è una guerra in atto e che i ragazzi si trovano soli, senza i “grandi”, gli adulti. I ragazzi, Ralph e Piggy cominciano a chiedersi se tutti gli altri bambini sull’aereo siano morti e, con una certa angoscia, riflettono sul fatto che nessuno dei grandi possa sapere dove essi si trovino. Trovano una bella conchiglia color panna che, su suggerimento di Piggy, Ralph utilizza come richiamo soffiandoci dentro. Ed ecco che cominciano a spuntare altri bambini, “teste brune, nere, castane, color sabbia, color topo; teste che bisbigliavano, che mormoravano, teste piene di occhi interrogativi che guardavano Ralph. Quel suono aveva uno scopo”. Arriva anche “una squadra di ragazzi che marciavano più o meno al passo su due file parallele, vestiti in modo assolutamente fuori del comune ... Il ragazzo che li comandava era vestito allo stesso modo, ma lo stemma del suo berretto era d’oro”. Accertata ancora una volta l’assenza dei grandi, essi concludono con la constatazione di doversi arrangiare da soli.

E così, i bambini e i ragazzi eleggono un capo, eleggono Ralph anche, se da subito, è evidente un certo antagonismo col capo della squadra, Jack, cui viene affidato il compito di guidare i “cacciatori”. Lo scenario è splendido ma i ragazzi si pongono da subito il problema di come poter essere tratti in salvo dai grandi.

Il racconto si snoda veloce e se dapprima sembra che, in quell’incontaminato paradiso terrestre, tutto fili liscio, tra adunate e assemblee più o meno democratiche, nel proseguo della narrazione l’atmosfera si incupisce: i ruoli e le cariche sono a rischio, serpeggia tra i piccoli e poi anche tra i ragazzi più grandi un senso d’angoscia che si fa sempre più opprimente. Dal primo bambino che rivela di aver paura della “cosa-che-striscia”, il timore diventa sempre più generale: è il timore della “bestia dal mare”, poi della “bestia dal cielo”, poi è un senso di timore, di paura più generale. E’ anche e soprattutto la paura primordiale della violenza cieca. Il ritmo diventa incalzante, l’angoscia cresce, le scelte “democratiche” vanno a farsi benedire, la violenza si manifesta e prende il sopravvento fino a che si arriva alla conclusione e si trae finalmente un sospiro di sollievo.

Nella presentazione dell’opera e nel retro della copertina si parla di “distopia” ma questa forse è un’etichetta un po’ forzata e sicuramente data a posteriori.

L’autore, in aperto contrasto con altre opere e altri pensatori, come p. es. J. J. Rousseau, descrive uno stato di natura che non è di bontà e candore, nonostante i protagonisti siano bambini e ragazzi. Tutt’altro! E’ uno stato in cui prevalgono gli istinti sulla ragione e sulla ragionevolezza (la voce di Piggy) e l’esercizio della violenza cieca, della sopraffazione, dell’intimidazione hanno la meglio sul buon senso e sulla “democrazia”. E’ uno stato di natura in cui homo homini lupus. Non per niente, il titolo che venne dato all’opera è uno dei tanti nomi con cui si identifica Satana, il Male. La salvezza però alla fine arriva: essa viene dal mondo dei grandi, come Deus ex machina, dal mondo della “civiltà”, almeno all’apparenza.

L’opera quindi lascia spazio alla speranza, alla luce, alla liberazione, al ritorno all’essere “bambini”, anche se non proprio “innocenti”, nel mondo dei “grandi” grazie soprattutto anche ad un lungo, a lungo represso, pianto liberatore.

C’è da chiedersi: e se ci fossero state anche le bambine, l’altra metà del cielo, nell’isola di corallo? Forse, quando fu scritto “Il Signore delle Mosche”, i tempi non erano ancora maturi anche solo per immaginare uno scenario del genere, nonostante la madre di Golding fosse un’attiva suffragetta.

 

Daniela Marras

 


 

“Scrivimi ancora”- Cecelia Ahern

Titolo originale dell’opera: “Where rainbows end”

Terza edizione Rizzoli BUR, ottobre 2014

 

scrivimi ancora“Eravamo inseparabili, ma costantemente separati”.

Si può essere separati, ma nonostante tutto inseparabili?. Può un legame sfidare la distanza? Può esistere un rapporto così profondo da resistere nel tempo, a non essere scalfito dai mille ostacoli che la vita ci pone?

Questi interrogativi fanno parte di un tema preciso, il tema della distanza, che è sempre stato raccontato e decantato fin dall'antichità, ad esempio da Ovidio, che nella sua opera intitolata “Heroides”, raccoglie alcune lettere che hanno una caratteristica particolare: sono state composte da eroine del mito, che scrivono ai loro amati ed elevano un canto che spesso è di sofferenza per essere state abbandonate, per essere così distanti da loro.

Quasi sempre vediamo l’argomento distanza accostato ad una corrispondenza epistolare, ed è interessante capire ed occuparsi di come si vive una situazione di distacco dalla persona con cui si ha un rapporto profondo.

Questo è anche il tema del romanzo “Scrivimi ancora” di Cecelia Ahern: certamente molto diversa dall’opera di Ovidio, per “mezzi di comunicazione”, ma il cuore dell’argomento è lo stesso. È la storia di Rosie ed Alex, due amici che condividono un legame difficilmente instaurabile, un legame che li porterà a sfidare il destino che crudelmente tenterà di dividerli, di lacerare il loro rapporto, portandoli a vivere a chilometri di distanza l’uno dall’altro. Alex e Rosie si terranno in contatto grazie a delle lettere, che cambieranno la loro vita, lettere che parleranno per loro a volte, e che riusciranno ad attutire lo stato di sofferenza che li pervade.

Questo non è uno dei soliti romanzi che cercano di trattare un tema così delicato ed attuale come la lontananza in modo razionale, cercando di analizzare il fenomeno: è un racconto che in sé non ha nulla di costruito, al contrario è pieno di contraddizioni, che ha uno stile linguistico molto semplice, quotidiano, costituito da una punta di ironia e comicità, anche nei momenti più bui e nell’analisi psicologica dei personaggi. Questi sono i tratti distintivi della Ahern:

Ruby: “E smettila di aspettare quello là.”

Rosie :”Quello là chi?”

Ruby: “Alex. Non dubito che sia un amico favoloso e che ti dica sempre cose dolci e meravigliose. Ma non è qui. È lontano mille miglia, lavora in un ospedale importante e abita in un elegante appartamento con la sua elegante fidanzata. E non credo proprio che stia pensando di abbandonare quella vita per tornare da una madre single che vive in un minuscolo appartamento e fa uno schifoso lavoro part-time in una ditta di graffette assieme a un’amica pazzoide che le manda mail in continuazione. Perciò piantala di aspettare e datti una mossa.”

Non c’è niente di sbagliato nell’essere single. Essere single è l’ultimo grido, oggigiorno.”

La scrittrice riesce perfettamente nel suo intento di voler trasmettere messaggi importanti affrontando una vasta gamma di argomenti, dall’amore alla delusione, dalla voglia di abbattersi alla voglia di realizzare un sogno con un linguaggio diretto, scorrevole, per nulla preconfezionato: è un romanzo che parla in parte di ognuno di noi, perché tutti noi abbiamo vissuto almeno una volta queste vicissitudini, ognuno di noi ha in parte questo dualismo che ci porta a sbagliare, ma anche a rialzarci nonostante le difficoltà che incontriamo nel cammino.

“Ieri abbiamo litigato perché non sopporto quando torce la bocca non appena dico o faccio qualcosa di sbagliato. Se dicessi che il cielo è giallo, il suo labbro superiore comincerebbe a contrarsi in uno strano spasmo convulso alla Elvis Presley. La prossima settimana credo che metterò in discussione il fatto che lui si mette sempre quegli stupidissimi calzini che gli compra la sua cara mammina. Lui li trova divertenti. Calzini gialli a pallini rosa, calzini azzurri a righe rosse. Sono sicura che anche i suoi colleghi li trovano assolutamente divertenti.”

La Ahern ha questa capacità straordinaria, trasmette positività e voglia di vivere nonostante periodi difficili, infonde allegria con il suo gioco di parallelismo tra tragedia e umorismo: l’essenza del suo romanzo è proprio questa: “È fantastico averti come amica. Se qualcosa nella mia vita va storto, mi basta guardare la tua e tutto si ridimensiona.”

Una riflessione importante deve essere rivolta anche verso gli “strumenti di comunicazione” che rendono possibile il contatto, perché è giusto soffermarsi sui sentimenti che si provano, ma un ruolo fondamentale è occupato anche da ciò che ci permette di provare quelle sensazioni. Di ciò se ne occupano Ulrich Beck ed Elisabeth Beck­-Gernsheim, che nel romanzo “Amore a distanza” trattano la vicenda di un bambino ed i suoi nonni, che vivendo a distanza, si tengono in contatto grazie a Skype: “Chattare su Skype permette al nonno e alla nonna di essere nella cameretta del nipote, benché ciascuno rimanga nel proprio luogo: amore alla massima distanza come amore nella massima prossimità”.

Ritroviamo questo tema anche in un altro autore, James Patterson, che nel suo romanzo “A Jennifer con amore” tratta anch’esso di lettere, grazie alle quali il protagonista ripercorre il suo passato, vive un amore intenso. Perché anche per Rosie ed Alex le corrispondenze epistolari tramite mail hanno avuto un ruolo importante nella loro vita, sono state proprio le lettere a tenerli uniti, a parlare in certe situazioni per loro, e a dargli l’opportunità di vivere il loro amore. “Ti è mai capitato di ricevere una lettera che ha cambiato per sempre la tua vita?”. Questo è l’incipit del romanzo di Patterson, e forse la risposta di Rosie ed Alex sarebbe “sì”: quindi la scelta molto comune come si è visto della forma epistolare è molto azzeccata, permette di entrare nel vivo della situazione di lontananza, il tema principale di “Scrivimi ancora”, un tema che sta a cuore a molti. Stare lontani da una persona importante, non poter condividere ogni piccolo avvenimento della propria vita, ogni gioia ed ogni sconfitta, non è affatto semplice: è come se un pezzo di te non ci fosse, senti il bisogno di completare quel vuoto, senti la necessità di recuperare il tempo perso a causa della distanza, ma nello stesso tempo sai che non potrai mai colmarlo come vorresti, perché chi ha avuto la fortuna di conoscere un vero sentimento, che sia di amore o amicizia, ha ricevuto un dono che non potrà mai essere rimpiazzato con un altro dono. Così l’unica opportunità che resta è tentare. Tentare di riappropriarsi non di ciò che è stato, ma appropriarsi di ciò che deve ancora essere. Ecco la nota positiva della distanza: poter reinventare un rapporto tralasciando il passato, è reinventare una nuova vita.

“Non avrei mai dovuto permettere che le tue labbra si staccassero dalle mie, tanti anni fa a Boston. Non avrei mai dovuto allontanarmi. Non avrei dovuto lasciarmi prendere dal panico. Non avrei dovuto sprecare tutti questi anni senza di te. Dammi la possibilità di recuperare il tempo perduto.”

 

Annalisa Cattolico

 


 

 

Seconda classe, lato finestrino”

Lineadaria Editore – Biella 2014

 

 

Arrivarono il lunedì, poi il martedì e molti giorni a seguire. Andrea riprese a percorrere le rotaie di un'esistenza a metà. Un'esistenza che gli era familiare.” (cap. 11)

 

seconda classeAndrea è solo un bambino quando viene mandato a casa degli zii in Puglia, a Porto Cesareo, senza particolari spiegazioni. E ha appena finito la quinta elementare quando, sempre senza un apparente motivo, viene fatto tornare a Torino, la sua città natale. L'unica cosa che sa è che da quando è nato suo fratello Carlo, affetto da una malattia che non conosce, a casa tutto è cambiato.

 

Quando torna dalla Puglia, Carlo non c'è più. Sua madre è depressa, non esce di casa, se non per portare i fiori sulla tomba del figlio defunto, e non si preoccupa di Andrea perché pensa che sia in grado di badare a se stesso. Suo padre abbandona una relazione extra-coniugale per rifugiarsi nella famiglia. E nessuno si ferma davvero ad ascoltare Andrea, nessuno osa chiedergli cosa prova “per quel fratello morto e quasi sconosciuto.” (cap. 2). Solo Roberto, suo vicino di casa e compagno di scuola, sa stargli accanto.

 

Poi un giorno arriva Sofia, con quel suo “profumo speziato”, una donna molto più grande di lui, sicura di sé, abituata a gettarsi a capofitto nelle occasioni che l'esistenza le offre. Ma Andrea, ormai “abituato a camminare sulla sponda della sua vita da solo” (cap. 17) continua a sfuggire alla vita.

 

Una riflessione amara sulla difficoltà di essere genitore, ma soprattutto di essere figlio, il figlio sano, vivo, sopravvissuto. E un elogio dell'amicizia, quella vera, quella di chi capisce quando è il momento di cambiare discorso o semplicemente di restare in silenzio; quella di chi comprende senza bisogno di domandare; quella di chi sa lasciar andare, anche quando questo significa dirsi addio, per sempre.

 

Eleonora Mammana

 

Viaggio

di Francesca Girardi

GIrardiVIAGGIO. Una parola usata di frequente e all’apparenza uguale per tutti, ma quando diviene esperienza, assume una valenza unica.

Cercando di descrivere la parola viaggio e scorrendo i molteplici aggettivi che potrei usare, trovo difficile optare per uno che possa avere una valenza “universale”.
Ogni viaggio è un mondo a sé dove ogni persona sperimenta se stesso in un ambiente diverso, in una cultura anche distante dalla propria. In letteratura si incontrano viaggi disparati e affascinanti. Nell’Odissea, Omero narra le vicissitudini e le pericolose situazioni che UIisse affronta per far ritorno a Itaca. Utilizza il viaggio come strumento di conoscenza ed è eccezionale il modo in cui, attraverso le varie tappe, viene descritto il panorama mitologico dell’epoca. Che dire poi del viaggio di Dante Alighieri. Nella Divina Commedia, girovagando con l'immaginazione per i tre regni, sono descritti con minuzia di particolari i luoghi e i personaggi che il poeta incontra. Le diverse soste sono specchio delle vicende politiche e il paesaggio mostrato non è naturalistico, bensì è l’esatta fotografia della civiltà del suo tempo e il viaggio si veste di una dimensione storica.
Nella vita pratica di ognuno di noi, penso che viaggiare sia un’esperienza molto personale e svariate siano le motivazioni che danno l’input alla partenza. Talvolta sento questa espressione: “Viaggiare ti apre la mente” ma non riesco a leggerla in modo semplicistico e lineare, ovvero viaggio quindi ho una mentalità più ampia.
Non ritengo sia il viaggio a fare la differenza, ma fondamentale è il modo in cui ci si approccia alla partenza.
L’attimo in cui si gira il mappamondo, si punta il dito verso una destinazione, è un momento particolare, quasi mistico: chissà perché si sceglie Katmandu e non Barcellona, perché si decide di partire in treno e non in aereo, con valigie o con uno zaino in spalla, organizzati sino all’ultimo dettaglio oppure “vivendo alla giornata”… Si può partire per rompere con la routine, per cambiare aria, per riposare e anche questo è uno dei molteplici  significati che può avere.
L’attimo della “scelta” è affascinante e leggerlo in maniera scontata, significa sminuirlo dell’emozione che nasconde; alle volte si decide di partire per trovare se stessi, per mettersi alla prova, per vedere con i propri occhi quanto talvolta si è abituati a sfogliare nelle pagine dei libri, per toccare con mano realtà diverse o per sfuggire dalla propria realtà e rincorrere una speranza. A tal proposito ricordo il libro di Tiziano Terzani, "Un altro giro di giostra": il viaggio è una ricerca verso la cura che possa guarirlo dal cancro. È un peregrinare dalla più moderna medicina occidentale alla più antica medicina orientale per poi scoprire di viaggiare per la ricerca di se stesso. Oppure in "La mia Istanbul", di Francesca Pacini, l’esperienza e le emozioni trasformano il viaggio in un reportage che si fa guida e mostra di una diversa cultura, svelandone i più reconditi e pittoreschi angoli.
La diversità degli stati d’animo che accompagna le persone nella scelta della destinazione, è il punto di partenza che permette all’itinerario scelto di divenire o meno fonte di conoscenza.
I miei viaggi non sono nati con lo stesso nome, sono stati e saranno sempre qualcosa di diverso. Possono essere una vacanza di relax, ma possono offrire delle sorprese e, ancora più importante, possono arricchire la propria dimensione. Quando si rientra a casa e si sente di avere nel cuore piccole nuove emozioni; quando nel rivedere con la mente, e non con le fotografie, i paesaggi, le persone che si sono incontrate, riscontrare nella propria vita degli elementi che richiamano il ricordo di un qualcosa che si è vissuto nei propri viaggi, allora questi sono diventati esperienza.
Le proprie radici hanno un ruolo importante non solo nell’indicare la meta ma anche nel delinearne i confini entro il quale si potrà muovere. E con la parola confini non intendo solo lo spazio territoriale. Andare in giro per il mondo e cercare di organizzarsi per poter trovare e fare quanto di più simile a casa, acquista una valenza diversa rispetto a partire, avere un punto di riferimento e girare senza un’organizzazione dettagliata.
Si può andare alla scoperta di angoli nascosti del mondo oppure seguire nei più piccoli particolari le guide turistiche. Questi modi non sono uno meglio dell’altro, sono vie diverse di camminare che permettono esperienze più o meno profonde.
La globalizzazione e lo sviluppo tecnologico, ha influito sicuramente sul verbo viaggiare. Le grandi catene commerciali danno un denominatore comune alle più famose città; pur partendo per l’altro capo del mondo, ci si può vedere e parlare come se si fosse a distanza molto ravvicinata; partire per  alcune destinazioni, ormai è come andare nella città più vicina alla propria. I moderni mezzi permettono di essere in costante contatto con amici e familiari, mostrare loro istantaneamente dove ci si trova oppure vedere ancora prima di arrivare, la destinazione prefissata.
È proprio per questa serie di ragioni che la differenza del viaggio non è tanto la meta, ma come ci si prepara alla partenza e quanto ci si lascia coinvolgere da ciò che si vedrà.
Magica è la dimensione dell’immaginazione con la quale si prova a immedesimarsi nella vita del più remoto angolo del globo raffigurando se stesso lì, in quel preciso punto e chiedersi con curiosità: “Chissà com’è…”.

 

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