Una donna, Medea


La tragedia di Euripide dal luoghi suggestivi del mito arriva fino ai nostri giorni, alle nostre vite. Muore e rinasce in continuazione, nelle cronache del quotidiano.

La memoria dei classici rimane una guida preziosa, sempre…

 

Nessuno mi creda vile, né debole, o inetta, ma di indole opposta, tremenda con i nemici, benevola con gli amici; infatti la vita di tali persone è gloriosissima.

 

08-07La prima volta che ho letto “Medea” di Euripide sono rimasta folgorata. L'imponenza della protagonista, il pathos, l'introspezione psicologica e l'uso sapiente della parola me ne hanno fatto perdutamente innamorare. Gli spunti di riflessione che quest'opera offre sono innumerevoli, ma vorrei soffermarmi in particolare sulla figura di Medea.

 

Prima di tutto chi è Medea? È un personaggio del mito, controverso e tanto celebre da ispirare nei secoli innumerevoli scrittori antichi (Apollonio Rodio, Seneca, Ovidio, solo per citarne alcuni) e più o meno moderni (P. Corneille, T. Corneille, Christa Woolf, Corrado Alvaro, i più noti), ma anche pittori (famosa è “La furia di Medea” di Delacroix) e registi (su tutti Pasolini, con la sua “Medea” interpretata da una splendida Maria Callas). Secondo le versioni più accreditate è nipote di un dio, il Sole, parente di una maga, Circe, e figlia del re della Colchide, Eeta. È considerata da tutti sapiente, conosce le arti magiche e con esse, per volere di Afrodite che la fa innamorare, aiuta Giasone a rubare il Vello d'Oro a Eeta, per riappropriarsi del trono di Iolco. Pare anche che abbia ucciso il proprio fratello per ritardare l'inseguimento da parte del padre, impegnato a raccogliere le sue spoglie, e poi, non avendo Giasone ottenuto comunque il potere che gli spetta, provoca anche la morte di Pelia, l'usurpatore. Infine, divenuta sua sposa e avuti due bambini, fugge con lui a Corinto. Giasone, però, avido di potere, la lascia per sposare la figlia del re Creonte.

 

La tragedia di Euripide inizia qua. Medea è furiosa, il suo onore è stato violato. Lei che ha lasciato la sua patria e ha sacrificato la sua stessa famiglia per seguire quest'uomo, è stata tradita. Ma non è il tradimento a cui siamo abituati a pensare noi oggi. Medea non è gelosa. È sdegnata. Giasone ha tradito il giuramento di matrimonio, il patto solenne che le ha fatto, e Medea, ora, non è più sua sposa legittima. Come Achille è stato ferito nell'orgoglio da Agamennone, così Medea è stata colpita nella timè, nell'onore, e in quanto eroe tragico, non può che ribellarsi. Achille rinuncia alla gloria e abbandona il campo di battaglia, sacrificando, pur inconsapevolmente, la persona a lui più cara, Patroclo, che gli si sostituisce, morendo. Così Medea sacrifica ciò che per lei, come per ogni donna, è più importante, i suoi figli, ma lo fa consapevolmente.

 

A questo punto è, però, doveroso un chiarimento. Ogni tragedia greca è fondata su un conflitto inconciliabile, quello fra libertà e necessità, fra la volontà dell'uomo di raggiungere uno scopo e l'impossibilità di farlo. Sull'uomo grava sempre, infatti, un impulso a commettere un errore, una hamartia, a causa del quale patisce. Il senso del tragico sta in questo, nella consapevolezza che l'uomo ha di non poter non sbagliare e di agire nonostante conosca la condanna che pesa sulla sua azione. L'eroe, però, può operare una scelta; può scegliere liberamente di andare incontro al proprio destino, di compierlo senza subirlo.

 

La “colpa” di Medea è stata innamorarsi di Giasone, errore che è stata indotta a compiere da Afrodite. Ora può scegliere di subire passivamente il suo doloroso fato, andando in  esilio con i figli, oppure può decidere di vendicarsi, anche se questo significa procurare a se stessa “un male due volte più grande” (v. 1046). Per prima cosa, infatti, decide di uccidere la nuova sposa di Giasone, che l'ha disonorata contraendo con lui queste nuove nozze, e Creonte, il padre di lei, che l'ha cacciata dalla sua terra. Ma poi capisce che la vendetta in questo modo non sarebbe completa. Per colpire davvero il traditore deve privarlo dei suoi figli. Il monologo in cui, nel quarto episodio, prende questa sofferta decisione, è struggente: “Ahi, che farò? Il cuore mi manca, o donne, quando vedo lo sguardo luminoso dei figli! No, non posso! Addio, miei propositi di prima! Condurrò i miei figli via da questa terra. Perché mai per  far soffrire il padre loro mali, io stessa dovrei procurare un dolore due volte più grande. No, non posso, addio miei propositi! Ma che cosa sento? Voglio guadagnarmi il riso lasciando impuniti i miei nemici? Bisogna osare queste cose! […] Ahi mio animo, no non farlo! Lasciali, sciagurato, risparmia i figli! Là vivendo con me ti daranno gioia. Ma no, per i demoni inferi dell'Ade, non sarà mai che io abbandoni i miei figli perché i miei nemici li oltraggino! Devono assolutamente morire: e poiché è necessario, io li ucciderò, io che li ho generati!… ” (vv. 1042-1051; 1056-1061).

Medea sente la necessità di compiere la sua vendetta per non essere derisa e per non lasciare che i suoi nemici si vendichino sui suoi figli. Ma non è l'unico motivo per cui decide di compiere questo gesto estremo. Per l'uomo greco se la fine in battaglia garantiva la gloria eterna, avere un figlio voleva dire lasciare una parte di sé in vita dopo la sua morte. Ebbene Medea, uccidendo i suoi figli e la nuova sposa di Giasone, lo priva della sua prole presente e futura. In questo modo l'uomo non ha più motivo di vivere. È una pena ben peggiore che togliergli la sua stessa vita. Ma come trova il coraggio di compiere una simile atrocità? Medea non è una donna comune; è parente di dei, è una maga, è sapiente, non può cedere a sentimenti ordinari come l'amore materno. È un eroe, e, in quanto tale, ha una dignità da far rispettare. Si tratta di una scelta estrema, ma è una necessità, un dovere, e racchiude in sé tutto il senso del tragico.

 

Ma Medea non è solo questo; non è solo un eroe. È anche una donna, se pure non comune, e in quanto tale vive in una condizione di inferiorità. Nel primo episodio si rivolge al coro formato da donne Corinzie e recita un vero e proprio “manifesto” della condizione femminile dell'epoca: “Fra tutti gli esseri che hanno anima e ragione, noi donne siamo la razza più sventurata; innanzitutto è necessario che compriamo con una grossa dote uno sposo, padrone del nostro corpo; infatti, questo è un male più doloroso di quello. E in questo c'è un gravissimo rischio: prenderlo cattivo o buono. Infatti non sono onorevoli i divorzi per le donne e non è possibile ripudiare il marito. Bisogna che giunta tra nuovi costumi e leggi sia un'indovina, non avendolo saputo nella casa paterna, di quale compagno di letto, soprattutto, le toccherà mai.... ” (vv. 230-240). Il brano prosegue con l'indicazione di quanto poi, il parto, per la donna, non sia meno rischioso del combattere in guerra, per l'uomo. Medea ha scelto di sposare Giasone e quindi di conformarsi all'etica greca di dipendere da un uomo. Ma nel momento in cui viene tradito il suo onore, reagisce, mostrando il suo lato eroico.

 

Infine, non meno importante, Medea incarna la figura del “diverso”.  È straniera, è sapiente, è una maga. Tutto ciò la rende pericolosa. Creonte, nel primo episodio, afferma esplicitamente di temerla: “Non bisogna velare le parole: ho paura che tu faccia qualche male irreparabile a mia figlia. E molte ragioni concorrono a questo timore: tu per natura sei abile ed esperta di molti malefici, e inoltre soffri, privata del letto del tuo uomo... ” (vv. 281-286). Ma anche da questa condizione Medea si riscatta, usando proprio le sue arti per vendicarsi. Manda, infatti, i doni che suo nonno, il Sole, le ha fatto, una veste e una corona, intrisi di veleno, alla giovane sposa di Giasone, con la scusa di volerla persuadere a non mandare in esilio almeno i suoi figli. Ma la fanciulla, non appena li indossa, si sente avvampare e le fiamme sprigionate dalle vesti la uccidono. Il padre, giunto a soccorrerla, viene colpito dal medesimo fuoco e muore con lei.

 

La tragedia si conclude con Giasone disperato che supplica Medea di lasciargli almeno seppellire i figli, ma lei, dopo averlo accusato di essere il vero fautore della loro morte, viene portata via, con i loro corpi, dal carro del Sole. Medea è pertanto intoccabile, è una creatura “sacra”: (rivolta a Giasone) “Se hai bisogno di me, di' pure se vuoi qualcosa, ma non mi toccherai con la mano. Il Sole, padre di mio padre, mi ha dato tale carro, difesa da mano nemica.” (vv. 1319-1322). Scampa, perciò alla vendetta dei nemici. Ma, del resto, la sua pena, l'ha già scontata.

Euripide: Abbiamo scarse e spesso contraddittorie notizie sul suo conto, influenzate per lo più dalla Commedia Antica. Sicuramente è vissuto nel V secolo a.C.; è nato a Salamina nel 480 o, più probabilmente, nel 485 a.C., ma fu iscritto al demo ateniese di Phlya. I suoi genitori erano verosimilmente di condizione elevata, visto il suo ruolo di  purphoros (portatore di fuoco) di Apollo Zosterios, da bambino, e alla sua partecipazione, in qualità di coppiere, alle danze sacre organizzate ad Atene al santuario di Apollo Delio, funzioni destinate solo agli alti ranghi della società. Pare che fosse un atleta e che si sia dedicato al pancrazio e al pugilato. Si occupò anche di pittura. Indubbiamente entrò in contatto con diversi filosofi (Anassagora, Socrate, Protagora, Prodico), ma non fu discepolo di alcuno. Quanto alla sua vita privata pare che si sia sposato due volte. Non prese mai parte alla vita pubblica. Morì in Macedonia, alla corte di Archelao, presumibilmente intorno al 407 a.C. Compose probabilmente 92 drammi, ma gli alessandrini ne conoscevano 78, di cui tre spuri; a noi sono giunte solo 19 opere, escluso un apocrifo.

Eleonora Mammana -

A dieci anni ho deciso che da grande avrei studiato il latino e il greco, così i miei genitori mi hanno  iscritta nella prima sezione sperimentale della mia città che insegnava il latino nella scuola media come materia curricolare; a tredici ho scelto di frequentare il Liceo Classico; a ventuno ho conseguito una laurea triennale in Lettere Classiche a Vercelli, con una tesi su un papiro di Stesicoro, e a ventiquattro una laurea specialistica in Filologia e Letterature dell'Antichità a Torino, occupandomi delle testimonianze a Ibico. Adoro Euripide, Shakespeare e Emily Brontë. Mi piace leggere per la possibilità, che la lettura offre, di vivere un numero incommensurabile di vite. Amo la “bella scrittura” e il “parlare bene”, ho pertanto da sempre il difetto di correggere qualunque espressione scritta che “suoni male”. Mi lascio coinvolgere dai capolavori del cinema, i colossal in particolare, con tutta quella profusione di scenografia e costumi. Ho ereditato da mio nonno la passione per l'opera lirica, fra tutte la Turandot, e da mio padre l'amore per l'arte. Ballo da sempre, danza moderna prima, caraibica ora. Mi incuriosiscono la moda e il make-up. Impazzisco per gli animali per il loro dare amore incondizionatamente. Il mio tempo libero cerco di trascorrerlo con le persone a cui voglio bene. Non sono mai completamente soddisfatta di me stessa. Mi piace mettermi in gioco e  imparare sempre qualcosa di nuovo. Sono orgogliosa e testarda, non sopporto l'ipocrisia e la mancanza di rispetto. Alla mia mamma devo la forza di volontà che mi ha sempre permesso almeno di provare a fare ciò che desidero.

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