La morte del padre nella letteratura


Egon

"Non era una padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c'è da odiare in un padre e tutto ciò che c'è da amare". (Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera). I complessi e complicati rapporti tra padri e figli vergati dalle penne emotive più sensibili e profonde della letteratura, da Kafka a Svevo, da Artaud a Pasolini e Saramago.

 

 

“Talvolta immagino di poter aprire davanti a me la carta terrestre e di stendermici sopra. Mi pare allora che per la mia vita si possano prendere in considerazione solo quei territori che né copri col tuo corpo né sono comunque alla tua portata. E data l’idea che mi son fatto della tua grandezza, questi territori non sono molti né molto confortanti.”(F. Kafka, “Lettera al padre”). La morte del padre, nella letteratura del Novecento, tocca il suo vertice con Franz Kafka, che la visse in senso non soltanto metaforico, ideale, ma anche in senso letterale e reale: la vita del giovane scrittore cecoslovacco si risolveva in una serie di insicurezze e sofferenze che il carattere paterno aveva finito per acutizzare, relegandolo in un sentimento di inadeguatezza alla vita mai risolto, mai districato. L’esistenza del padre occupa l’intero universo del figlio, per cui il territorio di libertà si riduce in spazi così limitati da far credere a Kafka/figlio che non sia possibile un mondo senza un modus vivendi che non batta le strade già tracciate dal padre/autorità. L’Autorità, intesa come sistema dogmatico di valori certi ed assoluti, è il perno che la letteratura novecentesca prima ancora della politica, prova a far cadere. Il padre è l’autorità, il Dio in terra, la coscienza certa su cui fondare la propria vita: che si potesse agire in un modo differente, con uno scontro dialettico vivo e penetrante, è un pensiero che solo il secolo nuovo mette in atto. L’uomo fonda la propria esistenza soltanto sulle sue scelte, e per quanto sia un prodotto delle sue radici, agisce con una libertà di intenti mai conosciuta. La morte del padre non è soltanto un atto di libertà che la letteratura del novecento regala alla storia, è anche un’azione necessaria: nella tragedia dei Cenci, Antonin Artaud, con guizzo di genio che non è ancora Teatro della Crudeltà ma lo prepara, fa dire a Beatrice Cenci, la figlia assassina (siamo nel 1935):

“Se muoio vuol dire che hanno condannato la giovinezza”. Beatrice non ha neanche vent’anni, è bella è nobile, ma vive un’esistenza da infelice perché non può sottrarsi alle mire del padre che la esilia nel suo universo di valori (disvalori in questo caso) non dandole possibilità di un’alterità. Non resta allora che l’omicidio, premeditato e desiderato, l’anelito concesso in extremis a chi vuol vivere senza le impronte dei propri predecessori. Francesco Cenci, il conte dissoluto e vizioso, muore per opera di un assassinio organizzato dalla figlia, ma la vita desiderata da Beatrice non arriva perché subentra la condanna. Allora la frase pronunciata alla fine della tragedia (rappresentata a Parigi il 6 maggio 1935 al Théâtre des Folies-Wagram) diventa emblematica: condannare Beatrice e non comprendere le sue ragioni, significa non capire quanto la morte del padre, autorità indiscussa, fosse necessaria per la sua sopravvivenza. La lotta titanica, diretta discendente di quella raccontataci da Esiodo nella Theogonia, che vede vincere Zeus solo a discapito della morte del suo genitore, si ripete uguale a distanza di secoli. All’incapacità di agire kafkiana, debole e sensibile dinanzi all’energumeno padre, risponde – quindici anni dopo l’energica Beatrice che invece trova, eccome, il coraggio di agire. L’azione che la vede soccombere personalmente, segna invece il successo dell’universale: il figlio oggi sa che il padre può essere ucciso senza ritenersi colpevole della sua morte, ma anzi stigmatizzando la propria lotta, il giovane diventa il nuovo eroe. L’antieroe picaresco consegnatoci dalla letteratura del seicento, trascinatosi fino alla figura dell’inetto novecentesco, trova il suo punto di rottura nella morte del padre: l’uomo/il lettore/lo scrittore è costretto a svegliarsi dal sonno dei mulini a vento: morte del padre significa morte dell’autorità, morte di Dio (non è un caso che Nietzsche muoia nel 1900, dopo aver donato al secolo che verrà il più sistematico e fondato atto di ribellione), morte dei valori borghesi, dell’autorità prestabilita, delle vite già modellate su quelle precedenti. Tutto smette di tenersi con la morte del padre, perché tutto può essere ricostruito sui cadaveri dei nostri antenati.

Tra Beatrice e Franz, modelli portanti di questa nuova lotta, si erge un’ imponente costruzione: La coscienza di Zeno di Italo Svevo (1923). Zeno Cosini, figura dell’inetto per eccellenza, dice nel capitolo “La morte di mio padre”: “Ed è così che augurai la morte a mio padre”. Il Silva manda denari, soprannome datogli quando era all’università, è l’autorità che resta in vita, appesa ad un filo, e che costringe l’ancor giovane Zeno a rispondere delle sue azioni, a vivere dandosi da fare secondo un universo sferico che non gli appartiene. “Egli fu il primo a diffidare della mia energia e, a me sembra, troppo presto. Epperò io sospetto, che, pur senza l’appoggio di una convinzione scientifica, egli diffidasse di me anche perché ero stato fatto da lui, ciò che serviva- e qui con fede scientifica e sicura- ad aumentare la mia diffidenza per lui.” Il rapporto padre-figlio vive di una paradossale situazione per cui il primo non crede nel secondo: per tutta risposta Zeno, continuerà in una serie di insuccessi e vie di fuga perentorie per sottrarsi ad ogni possibilità di scelta. L’assenza totale di comprensione, di supporto, di stima, rompe la possibilità di una successione tra i due: Zeno non può assolutamente essere il padre, la rottura stagliatasi e suggellata sulla pagina lo costringe ad essere altro e così, la morte segnata dal dolore per la mancanza di un punto d’incontro, diviene anche riflessione.

Che avrà mai significato quello schiaffo? Una punizione in punto di morte, un monito finale? Zeno continua nella sua esistenza lontana da ogni risma paterno.

Alla morte del padre, risponde per opposto, il padre che invece uccide: “vittima” del complesso di Edipo ancora faticosamente accettato agli inizi del novecento, Saba vede nel padre l’assassino. Invece di essere ucciso uccide il figlio, negandogli una vita serena perché fino ai vent’anni lo scontro non è stato possibile causa la sua assenza: “Mio padre è stato per me l’assassino, fino ai vent’anni che l’ho conosciuto”.

La letteratura uccide il padre, ma lascia agonizzanti i figli. Quanti riescono a non soccombere? Il nodo non è ancora risolto. Zeno continua sulla scia dell’inettitudine, Beatrice sconta con la vita quella morte, Saba ne porta le cicatrici, Franz soccombe addirittura sotto il peso paterno. Quando la morte del padre diventa modo per affermare la propria alterità? Se nell’Isola di Arturo, il giovane dal nome di una stella, riuscirà a diventare adulto solo lasciando l’isola che non guarderà scomparire dal traghetto e recidendo, a dolorosi tentoni, l’idealizzazione paterna , è il 1968 che riscrive la storia della società. Se la storia si è servita della letteratura per la più importante delle rotture, è ora la letteratura che attinge dalla storia la vittoria del figlio. Vittoria sancita con la lacerazione permanente del 1968, verso e contro una società che non bastava più ai giovani. In quel turbinio di lotte, il padre inteso come morale, come guerra, come autorità ancora, come politica, ritorna a morire. E da questa morte che rimodernizza il mondo conosciuto in piena guerra fredda, la letteratura e l’arte vedono il figlio, nato dalla sua penna, riuscire dopo secoli di agonia. Vivo e vegeto, il figlio sconta quella colpa che Pasolini, nel “trattato pedagogico”, “Lettere Luterane”, cita come prima causa dell’infelicità della gioventù contemporanea: “Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti, È il coro un coro democratico che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.

Confesso che questo tema del teatro greco io l'ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.” (Lettere Luterane, I giovani infelici). Il teatro greco costringe i suoi protagonisti alla predestinazione: non c’è figlio che riesca a liberarsi delle colpe dei padri. I macigni ricadono sulla propria di esistenza e costringono a rivivere lo stesso percorso. Il coro di Eschilo e Sofocle lo annunciava, Pasolini vede rivivere una situazione simile nell’Italia del suo tempo: al coro si sostituisce la sua voce, che si innalza contro quei giovani colpevoli per aver perso vigore ed espressività nella lotta. La colpa dei padri, dice l’autore, è stata credere che la storia borghese sia l’unica storia possibile, che la povertà sia un male assoluto. Per i figli, e i figli dei figli, la condanna è quella di vivere in un mondo in cui la cultura popolare è morta in favore dell’assolutismo consumista facendo proprio il modello borghese, unico e solo riferimento. Ai padri incapaci di insegnarci altro, sono subentrati i figli assuefatti da una realtà incapace di dare loro altro, di inseguire una diversità rispetto al modello donatogli. Questa mancanza, quest’assenza, questa resa pochi anni dopo la lotta, piega anche i figli. Per Pasolini, il teatro greco torna in auge, vegeta nella società a lui contemporanea e incolpa ancora i giovani. La pena mai scontata significa che il padre risorge. Che la società ha lottato invano.

Ma la letteratura, mai stanca e assopita da tale battaglia, chiama in campo il teatro dell’Assurdo: se non c’è padre non c’è Dio, se non c’è Dio non c’è morale, costruzione, esiste solo il vuoto a cui tendono Vladimiro ed Estragone, Charlot dei tempi nostri in Aspettando Godot di S. Beckett (1953), in attesa di un messia, perché incapaci di costruire un nuovo modello dopo il crollo dei valori a cui hanno assistito. Ci pensa il Dio Kurt (1968), forse unica opera di successo del teatro di Alberto Moravia, a trovare una soluzione: rappresentando nella realtà stravolta del Lager il complesso di Edipo e l’opera di Eschilo attraverso la storia del deportato Saul che inconsapevole uccide il padre e giace con la madre, il colonnello delle SS ricorda che oggi come allora il padre può essere ucciso, per dar posto ad una morale nuova, ad una morale senza morale. Si ricrea una società senza padre, senza sovrastrutture, una società che declama la morte della famiglia, una società senza peccato. Agghiacciante esperimento.

José Saramago consegna alla recente letteratura il capolavoro “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”, premio Nobel nel 1997 e ci regala una figura di Gesù tormentata perché non vuole adempiere ai doveri impostigli dal padre. Sofferente per un’esistenza sottratta al comune modo di vivere, Gesù non vuole essere il prescelto, non vuole essere l’autorità ventura. Ma la lotta, costretta a priori a vederlo sconfitto, si risolve soltanto nelle confessioni intime del giovane, incapace di una vera ribellione al volere paterno, consapevole attraverso una mancata rottura, che le colpe del padre saranno scontate da lui e dal suo operato. Così, in croce esclama: “Allora Gesù capì di essere stato portato all’inganno come si conduce l’agnello al sacrificio, che la sua vita era destinata a questa morte, fin dal principio e, ripensando al fiume di sangue e di sofferenza che sarebbe nato spargendosi per tutta la terra, esclamò rivolto al cielo, dove Dio sorrideva, Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto”.

Perdonate il Padre per le sue colpe millenarie.

Giusy Aliperti -

Ho 25 anni, sono nata e vivo in provincia di Napoli e sono laureata in Filologia Moderna, alla Federico II. Amo leggere, scrivere racconti che non porto mai a termine, mi interessa la politica, il cinema e la letteratura. Insegno italiano agli stranieri, lavoro che mi permette di conoscere culture e modi di vivere per i quali forse una vita intera non basterebbe. Sogno un futuro tra l'insegnamento, la ricerca e la scrittura, un personale Paradiso sulla terra insomma! Sono un'aspirante precaria e un'appassionata lettrice tendente ad una certa pigrizia che provo a nascondere abbastanza bene. Spero in un futuro prossimo di poter vivere viaggiando per il mondo senza mai acquietare il mio spirito romantico.Ma in fondo, l'unica vera definizione che so dare di me, è questa: ancora in fieri.

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