L'altra Eszter


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Ungheria, secondo dopoguerra. Lei è una famosa attrice teatrale. Lui, l'uomo che ama. Ma l'amore è un sentimento pieno di contrasti. Ed è a un monologo che viene affidato il compito di spezzare ogni tabù, di scegliere la crudeltà, il ghigno, per mostrare le altre facce dei sentimenti, quelle che tutti vorremmo nascondere...

 

È stata una decisione spontanea, istintiva, una scelta prevedibile che non mi ha sorpreso; ma ci sono volte – non sono tante, ma ci sono – in cui la cosa più banale e scontata è anche la più vera, e la verità è che questo per me è il libro. Sicuramente non è l’unico, noi siamo tante cose, abbiamo tante facce, cambiamo maschera e parrucca e mostriamo prima il profilo e poi la schiena e poi siamo in penombra e poi con la faccia rivolta al sole. Siamo fatti d’acqua, e l’acqua è viva e scorre. L’acqua ghiaccia, anche: possiamo restare uguali per tempi lunghissimi, poi crescere di dieci anni in pochi istanti. Una parola, uno sguardo, una giornata di vento, anche la più piccola briciola sulla tovaglia ci può modificare, se la sappiamo guardare con attenzione.

Parlo di questo libro perché lui parla di me – e non perché anche io, come la protagonista, mi chiami Ester, o perché la donna in copertina ricordi incredibilmente mia madre. Queste cose son venute prima, c’erano già, e sono quelle che, col senno di poi, io chiamo proveL’altra Eszter parla di me senza saperlo, qualcuno che credevo non mi conoscesse me l’ha messo tra le mani molti anni fa, mi conosceva invece molto bene. Mi hanno detto che nei libri cerchiamo sempre noi stessi, nei libri e in mille altre cose, aggiungo io: io mi cerco negli alberi, nei maglioni, nei colori di un quadro; mi cerco nei sassi, nella pioggia, nel rumore delle tazzine al bar. Mi cerco nel profumo delle saponette per le mani che mi ricordano la casa di mio nonno. Mi cerco in tante cose, ma non sempre mi trovo; nel romanzo di Magda Szabó non credo di essermi cercata: mi ci sono ritrovata a mia insaputa, è stata una sorpresa e una scoperta; in alcune pagine mi ha fatto persino paura.

Ogni persona non è una sola persona, ogni cosa è in realtà tante cose, e questo romanzo è perfetto per esprimere la pluralità che è nel mondo e in ognuno di noi, L’altra Eszter, e forse di altra ce n’è più di una: un’attrice che perde i contorni di se stessa fondendosi con i personaggi che interpreta

«avevo in casa un cappello di paglia, gli tagliai la testa, me lo calcai sul capo, riempii la scatola di ciliegie poi camminai nel giardino cantando: sapevo di essere l’estate»

e una donna dai lineamenti sfocati «Io sono senza faccia», che ritrova se stessa solo quando recita, che è vera solo quando finge:

«Se fossi stata sul palcoscenico avrei saputo che cosa fare in un momento del genere, lì, invece, non mi è venuto in mente nulla»;

una donna che non riesce a lasciarsi alle spalle il passato e una donna incapace di accettare il presente, di riconoscersi in quel che è diventata: «ridevo … della donna che dovevo essere stata per te visto che avevi imparato a mentire così bene, e ridevo … del mostro che sono»; una Eszter bambina già adulta, costretta a maturare troppo in fretta e una Eszter donna che fatica a crescere, che cresce male, che avrebbe bisogno di tornare piccola e ricominciare tutto daccapo: «Nella nostra città, quando ero bambina, ogni tre mesi si teneva un grande mercato … per me significava solo un tormento, mi tentava con articoli superflui d’ogni genere, caramelle di zucchero colorato e pupazzetti di panpepato … chi aveva soldi poteva comprare tutto ciò che desiderava … Bambole, perle, uccelli di legno, ogni mercanzia costava appena ventiquattro centesimi, solo che io non possedevo mai ventiquattro centesimi. ... Una volta mi hai portato al parco dei divertimenti, mi hai comprato il mais soffiato e lo zucchero filato, ci siamo seduti a bordo di una gondola, sul trenino degli spettri mi hai baciato. Quando mi hai sfiorato il viso ti sei accorto che era bagnato di pianto, non hai capito perché e io non sono riuscita a spiegarti che a quel punto era troppo tardi».

Sono tante, le Eszter, in questo libro; il titolo ci dà un indizio, funge per noi da guida, ma le guide possono essere fuorvianti, o comunque ci condizionano sempre, ci danno un’impostazione di lettura, ci fanno cercare e vedere quello che accadrà. Ci saremmo certo accorti in ogni caso, anche con un titolo diverso, della poliedricità della protagonista, avremmo compreso comunque la lotta intestina che la lacera giorno dopo giorno: è quel che si respira ad ogni pagina. Ma le tante piccole sfumature, i dettagli, i particolari di contorno ai fantasmi di Eszter, con questo titolo così preciso e diretto (così poco equivoco) li abbiamo, invece, notati? Az őz, che tradotto sarebbe Il capriolo, è il titolo originale dell’opera, ma è andato perduto nella traduzione italiana: una scelta che mi crea dispiacere e che non condivido, perché l’episodio cui fa riferimento altro non è che la chiave di lettura del personaggio di Eszter e del romanzo intero, è una premonizione, un monito che Eszter non coglie; è un avvenimento che merita la massima attenzione, attenzione che l’autrice, evidentemente, voleva che gli riservassimo. Eszter è solo una ragazzina quando causa la morte dell’animale. Lo fa per errore, per liberarlo lo uccide: un episodio doloroso, triste, che qualunque bambino farebbe fatica a superare, una lezione che non verrebbe dimenticata facilmente. Eszter infatti non scorderà mai quel capriolo, né mai riuscirà a lasciare dietro di sé l’incidente: è la sua condanna, e lei lo sa bene:

«Per me nessuno aveva mai voluto costruire un futuro. C’era solo passato attorno a me».

Uno stupido errore che la vita non le perdona, un passato soffocante dal quale sarà tormentata per tutta la vita, e che aspetterà, in agguato, il momento più opportuno per punirla.

Il romanzo ripercorre la vita di Eszter attraverso la sua stessa voce; è un monologo rivolto all’uomo che ama, ma è anche – e soprattutto – una confessione, il disperato tentativo di un’espiazione: è la resa dei conti. Eszter affronta, per la prima volta, la propria esistenza, analizza il presente cercando spiegazioni nel passato, ripensa all’infanzia tracciandone i legami con l’età adulta; smuove, scava, rivolta, porta in superficie la verità sepolta da anni di menzogne, di finzioni dietro cui ha imparato a nascondersi per difendersi e che l’hanno, col tempo, resa incapace della verità: «Da bambina sono rimasta troppi anni in silenzio per imparare a parlare crescendo; so soltanto mentire o tacere»: questo è quel che Eszter è diventata. È attrice sul palcoscenico ed è attrice nella vita; ha costruito un muro così possente attorno a sé da ritrovare le emozioni solo quando è sul palco: «non guardo mai fuori dalla scena, non m’interessa, non ho tempo, perché sono impegnata a impazzire o a farmi strangolare o a scappare. Finché recito so che la porta che scrollo disperatamente non si aprirà mai, se mi pugnalano è terribile, le mie mani si raggelano, se qualcuno mi aggredisce sto male per la paura, ogni pietra è una vera pietra». La vera Eszter, la Eszter viva è quella che finge: «al momento dell’intervallo so di nuovo perfettamente che i muri sono semplici fondali di cartapesta, che io sono io … L’intervallo non mi interessa». Eszter riepiloga, ma lo fa brutalmente, con ferocia, non ammorbidisce un solo colpo, perché questo è l’unico modo che conosce. Riporta a galla ciò che da piccola nascondeva tacendo, ciò per cui ha imparato a mentire così bene da finire col rendere, la sua intera esistenza, una menzogna: le scarpe di zia Irma, la tenda lilla della cucina, le lezioni di pianoforte di sua madre, le uova rubate per avere qualcosa da dare per cena a suo padre, la povertà, la vergogna, la rabbia, l’invidia.

E Angéla. Angéla è una delle altre Eszter, forse la più autentica, l’altra più vera: quella che Eszter non sarà mai. Angéla è una presenza costante nella vita della protagonista; è stata una sua compagna di scuola, personificazione di tutto ciò che Eszter desiderava avere e non aveva, anelava a essere e non era: e così continuerà a essere, sempre. Eszter la odia, odiando inevitabilmente anche se stessa; più cerca di allontanarla più lei è presente, come se non potessero esistere l’una senza l’altra: per quanto lotti per staccarsi da lei, ci sarà sempre qualcosa – ci sarà sempre qualcuno – che le unirà. Sperando di salvarsi, Eszter si protegge con bugie e cattiverie che infonde agli altri e a se stessa: sarà lei a punirsi, e lo farà – di nuovo – con le sue stesse mani. Il passato diventa il presente, il presente anticipa il futuro: è una maledizione quella che pende su Eszter, o forse è solo lei (la lei vera o un’altra, non fa alcuna differenza) a non riuscire a posare il coltello con cui non fa che ferirsi.

«Giacevo tra le tue braccia con gli occhi aperti, immobile e disperata». Eszter ormai è adulta, è un’affermata attrice di teatro, è ricca: ma non è libera. È intrappolata nei ricordi («mai nulla si scorda»), in quello che è stata, in quello che è; si vergognava quando viveva in miseria e prova vergogna ora per i soldi che guadagna tanto da nasconderli tra i vestiti, tra le pagine dei libri, sopra l’asta delle tende, quasi fossero un disonore. Non trova pace, non può vivere in pace: senza dolore non sarebbe se stessa. Vorrebbe sciogliere i nodi delle corde che la legano al passato, ma più tira e più i nodi si stringono, le ferite sanguinano, è lacerata dai sensi di colpa per colpe che non ha commesso, è una falena che con la luce si brucia, ma che alla luce torna sempre, si innamora dell’unico uomo che non può amare, condannandosi all’infelicità. Anche con lui non sarà in grado di essere sincera e di mostrarsi senza maschere, anche con lui mancherà di identità, si cercherà oltre se stessa continuando a negarsi: «Ti ho tradito una volta sola in questi anni. … Non ti ho mai amato tanto come quella notte».

Non so perché mi senta così legata a questo libro, così vicina alla protagonista: chissà quanti questo personaggio l’hanno odiato, quanti l’hanno disprezzato, quanti hanno voluto prendere da esso le distanze. Perché Eszter non è certo una donna da ammirare, da prendere come esempio: è bugiarda, è infelice, è invidiosa, è cattiva e meschina: sbaglia e non impara dai propri errori, ride del dolore altrui, dolore che spesso è lei stessa a provocare, deliberatamente; non uccide Angéla solo perché sarebbe «completamente inutile … Gli essere umani su questa terra sono immortali, finché qualcuno li ricorda loro vivono».

Non ha pietà, non conosce compassione né indulgenza; non sa cosa sia il perdono. Eszter è sbagliata, è come se qualcosa dentro di lei si fosse crepato: forse le altre lei sono proprio il risultato di questa rottura. Un personaggio così non si può non amare. Siamo tutti delle Eszter, tutti ci rivediamo o dovremmo rivederci in lei, il libro è come uno specchio, un riflesso dell’imperfezione umana ed è questo il motivo per cui di questo libro ho amato tutto, in maniera incondizionata, spontanea: perché Eszter è umana, è vera.

Ho anch’io un’altra Ester, anch’io, forse, ne ho più di una; e ho avuto anch’io il mio capriolo, di cui ho causato la morte. Ho provato a perdonarmi, proverò ancora. Sono fatta d’acqua, e l’acqua è viva e scorre.

Ester Maria Schmitt -

Nasce, qualche anno fa, a Padova, ma le origini sono ungheresi, napoletane e tedesche. Non sapendo bene cosa fare della propria vita studia, cosa che le piace e le riesce piuttosto bene. Dopo due lauree è confusa quanto prima, si è innamorata della linguistica ma le mancano le scienze, ama tante cose, troppe, è curiosa di tutto, patologicamente irrequieta e insoddisfatta. Tutto sommato, però, questa esistenza un po’ campata in aria le piace, non ha grandi aspettative e quindi neanche grandi delusioni; unico vero desiderio è quello di avere un cane ma non lo prende perché vuole che il loro incontro sia voluto dal destino, possibilmente in una notte di pioggia, se c’è sofferenza meglio. Ama le storie tristi.

È una scrittrice, questo l’ha sempre saputo, fin da bambina e addirittura prima di imparare a scrivere. In attesa del Grande Giorno, quello in cui pubblicherà il suo libro di racconti (un romanzo non potrebbe mai portarlo a termine, si stanca facilmente e cambia più idee che calzini – quelli un giorno intero in genere le durano), vaga da una parte all’altra – a volte del mondo, più spesso della casa – , mangia tanto da creare sospetti di tenia e lavora come bibliotecaria.

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