Volevo essere una farfalla di Marzano


marzanoVOLEVO ESSERE UNA FARFALLA

Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere

 

 

 

 

Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero.

La sofferenza serve a far urlare.

Per farci avvedere dell’insensatezza. Per permetterci di notare il disordine.

Per scorgere la frattura del mondo.

Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero.

Serve a dare testimonianza del corpo spezzato.

Jeanne Hyvrard

 

 

Parole come comandamenti. Parole come mantra. Parole, parole e ancora parole. Parole che raccontano, riempiono. Parole regalate, inceppate. Parole di senso, parole di vita. Questo è ciò che mi viene da dire se penso all’ultimo libro di Michela Marzano: VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA. Un magma incandescente di parole stupende, forti e spudorate allo stesso tempo; eppur bellissime, vive, vere. Parole che urlano e racchiudono la sofferenza di una donna. Parole che narrano le fratture e le fragilità di una Filosofa e del suo mondo. Parole nuove per nominare il vuoto ed il dolore. Semplicemente parole. O per meglio dire, parole in semplicità. Ed è grazie alle parole che siamo in grado di rivelare il contingente, cioè l'evento - come direbbe l'autrice citando Annah Arendt, la sua pensatrice preferita. Perché è dell'evento che la filosofia - quella incarnata, amata dalla Marzano - si fa carico, si occupa; è da lì che tutto comincia. «Solo partendo dall'evento, dalle macerie del mondo che mi circonda, io riesco a pensare», diceva appunto, la Arendt. Solo e soltanto a partire dai perché?, cui spesso non si può dare risposta alcuna, si riesce a ristabilire un contatto, per porre attenzione nominando l'indicibile e dando finalmente un senso alle cose. «Come diceva Lacan, la verità dell'uomo si esprime attraverso la parola. L'io non è là dove "io penso". Cartesio si era illuso di risolvere ogni problema col suo cogito, ergo sum. La psicanalisi lo ha smascherato». E la Marzano di parole ne ha trovate, eccome. Le ci sono voluti vent'anni di psicanalisi, di cui dieci in francese, per trovare tutte le parole necessarie; le sue parole. Quelle capaci di riempire i vuoti, di offrirsi come un ponte da stendere sulle fratture; quelle in grado di restituire la gioia, «quella che è lì e che non ero in grado di vedere perché pensavo al dopo, a quello che dovevo fare, a quello che dovevo essere».

Anche le parole del titolo, non sono parole scelte a caso. Volevo essere una farfalla esprime un desiderio profondo dell'autrice, un obiettivo che divenne presto un dovere da raggiungere: essere leggera perdendo peso. Già, perché la vita della Marzano - la filosofa contemporanea più brillante esistente, l'intellettuale più intuitiva che io conosca - sembra giocarsi proprio lì, in quel limbo concernente il dover essere (in cui il metter ordine ed il dovere divengo una sorta di imperativo categorico), dove spesso ci si incastra sino ad ammalarsi. Michela Marzano in questo lavoro, si racconta raccontando l'anoressia, raccontando le tribolazioni che la portarono sino a tentare il suicidio, raccontando come toccare il fondo le fece capire dove e come recuperare l'essenziale: « la cosa più difficile è far capire. Quella sofferenza che è dentro. Immensa. Senza fondo. Che non lascia trasparire nulla. Perché dall'esterno non si vede. Nessun segno. Nessun indizio. Nessuna spiegazione razionale. Anzi, se si guarda dall'esterno tutto va bene. Hai tutto. Assolutamente tutto. Bellezza, intelligenza, sensibilità. Una famiglia, degli amici, dei diplomi. Non sei malata. Cioè, sì lo sei, ma nell'unico senso accettabile del termine, perché, per gli altri, sei tu che sei all'origine della tua malattia. (...) E allora come far capire agli altri che in quel magnifico tutto manca l'essenziale? Come spiegar loro che, nonostante tutto quello che si ha, manca la semplice e banale evidenza che vivere è bello? Come trovare le parole per dire che manca la gioia. Manca la pace. Manca la forza di affrontare il mondo. Manca la voglia... Perché in fondo non hai voglia di niente. Non sai quello che vuoi, quello che desideri, quello che sogni... Sai solo che devi fare qualcosa... che devi reagire... che devi fare in modo che tutto torni come era prima... devi...».

Certo il tragitto verso l'essenziale, quell'essenziale che mancava, non è stato un tragitto facile. Ci sono voluti anni. Anni passati a ripetere sempre le stesse cose, a soffermarsi sulle paure, sulle parole che si inceppavano e proprio non volevano uscire. Anni passati ad analizzare per poter imparare a pronunciare, a dire. Ad esistere ugualmente mentre si asserisce: "no, non ce la faccio" oppure "adesso basta, sono stanca". Anni trascorsi ad apprendere come appoggiarsi su sé stessi, quando le parole ancora oggi inciampano, fanno fatica. Anni per capire che nessuno avrebbe mai potuto colmare quei vuoti. Anni spesi ad educarsi a nominare la sofferenza. «Provate a immaginare cosa può voler dire avere il sentimento di dover fare sempre qualcosa per dare un senso all'esistenza, la certezza di non arrivarci. Che gli altri lo fanno meglio. Che voi non valete nulla, non servite a nulla, non avete alcun valore». Cos é questo se non un incubo?, un incubo in grado di annientarti? Solo leggendo questo libro ho capito quanta forza possa celarsi e racchiudersi in una donna. Di quanto coraggio consti la vita, e il mettersi veramente in discussione. Sono convinta che nessun uomo sarebbe stato in grado di scrivere qualcosa di medesimamente profondo con la semplicità della Marzano. Nessuno avrebbe saputo fare di meglio.

A differenza di quanto suggerito dal sottotitolo di questo libro, non è certo l'anoressia che le ha insegnato a vivere. L'importante non era ricominciare a mangiare, ma ricominciare a vivere: a vivere pienamente. Perché dietro l'anoressia c'é fame, una fame enorme. È per questo che si tenta e di controllare il cibo, perché si è affamati. Affamati d'amore, affamati d'approvazione altrui, affamati troppo. Come denuncia la stessa Marzano, se c'è una parola che la caratterizza è "troppo". Si innamorava troppo, parlava troppo, piangeva troppo, troppo. Una parola in cui molti di noi potrebbero riconoscersi. L'incubo della società contemporanea in cui non bisogna essere troppo, poiché bisogna solo controllare. Controllo spasmodico di tutto: di come ci si veste, di come si appare, di ciò che si dice, di quello che si pensa. Controllarsi è il diktat corrente, in cui se non ti controlli sei troppo sopra le righe o troppo disperato. Sicuramente troppo. Di nuovo troppo. Un tentativo disperato di uguagliare, normare, trattenere. E se c'è qualcosa che ho imparato è che le donne faticano terribilmente a trattenere. Le donne sono abituate a lasciar andare e questo troppo davvero non si addice loro. Volevo essere una farfalla diventa così un libro portatore di un buon augurio. L'augurio di ricercare sé stessi al di là e al di fuori delle gabbie, semplicemente oltre. Una viaggio alla ricerca dell'essere, dell'essere io, leggero come una farfalla, reso sicuramente più accessibile grazie alle parole restituite da Michela Marzano. Che buon viaggio sia, allora, per tutti.

Fiammetta Mariani -

Fiammetta nasce alla periferia di Roma nel 1986. Studia Filosofia e Storia della filosofia presso l'Università "Sapienza" di Roma, ha scritto la sua tesi triennale sulla figura di Ipazia d'Alessandria e sulle tematiche femminili e di genere.


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