Editoria: interviste

Di passaggio, fra terra e memoria

di Sara Meddi

Di passaggio, fra terra e memoria

 

Nel suo libro Jenny Erpenbeck affronta una serie di temi suggestivi come l'orrore dei campi di concentramento, le storie di vincitori e vinti, il rapporto con la natura e con la casa, intesa come luogo fiisco ma anche metaforico. L'intervista....

 

 

 

passaggioIl libro - Una tenuta nelle campagne del Brandeburgo viene suddivisa tra le quattro figlie di un vecchio possidente terriero. La parte più modesta, un bosco su cui sorge una piccola casa con un grande giardino e l’accesso diretto al lago, è affidata all’ultimogenita, Klara, che proprio nelle acque di quel lago decide di togliersi la vita. Tra cessioni ed espropri, l’abitazione passa di mano in mano, testimone silenziosa di violenze e passioni, urla e sospiri dei suoi inquilini, tutti inesorabilmente alla ricerca dello Heim, di un luogo in cui sentirsi “a casa”. Undici le vite, undici i destini che si danno il cambio, incastrandosi come tessere di un raffinatissimo mosaico naturale, su cui però la storia lascia le sue indelebili impronte, dalla tragedia della guerra all’orrore dei campi di concentramento, dalla sofferenza dei vinti all’arroganza dei “liberatori”. A scandire il ritmo di questo racconto fuori dal tempo – ma dal tempo profondamente segnato – è la presenza costante della dodicesima tessera, il giardiniere, l’unico a credere soltanto nella natura e nell’alternarsi delle stagioni, il solo a prendersi cura della casa, con immutata devozione, fino alla fine.

L’autrice - Jenny Erpenbeck (1967), nata a Berlino Est ed erede di una dinasta di scrittori della DDR, ha una formazione accademica musicale e teatrale. È stata allieva, tra gli altri, di Ruth Berghaus e Heiner Müller. Il suo libro d’esordio, Geschichte vom alten Kind (Racconto della bambina vecchia, 1999), ne ha rivelato il precoce e originale talento, mentre il più recente Di passaggio, tradotto in una dozzina di lingue e straordinario successo di critica e pubblico, l’ha consacrata come uno degli astri nascenti della letteratura tedesca.

 

 

In questo libro ci sono molti personaggi ma, secondo la mia opinione, la vera protagonista è la casa stessa. C’è un luogo al quale ti sei ispirata per dare vita a questo posto? Da dove nasce la casa?

Nella casa, da cui ho tratto ispirazione per quella del libro, ho trascorso da bambina tutte le mie vacanze estive e talvolta anche quelle invernali – era la casa di campagna dei miei nonni. Ho amato molto quel luogo, in fondo mi sentivo più a casa lì che non nell’edificio di recente costruzione in cui trascorrevo le mie giornate a Berlino. Dopo la caduta del Muro la vertenza giudiziaria di reintegro promossa dai precedenti proprietari si trascinò per undici anni, e in quel periodo la casa rimase vuota. Non potevamo venderla, ma non avevamo nemmeno abbastanza denaro per lavori di manutenzione a fondo perduto. Per me fu molto doloroso assistere passo dopo passo al suo declino, al totale abbandono di un luogo, sempre così pieno di vita e al quale erano legati tanti ricordi. Mi è capitato di sognarla spesso, quella casa. Scrivendone ho potuto rielaborare la perdita, per me è stato un modo di prendere congedo da quel luogo, ma nel contempo anche un’occasione per consolidare il mio legame con esso. Abbiamo perso la causa, e di qui è nato il libro.

 

Il tempo che scorre è una presenza importante nel libro, qual’ è il tuo rapporto con la storia e la memoria?

Mi interessa il legame che le storie, e quindi il tempo, hanno con i luoghi. Credo nell’identità dei luoghi, un po’ nel senso che ci suggerisce il regista cinematografico Claude Lanzmann nel suo film sulla Shoah. Indipendentemente dal fatto che qualcosa venga distrutto o meno, io credo che la sua memoria abbia una sorta di impalpabile persistenza. Quando ho cominciato a occuparmi più nel dettaglio delle vicende che sono accadute o che sarebbero potute accadere nella nostra casa di campagna, quel luogo è diventato per me un punto d’incontro, un legame fra i diversi tempi. Mentre ne scrivevo, molte cose che ormai appartenevano di fatto al passato, sono tornate a essere per me il presente.

 

La casa è un luogo attraversato da molte vite in molti tempi, dall’inizio dello scorso secolo alla seconda guerra mondiale al dopo guerra. La casa può essere uno specchio o una metafora della storia della Germania?

Interessante in quel luogo, in cui tutti coloro che lo hanno abitato cercavano in fondo soltanto l’idillio e l’isolamento dal mondo, è proprio il fatto che, essendo vicino a Berlino, è stato inevitabilmente lo scenario di tutti i passaggi storici. Nei dintorni di Berlino, tanto più in riva a un lago così grande e così bello, è più che naturale che le elite delle diverse epoche vi si siano sempre ritrovate per la villeggiatura, c’erano artisti, politici, imprenditori di successo. Con i rivolgimenti sociali cambiavano di continuo anche le elite. L’idillio e l’isolamento dal mondo erano un’illusione.

 

C’è un personaggio del libro al quale sei più legata? E se la risposta è “sì” perché?

Durante le mie ricerche ho trovato le lettere originali della bambina ebrea Doris ai suoi genitori, lettere che mi hanno scossa moltissimo. Nel mio libro la figura di Doris, benché la sua vicenda sia ambientata a Varsavia, risulta essere quella che, con lo sguardo  della bambina sempre rivolto all’indietro, ha per me il legame più profondo con il luogo in riva al lago. Andando incontro alla morte, al nulla, è la figura che si allontana più di qualsiasi altra dal mondo reale, dunque dalla realizzazione dell’utopia, ma così è anche la più vicina all’utopia in sé e per sé. Scrivendo avevo la sensazione che il suo destino, a prescindere dalla cronologia, fosse sostanzialmente la fine del libro. Non può esserci congedo più radicale. Per questo diventa parametro di tutte le altre storie. Io avrei potuto essere Doris. Solo per caso sono venuta al mondo trent’anni dopo.

 

Il giardiniere rimane sempre fedele alla casa, la cura qualunque cosa accada. Forse rappresenta l’anima stessa della casa o del bosco che la circonda. Ti sei mai sentita legata così strettamente a un luogo?

Spazzare una casa, spaccare la legna, vangare il giardino – sono gesti che hanno una loro bellezza. E che restano. Si tramandano direttamente da una persona all’altra, al di fuori della Storia con la maiuscola, e grazie a questo elemento affatto concreto - il legame con le cose che si possono toccare, come le piante e gli attrezzi - acquistano una sorta di eternità. Con il suo lavoro il giardiniere diventa il vero padrone del giardino, più di tutti i diversi padroni di cui è stato alle dipendenze. Io stessa, ogni volta che  rastrello le foglie, sono molto felice, a prescindere dal luogo dove lo faccio, di lavorare a contatto con la natura.

Qual è il tuo rapporto con la scrittura? Ci sono ritmi giornalieri che segui in modo regolare?

Nostro figlio frequenta la quarta elementare. Io quindi lavoro cinque giorni la settimana, di sabato e domenica facciamo delle gite, giochiamo oppure io mi occupo per l’appunto di rastrellare le foglie. Trovo bello che la vita e lo scrivere siano strettamente legati. Al mattino, quando nostro figlio è a scuola, mi siedo alla scrivania e smetto quando devo andarlo a prendere. Nel frattempo, se ho bisogno di una pausa per riflettere, svuoto la lavastoviglie o stendo la biancheria. Talvolta, se ho molto da fare, lavoro ancora qualche ora la sera. Ma naturalmente il mio lavoro non consiste solo nello scrivere: leggo, faccio ricerche, parlo con la gente, visito delle località che mi fa piacere aver visto di persona prima di mettermi a scrivere qualcosa al riguardo. In ogni caso cerco comunque di dedicare tutti i giorni un po’ di tempo a quello che è il mio interesse del momento.

 

Quali sono i libri che consideri più significativi nella tua formazione intellettuale?

Fin da bambina leggevo molto volentieri gli autori dell’Ottocento, amavo molto Storm, Keller, E.T.A. Hoffmann, Stifter, e più tardi Kafka, Proust, Checov, Hölderlin, e anche l’Iliade e l’Odissea. Quando ho cominciato gli studi sul teatro si sono aggiunti i drammaturghi: Büchner, Shakespeare, Kleist.

 

Che libri vorresti consigliare ai nostri lettori?

Se intende autori viventi, gli austriaci Josef Winkler e Wolf Haas.

 

Intervista a Emanuela Zandonai

di Sara Meddi

Sara Meddi intervista Emanuela Zandonai – Editore di confine e di confini.

emanuela zandonaiEmanuela mi accoglie una mattina di dicembre presso lo stand Zandonai alla fiera di Roma “Più libri più liberi”. Approfittiamo di un inizio di giornata tranquillo per accomodarci su due divanetti, incastrati a fatica tra libri e profumate cassette di mele del Trentino pronte ad essere regalate ai clienti, per fare due chiacchiere sulla casa editrice e sulla sua vita da editore di confine e di confini.

La prima domanda è scontata ma essenziale. Come è nata la Zandonai?

È successo così. Nel 2007 mi sono seduta intorno a un tavolo insieme ai miei collaboratori più vicini per pensare a come dar vita a una nuova casa editrice e discutere del progetto culturale ed editoriale che volevamo portare avanti. Uno dei punti di partenza era (ed è tutt’ora) la saturazione del mercato, quindi era prioritario trovare uno spazio editoriale ben definito che caratterizzasse una nuova casa editrice e che ci facesse trovare un piccolo spazio sullo scaffale di ogni libreria.
Siamo dunque partiti da una consapevolezza e da una sicurezza: identità e specificità si raggiungono a partire dal proprio territorio e dalla propria provenienza. Noi siamo del Trentino, terra di confine per antonomasia, e per questo abbiamo lavorato sul concetto di confine e sulla sua conseguenza più logica: lo sconfinamento. Lo sconfinamento può essere sia disciplinare, come una trasversalità tra narrativa e saggistica, sia territoriale. A quel punto è stato quasi inevitabile arrivare alla conclusione che tra i nostri vicini, poco conosciuti e poco pubblicati in Italia, c’erano per l’appunto i Balcani.
Noi portavamo già “in dote” un grandissimo autore, Boris Pahor, che è nato e vive a Trieste. E che cos’è Trieste se non la porta di questo mondo affascinante? Da lì abbiamo costruito il cuore del nostro catalogo, che nel frattempo ha ampliato il suo sguardo a tutta la Mitteleuropa, partendo dall’Austria e dalla Germania per proseguire verso Est.
Abbiamo trovato autori strepitosi, che trasportano nei loro libri e nella loro scrittura una serie di forti contrasti che sanno alternare momenti di grandissimo pathos a momenti di grande comicità.
Questo mi ha affascinato, ci ha affascinato e ci continua ad affascinare.

E qual è secondo te la qualità principale di questa letteratura balcanica che sfugge al lettore italiano? Quella che la differenzia dalle altre letterature europee e internazionali alle quali siamo più abituati.

Sicuramente l’intreccio con la Storia, quella con la “S” maiuscola. C’è una scarsa conoscenza dei Balcani in generale ed è qualcosa di paradossale data la nostra reciproca vicinanza. I pregiudizi e gli stereotipi nascono proprio dall’ignoranza, nel senso etimologico del termine, che ha sempre condizionato l’Italia nell’avvicinarsi ai Balcani sia dal punto di vista sociale che culturale. Pensiamo per esempio al cinema, prima di Kusturica questi erano luoghi ampiamente sconosciuti, e un discorso analogo può essere fatto per la letteratura. Noi siamo tra i primi a elaborare un preciso progetto editoriale specifico in questa direzione.

C’è un autore che è centrale nel vostro catalogo, un autore che secondo voi rappresenta la casa editrice?

Questo è un punto molto importante. Noi cerchiamo di essere una casa editrice di autori più che di singoli libri, cerchiamo sempre di fare un percorso di più titoli di un autore, perché è l’unico modo per dare continuità a un progetto e approfondire uno stile. E’ il nostro modo per legarci agli autori e poter dire: “Siamo stati i primi a scoprirli e a pubblicarli e quindi ce li teniamo stretti”.
Penso a due autori in particolare del nostro catalogo: Miljenko Jergović, che è tra i pochi già  conosciuti in Italia perché già pubblicato da Quodlibet, da Scheiwiller e da Einaudi e perché ha vinto il premio Grinzane Cavour con Mama Leone. Noi l’abbiamo recuperato perchè è uno degli autori più grandi e rappresentativi della ex Jugoslavia. Nato a Sarajevo ma croato d’adozione, è in grado di raccontare con un intreccio unico di pathos e ironia la storia della sua nazione. Il suo libro più recente pubblicato da noi, Al dì di Pentecoste, è un epos che usa la struttura del noir e del giallo per  raccontare tutto quello che è stata la ex Jugoslavia.
Un altro autore centrale nel catalogo della casa editrice è David Albahari. La sua scrittura rincorre il pensiero, è secca, ossessiva e veloce ma allo stesso tempo sa essere molto profonda. Finora abbiamo pubblicato tre suoi libri, quasi una trilogia: uno, Zink, è il libro per il padre, uno, L’esca, è il libro per la madre e il terzo, Ludwig, è il libro per l’amicizia.
Per i motivi di cui parlavo non è facile arrivare a questa letteratura, ma quando cominci a leggerla non ti stacchi più perché è qualcosa di nuovo, e questo è il feedback principale che ricevo dai nostri lettori.

Infatti ti volevo proprio chiedere come è stata la risposta dei lettori alla vostra casa editrice. Sappiamo quanto sia difficile mandare avanti una casa editrice ma in positivo o in negativo c’è stato qualcosa che vi ha sorpreso?

Quando siamo partiti, quasi cinque anni fa, era una scommessa. Oggi posso dire che noto, soprattutto
alle fiere e in particolar modo alla fiera di Roma, che la gente torna al nostro stand dicendo “Ah, già l’anno scorso vi abbiamo notato…” e, cosa ancora più significativa, “Adesso vi troviamo in libreria!”.
La visibilità è decisiva per un editore, perché non essere visibile equivale a non fare i libri. Anzi è peggio! Perché sai di averli fatti, sai che sono libri bellissimi e tuttavia li vedi rimanere lì, fermi!
Ora invece c’è un aumento di fan, chiamiamoli così, di lettori forti che si affezionano ai libri Zandonai. Dopodiché…e questo è un appello…diventate fan su Facebook! Perché da lì diamo un sacco di notizie sui nostri libri e avvenimenti. E questo è quello che volevo dirvi, dal cuore!

Accogliamo e diffondiamo l’appello! Un’ultima domanda. Com’è fare editoria alla periferia del mondo editoriale italiano, in Trentino?

Questa è una domanda che tanti mi fanno perché in effetti è un’anomalia. Certamente ci aiutano le tecnologie, che ci permettono di essere un po’ dovunque. Ma questo non basta, perché si sente la differenza tra Milano e Roma, le grandi capitali dell’editoria italiana. Ovviamente lì c’è più fermento, più vitalità e un’atmosfera sicuramente diversa.
Allo stesso tempo questa marginalità è una condizione che ti porta a lottare per entrare, ad essere più creativo, ad  immaginare e a dar forma a uno scenario diverso. È una battaglia giornaliera per avvicinarsi a quell’orizzonte che ricerchiamo. E’ comunque necessario rimanere in contatto con gli altri editori, Milano e Roma sono sempre dei punti di riferimento. Poi tra editori ci si conosce, soprattutto tra piccoli e medi editori. E, se devo essere sincera, trovo anche una certa solidarietà.

Volevo anche chiederti se c’è un editore che hai preso come riferimento. O comunque una storia editoriale che ti ha segnata nella tua vita da editore.

Diciamo che, per l’indirizzo mitteleuropeo, Adelphi è da sempre un nostro punto di riferimento. Ovviamente non intendiamo neanche lontanamente accostarci ad Adelphi, ma rimane comunque un modello importante. Poi come esempi virtuosi abbiamo Voland, e/o e Iperborea, che hanno scoperto e diffuso una nuova letteratura in Italia.

Ultimissima domanda! Come vi rapportate con il fenomeno dell’editoria digitale?

Siamo stati tra i primi a pubblicare ebook, fondamentalmente perché credo che questo allarmismo rappresenti un falso problema. E’ successo nella musica come nel cinema, i supporti cambiamo continuamente. Tuttavia il romanticismo dell’editoria rimarrà per me legato alla carta: cambieranno le tirature, si abbasseranno di molto, ma il libro per me resterà sempre un oggetto cartaceo.
D’altra parte l’importante è che si legga. Se i ragazzi, che sono la risorsa più importante che possiamo avere, nascono già “digitalizzati” e riescono a cogliere meglio la lettura attraverso la tavoletta, ben venga! L’importante non è il supporto ma il contenuto e la sua qualità.  
E il lavoro dell’editore, che non è quello dello stampatore, non cambierà, anzi potrebbe avere delle grandi prospettive. Se oggi spesso non ci possiamo permettere di stampare immagini o appendici, in un futuro prossimo sarà possibile sfruttare l’ipertestualità per fare libri sempre più ricchi, con video,  link, immagini. E magari il mondo dell’editoria troverà una nuova voglia di ricrearsi.

Il governo val bene un sorriso

di Sara Meddi

Il governo val bene un sorriso

Di Berlusconi oltre ai Bunga Bunga  ricorderemo anche  le barzellette con cui, per vent'anni, ha devastato le nostre giornate. Si è divertito, voleva farci divertire. Poi le cose sono cambiate. Nel suo libro, Il  Re che ride, Simone Barillari indaga la comicità del Cavaliere nostrano e le furbe manipolazioni che inneggiano alla comicità come arma di distrazione di massa...

 

 

 

Sara Meddi intervista Simone Barillari sul suo ultimo libro, Il Re che ride.

Il libro - Il barzellettario completo del Presidente del Consiglio. Vent'anni di barzellette, novantasette storielle raccolte per la prima volta. Barillari ricostruisce anche il contesto: l'impietosa stoccata a un avversario, un insegnamento morale o pratico, il sottile cenno d'intesa a un alleato, una pura parentesi d'intrattenimento, qualche pillola della sua filosofia imprenditoriale, un'imbarazzante verità su di sé detta scherzando. Un rivelatorio breviario berlusconiano, un'analisi puntuale dei metodi della comunicazione comica di Silvio Berlusconi, ma anche un'importante riflessione su come la comicità, da arma contro il potere, sia divenuta strumento di governo, e su come alla figura di re si sovrapponga quella del buffone. Come il potere si è appropriato della satira trasformandola in uno strumento per generare consenso.

L’autore - Simone Barillari (1971) ha firmato curatele e traduzioni per alcuni dei principali editori italiani e collabora con le pagine letterarie di vari quotidiani. È stato ideatore e direttore di collane di letteratura e ha dato vita alla casa editrice Alet, che ha guidato fino al 2005. Su www.youtube.com/user/IlReCheRide le migliori barzellette raccontate da Silvio Berlusconi

Come è nato il libro?
L’inverno scorso, sfogliando Il Giornale, mi è caduto l'occhio su un trafiletto laterale che riportava, accanto a un ampio articolo su Berlusconi che aveva tenuto un comizio, una barzelletta che lui aveva raccontato durante quello stesso comizio e che era una sorta di ironico pendant alla situazione in cui si trovava a parlare: Berlusconi era a un convegno di industriali, e aveva detto una lunga barzelletta in cui trasforma il paradiso in un’azienda.
Ho pensato che negli anni erano state raccolte più volte le sue battute e le sue gaffe, ma mai le sue celeberrime barzellette, e che forse raccogliere e analizzare criticamente le sue “storielle”, come lui ama chiamarle, poteva essere l'occasione per un’analisi obliqua del personaggio e dei suoi popolarissimi metodi di comunicazione – la dimensione comica, mi è sempre parso, è il vero arcano della sua persona e del suo potere.

Quali riflessioni “sull’uomo Berlusconi” pensi che si possano trarre dalle sue barzellette?
Una delle cose più interessanti che mostrano le sue barzellette, in cui Berlusconi si rappresenta non solo come Cristo, Nerone o Napoleone ma anche, a volte, come un uomo piccolo e brutto, come l’uomo più stupido d’Europa, come un grande bluff, è che Berlusconi è dominato da un doloroso, urlante complesso d’inferiorità e che intorno al suo complesso d’inferiorità è cresciuto, come un mostruoso carapace, come un gigantesco ispessimento protettivo del suo io, uno spaventoso complesso di superiorità. Messia o miserabile, Berlusconi si sente comunque diverso da tutti, e quando qualcuno che si sente diverso da tutti gli altri non sopporta più il pensiero di essere l’ultimo degli uomini, non può che gridare di essere il primo. Questo, peraltro, è anche il motivo per cui Berlusconi si sente così invincibilmente solo anche se è in mezzo a così tante persone, essendo l’amicizia un rapporto tra uguali.

Qual è la tua interpretazione dell’uso che Berlusconi fa della comicità e della manipolazione che ne deriva?
Per quanto possa sembrare strano, Berlusconi usa veramente le barzellette per sedurre: vuole far ridere le donne, come fanno spesso gli uomini che non sono né belli né affascinanti. Sanno che una donna che ride concede un varco nel volto e non si difende più, che una donna che ride chiude gli occhi nella risata e non giudica più l’uomo che ha di fronte. Ridere è distrarsi, e l’uomo che fa ridere una donna la distrae innanzitutto da se stesso.
Come tutti gli uomini insicuri, Berlusconi oscilla vertiginosamente tra lo scherzo e la minaccia, spesso nella stessa frase, e così usa a volte le sue barzellette con le donne non solo per provare a divertirle ma anche per fare la voce grossa. La barzelletta del “bunga bunga”, una barzelletta che parla di sodomia e morte, e altre sue barzellette spinte, come quella del cannocchiale, sono minacce appena velate da un sorriso – in fondo, ridere è anche mostrare i denti. Alle donne che entrano nella sala del “bunga bunga” la storiella annuncia, metà scherzo e metà avvertimento, che chi resiste a Berlusconi non potrà comunque fare a meno di fare, lì dentro, quello che lui vuole fare.
Al tempo stesso le barzellette di Berlusconi dicono anche più di quanto Berlusconi vorrebbe dire, soprattutto adesso che, invecchiando, Berlusconi è diventato un raccontatore tourettico di barzellette, sempre meno capace di trattenersi anche quando dovrebbe – è come se attraverso la comicità affiorassero continuamente i suoi pensieri repressi, quelli che il suo ruolo istituzionale gli impedisce di rivelare ma che lui fatica a reprimere. Le barzellette, in fondo, sono il suo inconscio che parla e dice tutto, spesso suo malgrado. Dice i suoi giudizi più nascosti su questo e su quello, dice le sue frustrazioni e le sue fantasie, dice quello che pensa veramente di sé (sono un messia, sono uno stolto) e quello che pensa delle donne (le belle donne giustamente costano, ma poi devono comportarsi bene).

Qual è il ruolo della donna e dell’uomo in questa comicità?
Ho la sensazione che a volte Berlusconi racconti barzellette spinte alle donne meno per piacere che per dovere, che le battute volgari come il “bunga bunga” siano meno un ammiccamento alle giovani donne davanti a lui che agli altri uomini anziani dietro di lui. Berlusconi appartiene a quel genere d’uomini e a quella generazione di piccolo borghesi che si sentono quasi in obbligo di fare un apprezzamento pesante a una bella donna, non soltanto perché pensano che le donne, tutte un po’ puttane, sotto sotto gradiscano e anzi quasi se lo aspettino, ma anche perché quegli uomini vogliono dire agli altri e a se stessi che loro, vecchi lupi, hanno forse perso qualche pelo ma di certo non il vizio virile. C’è una barzelletta emblematica che Berlusconi va raccontando da qualche tempo: «Stamattina in albergo volevo farmi una ciulatina con una cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: “presidente, ma se lo abbiamo fatto un'ora fa...”. Vedete che scherzi che fa l'età?». Ecco, passano gli anni e Berlusconi ammette piuttosto di perdere la memoria che la virilità.

Qual è la tua interpretazione della comicità di Berlusconi nel fenomeno del “bunga bunga”?
Tutto negli appuntamenti galanti di Arcore e di Palazzo Grazioli si ripete sempre identico in un mesto cerimoniale che rivela la profonda, incolmabile insicurezza di sé che attanaglia Silvio Berlusconi. Raccontano le ragazze che Berlusconi mostra loro filmini in cui è ai summit internazionali accanto ai grandi della Terra, che Berlusconi suona al piano canzoni napoletane o canta accompagnato da Apicella, che Berlusconi recita ridendo una barzelletta dopo l’altra. Quanto dev’essere grande l’insicurezza di un uomo che è tra i più famosi, ricchi e potenti del mondo ma si sente di doverlo ricordare insistentemente, di sfoggiare la sua vicinanza a Bush o a Putin come farebbe un qualsiasi proprietario di una trattoria che in una foto autografata appesa vicino alla cassa sorride insieme a un attore della tv venuto a mangiare da lui? Quanto dev’essere grande l’insicurezza di un vecchio magnate che accoglie le sue giovani e poco illustri ospiti in una reggia lussuosa con tavole imbandite e invitati importanti, eppure vuole far vedere loro quanto è bravo come intrattenitore e prova a compiacerle con vecchie barzellette e canzoncine sdolcinate?  
Berlusconi è un narciso, e il narcisismo richiede sempre un’assidua costruzione dell’immagine che un uomo ha di sé contro le dolorose smentite della realtà quotidiana, un martellante raccontare del “bunga bunga” per riuscire a dimenticare che le donne di cui si circonda lo chiamano «culo flaccido». Anche per questo Berlusconi così spesso dice e ridice le stesse cose, le stesse storielle, per convincere se stesso, per ripetersele e per rendersele più vere ogni volta che le ripete. È a sé, dunque, che Berlusconi dice innanzitutto le sue barzellette, per tirarsi su, per rassicurarsi e per sentirsi meno solo: le sue storielle sono le piccole, necessarie favole che Berlusconi si racconta continuamente.

Mi sento di farti anche un altro tipo di domande, più legate al tuo modo di vivere la scrittura.
Per esempio puoi dirmi come si svolge la tua giornata da “scrittore”? C’è un “metodo” o un “rigore” che segui quando scrivi?
Lavoro ogni mattina tra le cinque e le sei ore di fila. Lavoro in silenzio, senza orologio, senza internet, con il telefono spento. Scrivo poco, riscrivo molto – scrivere è la mia deliziosa pena. Lavoro sempre, lavoro nella testa anche quando non lavoro alla tastiera.

Ogni dedica ha una storia particolare. Come nasce la dedica di questo particolare libro?
Il libro è dedicato alla donna che mi ama, e che rende migliore me e il mio scrivere. Dedicando il libro a lei e scrivendo «per sempre», sto dicendo che non so come sarà la mia vita negli anni a venire se non che sarà con lei, e tra i libri.

Puoi dirci se hai un nuovo progetto editoriale in cantiere?
Sì, ne ho due. Un libro che viene da un testo che ho scritto tre anni fa, e che mi accompagna da allora. Un progetto editoriale che viene da un’idea che ho avuto tre mesi fa, e che mi incalza ostinatamente.

 

Editoria: le interviste

di Sara Meddi

Sara Meddi intervista Daniela Di Sora, editore della casa editrice Voland



La prima domanda è d'obbligo, come è nata la Voland?

La Voland nasce in modo molto poco originale, dal mio amore per i libri. Ma anche da una buona dose di incoscienza, unita a una testardaggine fuori misura. Ho cominciato a interessarmi alla letteratura russa dopo aver letto a 17 anni Delitto e castigo di Dostoevskij, per poi continuare con l’iscrizione a russo alla facoltà di lingue di Roma. Ho lavorato sei anni all’Università di Mosca, poi in Bulgaria, ho tradotto per varie case editrici dal russo e dal bulgaro, ho diretto la collana di letterature slave della Biblioteca del Vascello. E, a dicembre del 1994, mi sono posta la domanda fatidica: “Perché far pubblicare da altri i libri che io vorrei leggere e far leggere in italiano?” E allora ho messo un’ipoteca sulla mia casa, sono andata da un notaio e ho fatto una Società a responsabilità limitata, con l’intenzione di far tradurre e pubblicare solo buona narrativa delle letterature che più amavo e meglio conoscevo.

In che modo il progetto editoriale della Voland si distingue da quello delle altre case editrici?

La differenza maggiore è forse proprio nella particolare attenzione con cui seguiamo, appunto, quanto avviene in campo letterario in Russia, Bulgaria, Polonia, e negli altri paese slavi. La fedeltà alla nostra casa editrice di un’autrice come Amélie Nothomb, nello stesso tempo prolifica, di grande qualità e straordinariamente disponibile, ci permette inoltre di fare anche scelte più rischiose dal punto di vista commerciale, con la quasi certezza che a fine anno il bilancio sarà almeno in pareggio.

Che libro consiglieresti a un lettore che non conosce la tua casa editrice?

Come sempre, l’ultimo figlio è quello che è più vicino al tuo cuore. Consiglierei il romanzo Sank’ja, del russo Zachar Prilepin. È russo, e dunque emblematico della casa editrice, ed è un romanzo dalla forza straordinaria. Se si vuole conoscere la Russia di oggi, ecco il libro e l’autore indispensabili. Zachar Prilepin è stato tra l’altro indicato da Newsweek Magazine come l’Hemingway russo.

A quale libro del tuo catalogo sei più affezionata?

Alla prima edizione di Igiene dell’assassino, di Amélie Nothomb, il libro e l’autore che hanno cambiato la storia della casa editrice.

C'è un libro che si è rivelato un successo inaspettato? E un fallimento inaspettato?

Un successo inaspettato è stato Guida alla Parigi ribelle, di Ramón Chao e Ignacio Ramonet. Va detto che tutti i libri di questa collana, Finestre, sono stati dei successi abbastanza inattesi: Come diventare malato di mente (5 edizioni) Note di cucina di Leonardo da Vinci (6 edizioni), libri piacevoli, intelligenti, divertenti. Un fallimento inaspettato: Guantanamo. Speravo che il tema e la forza del racconto fossero accolti con maggiore interesse.

Quale consideri il vostro più grande successo in questi 16 anni di attività?

Essere riusciti a mantenere un’alta qualità di proposta, ed essere presenti e riconoscibili in libreria. Una bella grafica, un libro curato nella traduzione e nella stampa, un carattere fatto disegnare apposta per noi e che si chiama con il nome della casa editrice: sono cose che mi riempiono di gioia. Un esempio concreto? La collana Sirin Classica, classici russi fatti ritradurre da Voland da scrittori italiani, collana che il nostro grafico, Alberto Lecaldano, ha disegnato pensando alla classica BUR. E sta andando molto bene anche in libreria. A volte la qualità paga…

Com'è la tua giornata di editore?

Un incubo. Troppo corta.

Quali sono i punti di forza delle case editrici indipendenti rispetto ai grandi gruppi editoriali?


Una maggiore flessibilità della struttura interna e del piano editoriale, una maggiore curiosità e apertura. La necessità di trovare autori nuovi. La capacità di intendere il lavoro editoriale ancora come un mestiere appassionante, e non solo come fonte di guadagno. Pubblicare libri non è la stessa cosa che vendere mortadella, con tutto il rispetto per la mortadella, che adoro.

In un mercato dominato dai grandi gruppi editoriali e dalle grandi catene di distribuzione come è possibile combattere l'omologazione delle letture?

Credendo in questo lavoro, credendo nella necessità di buoni libri. Cercando di bilanciare le scelte, utilizzando internet e il web. Curando l’aspetto grafico e cercando di fare in modo che anche questo non sia omologato. Utilizzando buoni traduttori (noi abbiamo anche messo il nome del traduttore in copertina).

Cosa ne pensi della recente legge Levi?

Non è certo una legge perfetta, ma almeno è servita a frenare la disastrosa corsa allo sconto che stava distruggendo e drogando il mercato del libro. Il numero di librerie indipendenti che sono state obbligate a chiudere in questi ultimi anni è incalcolabile, e le librerie indipendenti sono la vita del libro.

Una domanda da lettrice: qual è il tuo libro preferito?


Sono indecisa tra I demoni di Dostoevskij e I tre moschettieri di Dumas. Ma amo molto anche la poesia, anche se non sono così folle da pubblicarla.

 

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